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28/3/1995

 

Wittgenstein - Libro blu e libro marrone (2)

 

-(pag. 11) L’errore che possiamo fare potrebbe esprimersi così: noi cerchiamo l’uso di un segno, ma lo cerchiamo come se esso fosse un oggetto coesistente con il segno. (Una delle ragioni di quest’errore è, di nuovo, che noi cerchiamo una “cosa che corrisponda a un sostantivo”) Il segno (l’enunciato) riceve la propria significanza, il proprio significato, dal sistema di segni, dal linguaggio cui appartiene. In breve: comprendere un enunciato significa comprendere un linguaggio. -

Questo è molto importante anche se può risultare quasi ovvio dopo tutte le cose che abbiamo dette. Tuttavia merita rifletterci ancora un po’, perché sta dicendo questo: voi vi trovate di fronte a un enunciato, uno qualunque, magari anche vostro, perché no? Allora dice questo Wittgenstein: comprendere un enunciato è comprendere il linguaggio di cui si sta dicendo - ma evidentemente non sta dicendo che se l’enunciato è detto in italiano occorre capire l’italiano, o comunque non soltanto questo, ma soprattutto qual è l’uso, cioè qual è il gioco che in quel momento si va giocando in ciò che si dice, e non c’è altro modo in Wittgenstein per intendere quell’enunciato, dunque cosa vuol dire questo? Sembra sia una cosa molto semplice ma non lo è se ci riflettete un momento. Dunque proviamo a riflettere su questa cosa, intendere l’enunciato è intendere il linguaggio in cui avviene, il gioco in cui avviene. Ma come faccio a intendere il gioco che si sta giocando? Sembra quasi che io debba già prima avere inteso qual è il gioco per potere intendere l’enunciato, parrebbe, e quindi sapere già prima di cosa si tratta, come dire occorre che io sappia ciò di cui stai parlando per capire quello che dici. Questo è un inghippo che sorge immediatamente e che ci costringe a riflettere su che cosa comporta intendere il linguaggio, sapere il gioco che si sta giocando. Soprattutto sapere come faccio a sapere il gioco che si sta giocando, in effetti qualcuno ha avuto il destro a partire da questi enunciati per accusare Wittgenstein di una certa religiosità, il che non è propriamente, e cioè di una sfumatura mistica nella sua struttura. Ma vediamo se è proprio così. Intendere dunque un gioco che si sta giocando...(...) tuttavia non c’è da nessuna parte in Wittgenstein, nessuna indicazione su come operare questo, e cioè lascia la cosa assolutamente in sospeso, dice “intendere il gioco linguistico” o intendere il linguaggio, non dice assolutamente né che cosa intende con questo, né come questo possa avvenire e neanche se sia possibile. Questo rende più difficile parlare di misticismo di Wittgenstein, cioè occorre vedercelo proprio ma potremmo riflettere intorno a queste domande se è possibile, intanto che cosa si debba intendere con questa formulazione “intendere il linguaggio”. Ciò da cui muoviamo è questo, che il linguaggio è una struttura che ci consente di riflettere intorno al linguaggio, ci consente di parlarne e quindi qualunque riflessione intorno al linguaggio avviene nel linguaggio, cioè è consentito da questa struttura. Bene, detto questo abbiamo stabilito ciò di cui non possiamo non tenere conto. E ciò di cui non possiamo non tenere conto è che intendere il linguaggio avviene “all’interno” tra virgolette, avviene attraverso il linguaggio”. Allora potrebbe dire qualcuno: è il linguaggio che intende se stesso? Adesso non ci precipitiamo a rispondere a questa domanda, ma semplicemente riflettiamo su ciò di cui, come dicevo prima, su ciò di cui non possiamo non tenere conto, cioè che è attraverso il linguaggio che avviene questo intendimento, perché senza il linguaggio non potremmo intendere niente. Allora a questo punto intendere il linguaggio, stabilire ciò che il linguaggio mano a mano pone innanzi, mentre si dice, ma che cosa pone innanzi? Pone innanzi delle regole, delle strutture, dei modi. Ora intendere il linguaggio come prima rilevazione è constatare, rilevare, questa struttura, diciamo accogliere ciò che si para innanzi, come una combinazione, come associazione. Sempre tenendo presente questo aspetto, che cogliere tutto ciò, considerare tutto ciò, avviene attraverso il linguaggio, occorre sempre tenere conto di questo, viene a mancare una implicazione notevole se lo perdiamo di vista. Dunque questo, ciò che io mi trovo a dire si trova strutturato in un certo modo, ora perché si trova strutturato in un certo modo non ci riguarda, ma l’accogliamo così come accade. Ma allora? Intendere il linguaggio, intendere l’enunciato, sono la stessa cosa? Ancora una riflessione: il linguaggio in quanto tale è una cosa astratta, un’astrazione, il linguaggio è fatto di una serie di cose, c’è l’eventualità che io mi trovi di fronte non tanto al linguaggio in quanto tale, ma all’enunciato, cioè di fronte all’enunciato io constato l’esistenza del linguaggio, cioè attraverso ciò che dico, allora se Wittgenstein dice che per intendere l’enunciato occorre intendere il linguaggio, possiamo anche dargli ragione, solo che la cosa non avviene in successione cronologica, logica, come quella struttura che stiamo illustrando, cioè ho di fronte una successione di elementi, che formano un enunciato...

- Intervento: Wittgenstein parla di calcolo...

Sì, si tratta di questo, che intendere l’enunciato e intendere il linguaggio avviene simultaneamente, come dire che questo enunciato è tale perché c’è il linguaggio, ma il linguaggio non posso neanche pensarlo senza l’enunciato, ecco che allora diventa più chiaro in un certo senso, non è che sia semplicissimo, come dire... non posso intendere nulla se non mi trovo a dire, ma ciò che dico in quanto tale è preso in un linguaggio cioè nella struttura, è perché c’è questa struttura che è l’enunciato. Questo ha un’importanza capitale in ciò che andiamo facendo, questione centrale, proprio per quanto riguarda l’esperienza analitica dal momento che di fronte ad un enunciato di qualcuno, dove evidentemente non è che io capisca questo enunciato perché so qual è il linguaggio che sta usando questa persona, questa sarebbe una posizione ermeneutica, cioè so il contesto e quindi trovo un senso all’enunciato, ma in questo modo potremmo dire che ascolto un enunciato, questo enunciato è preso nel linguaggio cioè si pone per me con certe regole, con una certa struttura che è anche sintattica, che cosa so, propriamente? Che questo enunciato è preso in un linguaggio, anche e soprattutto per chi lo produce, allora e questa è la questione, non è che io so, perché so qual è la lingua che la persona parla, ma se c’è l’enunciato so che c’è il linguaggio che lo struttura. Ecco allora perché chiedo conto di questo linguaggio, chiedo conto cioè del gioco che sta giocando. Chiedo in altri termini di dirmi quale gioco sta giocando questo enunciato, non la persona, ma questo enunciato che gioco sta giocando, perché se c’è enunciato c’è linguaggio e così se c’è linguaggio c’è enunciato, è la stessa considerazione che fa De Saussure rispetto alla parole e alla langue, non c’è solo l’uno, sono uno la condizione dell’altro, sono due aspetti della stessa questione e in effetti per De Saussure il linguaggio ha queste due facce, la langue e la parole. Ecco: - Il segno (l’enunciato) riceve la propria significanza, il proprio significato da un sistema di segni dal linguaggio cui appartiene. In breve comprendere un enunciato, significa comprendere il linguaggio.- Adesso abbiamo visto come possa intendersi, senza fare riferimenti alla linguistica o a chissà quali risvolti metafisici, poi dice:

- è come parte del sistema di linguaggio che l’enunciato ha vita, ma vi è la tentazione di immaginare che ciò che da vita all’enunciato sia qualcosa in una sfera misteriosa che accompagni l’enunciato, ma qualunque cosa che accompagni l’enunciato non sarebbe per noi che un segno ulteriore, un altro segno. A prima vista ciò che da al pensiero il suo carattere peculiare sembra essere il fatto che il pensiero sia una successione di stati mentali, e cioè come il pensiero è strambo e difficile a comprendersi sembrano essere i processi che accadono nel medium della mente. Processi possibili solo in questo medium. È inevitabile il paragone del medium mentale con il protoplasma di una cellula, ad esempio di un ameba (curioso che anche Freud utilizzi questa storia dell’ameba)... ciò che nel pensiero e nel pensare ci ha colpiti, come “strano” non era affatto l’esistenza di effetti strani, che noi non sapevamo ancora spiegare casualmente, in altri termini il nostro problema era non un problema scientifico ma la confusione da noi sentita come un problema. -

- Supponiamo di cercare di costruire sulla base di ricerche psicologiche un modello della mente, un modello che spieghi l’attività della mente,(come fanno gli psicologi) questo modello farebbe parte di una teoria psicologica, in modo nel quale il modello meccanico, il modello dell’etere può far parte della teoria dell’elettricità. Tale modello, dirò

incidentalmente, fa sempre parte del simbolismo di una teoria, il suo vantaggio può essere che esso si vede con solo colpo d’occhio e si ricorda facilmente. S’è detto che un modello in un certo senso rivesta la nuda teoria, che la teoria messa a nudo consti di enunciati o equazioni. Probabilmente tale modello della mente dovrà essere molto complicato ed intricato per potere spiegare le attività mentali osservate e perciò noi potremmo chiamare la mente una strana specie di medium. Ma questo strano aspetto della mente non ci interessa, i problemi che può porre sono problemi psicologici ed il metodo dell’assunzione è quello delle scienze naturali. Ora se ciò che ci interessa non sono le connessioni causali, allora le attività della mente non hanno nulla di occulto, sono a noi accessibili e quando noi ci angustiamo sulla natura del pensare, la perplessità che noi erroneamente riteniamo concernere la natura del medium è una perplessità prodotta dall’uso ingannevole, forviante del nostro linguaggio. Si tratta di una specie di errore ricorrente in filosofia ad esempio quando siamo perplessi sulla natura del tempo e quando il tempo ci appare come una cosa strana, vi è la fortissima tentazione di credere che ci siano cose nascoste, qualcosa che noi possiamo vedere dall’esterno ma nel cui interno noi non possiamo affondare lo sguardo, ma non è così, non è che noi vogliamo conoscere fatti nuovi intorno al tempo, tutti i fatti per noi rilevanti sono a noi accessibili, ciò che ci inganna è solo l’uso del sostantivo “tempo”, se analizziamo la grammatica di tempo, la concezione di una divinità del tempo ci parrà non meno strana, che la concezione di una divinità di una negazione o di una disgiunzione. È allora fuorviante parlare del pensare come di una attività mentale, possiamo dire che il pensare sia essenzialmente l’attività dell’operare con segni. Questa attività è esercitata dalla mano quando pensiamo scrivendo, dalla bocca e dalla laringe quando pensiamo parlando e se noi non pensiamo immaginando segni o immagini, io non ti posso indicare una gente che pensi, e se tu dici che in tali casi la mente pensi, sia la mente a pensare, io ti replico che tu usi una metafora, qui la mente è un agente, in un altro senso, che è il senso nel quale la mano può dirsi l’agente nella scrittura.-

E ancora:

-Quando le parole nel nostro linguaggio comune hanno “prima facie” (e cioè primo aspetto, primo acchito) grammatiche analoghe, noi propendiamo ad interpretarle in modo analogo cioè cerchiamo di generalizzare l’analogia, noi diciamo il pensiero non è la stessa cosa che l’enunciato infatti l’enunciato in inglese ed in francese estremamente differenti l’uno dall’altro, possono esprimere lo stesso pensiero. Ora perché gli enunciati sono in qualche luogo noi cerchiamo un luogo per il pensiero e come se cercassimo il luogo del re, del quale parlano le regole degli scacchi in quanto posto dei vari pezzi ecc... noi diciamo indubbiamente il pensiero è qualcosa non è che esso sia nulla, e tutto quello che si può rispondere a questo è che la parola pensiero ha il suo uso che è di tutt’altro genere che l’uso della parola enunciata.-

Tutto qui, molto semplicemente. Però indica con precisione come accade di essere fuorviati, cioè di credere. Dicevamo venerdì scorso, che dicendo qualcosa questo qualcosa è appunto qualcosa, e quindi una cosa. Come in qualche modo ha intuito non solo Wittgenstein ma anche Austin, e questo ha indotto a pensare che queste cose stiano da qualche parte, in un luogo, in una sede, in uno spazio temporale. Qui Wittgenstein è molto preciso, ci disillude da una simile illusione e cioè ci dice è inutile andare a cercare fuori dalla parola ciò che altrove dalla parola non è. Come una mera illusione, ma non soltanto una illusione, anche il modo per costruirsi tutta una serie di pregiudizi, di costruzioni che di fatto impediranno l’ascolto di ciò che sta accadendo ed è questo l’aspetto meno interessante. Andare a cercare fuori da ciò che si dice il qualcosa che si dice, comporta non intendere né ascoltare nulla di ciò che si sta dicendo e quindi perdere l’occasione di rendersi conto di quanto sta avvenendo, cioè di rendersi conto di intendere il gioco che si sta giocando in ciò che si dice e quindi trovarsi nella sordità più totale, Non dà addito a dubbi qui Wittgenstein, cioè sbarazza da ogni eventualità di potere e pensare che ci sia un luogo del pensiero. Ancora Lacan andava pensando che l’Altro fosse un luogo.

Intervento:... l’uso?

Sì l’uso è il modo in cui ciascun enunciato gioca nel linguaggio, sì non è l’uso facoltativo, una facoltà, non è un utilizzo. Qui poniamo di nuovo l’accento su questioni più complesse tra quelle che andiamo svolgendo, ma torniamo alla questione iniziale, e cioè che queste asserzioni che abbiamo fatte, le abbiamo fatte nel linguaggio. Cosa comporta questo? Comporta che tutto ciò che abbiamo detto prima intorno al linguaggio non ha nessun referente fuori da ciò che sto dicendo, e non avendo nessun referente fuori da ciò che sto dicendo soltanto ciò che dico può renderne conto, da qui l’assoluta responsabilità rispetto a ciò che si dice, nessun possibile richiamo ad un eventuale “le cose stanno così” oppure “questo è cosà” o qualche cos’altro, assolutamente nessuno, è scardinata ogni possibilità, e in questo instaura una solitudine assoluta. Dire che tutte le cose che abbiamo dette fino a qui sono dette in una struttura, in un linguaggio, e pertanto possano intendersi soltanto intendendo il linguaggio comporta questo, che non hanno nessun referente fuori di sé. Comporta pensare questo, rispetto alle le cose che dite, che non avrebbero fine, dicevo che non è molto semplice considerare questo, tuttavia forse questo è il modo per praticare la responsabilità di quello che andiamo dicendo. Questo non vuol dire che se parlo con una persona e questa dice un fesseria allora sono responsabile io della sua fesseria. Cosa è una fesseria? Un enunciato che si suppone fuori dal linguaggio quindi sub specie æternitate, immutabile nel tempo, anche se, con tutte le premesse del caso, con tutte le captatio benevolentiæ che avete, cioè “questo lo penso io”, oppure: “in questo momento la penso così”.

e la domanda: - dov’è il pensiero stesso?- sarebbe meglio respingerla come insensata, per evitare confusioni. Se però usiamo l’espressione: - Il pensiero ha luogo nella testa -, noi abbiamo dato a quest’espressione il suo significato descrivendo l’esperienza che giustificherebbe l’ipotesi che il pensiero abbia luogo nelle nostre teste, descrivendo l’esperienza che noi vogliamo chiamare: osservare il pensiero nel nostro cervello. Noi dimentichiamo facilmente che la parola “località” (sede) è usata in molti sensi differenti, e che vi sono molte differenti specie di asserti su una cosa, che, in un caso particolare, secondo l’uso generale, noi possiamo chiamare: localizzazioni, specificazioni della località (sede) della cosa. Così dello spazio visivo si è detto che il suo luogo sia nella nostra testa; ed io penso che la tentazione di dire ciò derivi, in parte, da un fraintendimento grammaticale. Io posso dire: - Nel mio campo visivo io vedo l’immagine dell’albero a destra dell’immagine della torre - o: - Io vedo l’immagine dell’albero al centro del campo visivo -. Ed ora noi propendiamo a domandare: - E dove vedi tu il campo visivo? -. Ora, se dove è inteso a domandare una località nel senso nel quale noi abbiamo indicato la località dell’immagine dell’albero, io ti segnalo questo: tu non ha ancora dato senso a questa domanda; cioè, tu hai proceduto secondo un’analogia grammaticale senza averla adeguatamente elaborata.-

Ecco, questa è la questione centrale in Wittgenstein e anche il criterio, il metodo in parte da cui procede. In una continua precisazione che lo porta continuamente a riconsiderare, a elaborare le domande più che le risposte. Dicevo, questo che ho letto, questo ultimo passo, questo è il criterio di Wittgenstein e cioè sottolineare come si utilizzi un elemento, prima in un modo e poi in un altro, come se dovesse mantenere sempre la stessa funzione, lo stesso significato, mentre inserito in un’altra combinatoria ha tutt’altra portata, per cui se continuo ad attribuirgli sempre gli stessi significati non dico proprio niente. Ciascuna volta occorre non dare mai nulla per acquisito, e in effetti è ciò che fa Wittgenstein, non dà mai niente per acquisito, è un continuo domandare. Dice: noi continuiamo a domandare: e tu dove vedi il tuo campo visivo?... tu non ha dato senso a questa domanda; cioè tu hai proceduto secondo un’analogia grammaticale senza averla adeguatamente elaborata.-

E qui risiede per Wittgenstein l’intoppo, non soltanto di una teoria ma del pensiero in generale e di questo potremo avvalerci. Domande, appunti?

- Intervento: Nella nevrosi, nella psicosi l’idea è di fermare qualcosa che è fuori dal linguaggio, questa è la presunzione...

Quanto per esempio un analizzante chiede, qualche volta accade, “Lei ha capito cosa voglio dire?” - No, certamente no, ho ascoltato dei significanti, non ho capito assolutamente nulla di quello che ha detto, questa domanda, formulata in questi termini è una richiesta di una sorta di complicità di ciò che si è detto, come dire che il senso che colui che parla immagina debba attribuirsi a ciò che sta dicendo, chiede di essere partecipato, quindi è proprio così, ma se non ho capito nulla di quello che ha detto allora non c’è nessuna partecipazione, nessuna complicità, bisogna ricominciare daccapo. In effetti chi si trova in questa posizioni di analista, propriamente non capisce cosa si dice, e cosa accade in seguito a questo? Accade che ciò che si è detto rimane, rimane senza la soluzione. Rimane una sorta di disappunto, di disagio come se le cose dette non avessero trovato il loro giusto compimento, ma fossero rimaste lì, senza arte né parte, senza motivo, e allora sia ripetere le cose, sia andarsene via malamente evita e aggira la questione, in effetti non c’è in questo caso nessun confronto con ciò che si è detto. D’altra parte se considerate che un enunciato che avviene in una conversazione analitica è preso nel linguaggio, che lo struttura, non c’è alcuna possibilità che altri possano conoscerne l’uso o la grammatica di questo linguaggio. Per cui se chiede se ho capito: no, certamente no. Ciò che intendo tuttavia, non è propriamente niente, è un’altra cosa che non ha nulla a che fare con la comprensione di un enunciato ma con questo: con che cosa in quel momento sta giocando, di questo mi accorgo per esempio, dalla fretta in cui la persona può chiudere la questione o dal tentativo di arginare qualche cosa che sta avanzando, oppure al contrario dalla disseminazione estrema di qualche cosa rispetto a un elemento, quindi c’è qualcosa che lo questiona. L’analista fa solo questo, nient’altro.

- Intervento: Il significato non dipende dal segno in quanto tale, dal termine in quanto termine ma dal suo uso in una combinatoria, in un enunciato, non capisco come mai un termine inserito in momenti diversi, in modo diverso possa mantenere, possa costituire un problema, un ancoraggio ...come avviene che non ci si accorga dell’uso diverso?

- Intervento:...

Allora facciamo così, riformuli la questione in un modo molto preciso e martedì prossimo discuteremo di questo, perché è molto importante questa questione e merita di essere articolata. Buona notte.