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27 giugno 1995

 

Questa stasera, siccome mi è stato chiesto a furor di popolo di spiegare ciò che stiamo fa­cendo, vi dirò a che cosa serve.

La questione è questa. A partire da ciò che stiamo dicendo, vale a dire lo stabilire lo stabilire tutto ciò di cui non è possibile non tenere conto, si tratta di intendere come tutto questo avvenga lungo l’ascolto di un discorso. Come tenere conto di tutto ciò?

La questione è in effetti molto semplice. Ascoltando un discorso, vi trovate di fronte a enunciati che spesso hanno questa forma: “questa è la mia logica”, “questo è ciò che io credo”, “questo riguarda una mia verità”. Ora, talvolta questi enunciati sono stati presi in modo molto superficiale come una sorta di garanzia: ciascuno parla in una logica particolare, dunque ciascuna logica è legittimata. Ma non è esattamente così. Dire che ciascuno parla in una logica particolare equivale a dire che ciò che si dice non è trasmissibile. Ma è esattamente proprio questo ciò di cui si tratta in un itinerario intellettuale: intendere qual è la propria logica. Il dire “questa è la mia logica” sarebbe come il dire “questa è la mia religione, ciò in cui credo”. È proprio questo che si tratta di affrontare. Dunque, se questa è la mia logica, ciò che io dico è supportato da qualcosa cui io credo, è supportato appunto da una religione.

Non si tratta certamente di sostituire una logica con un’altra, come avviene per lo più, cioè attribuire a qualche cosa, a un modo di pensare, a una condotta, a una proposizione un’altra proposizione, ma di condurre il confronto di ciò che si crede, di ciò che si pone come la propria religione, fino al punto in cui questa re­ligione non è più credibile. Ma come avviene questo?

Dicevamo che tutto ciò non è necessario, nell’accezione di cui dicevamo l’altra volta, vale a dire tutto ciò che non può negarsi salvo negare la possibilità stessa di negare alcunché, tutto il resto è negabile, può negarsi. Questo comporta eviden­temente il confronto con qualche cosa che si sta dicendo e che risulta, lungo que­sto itinerario, assolutamente arbitrario, come dire che è qualcosa di cui devo ren­dere conto, necessariamente. Anzi, è lì proprio per questo, per rendere conto di ciò che si dice. Non per provarlo. Può anche cimentarsi in questa cosa, ma giusto per accorgersi che non può farlo. Fino a che punto?

Una volta dissi che l’operazione di demolizione, che per esempio hanno messo in atto gli scettici e dopo di loro molti altri, può andare avanti all’infinito e quando è possibile arrestarla? Quando non è più necessario compierla. E non è più necessario compierla quando di fatto si sa propriamente che qualunque cosa si dica o si sostenga non è sostenibile fuori da una struttura religiosa.

Ora, se si tratta propriamente di que­sto, cioè di mettere in discussione la struttura religiosa, è chiaro che se non è più sostenibile senza una struttura se religiosa non è più sostenibile tout court. Non essendo più sostenibile, allora che ne è?

Nulla, nel senso che si rivolgono al nulla da cui vengono, lasciano ciascuno con la responsabilità di ciò che sto dicendo, responsabilità che non può più, neanche volendolo, attribuire ad altri, nel senso che l’altro non fa, non dice, l’altro è così o cosà. Prendere atto di una condotta di altri è molto difficile, nel senso che pren­dere atto è soltanto considerare, constatare che, per esempio, per l’interlocutore si sta ponendo in quel momento una certa questione, di cui non sapete nulla, asso­lutamente nulla. Potete chiedervi finché vi pare perché fa così o cosà, qualunque congettura va bene, qualunque congettura o la sua contraria evidentemente. Se, invece, c’è un’attribuzione precisa, cioè “fa così per questo motivo”, e questo è creduto, allora c’è un intoppo che impedisce di proseguire. È sempre il credere qualcosa che costituisce un intoppo. Credere qualcosa è attribuire a qualcosa che non lo è affatto un attributo di necessarietà che non lo riguarda, che gli è total­mente estraneo. Questo vale anche per la teoria della psicanalisi. Abbiamo detto che non stiamo per nulla costruendo una teoria.

Prendete il caso che vi si ponga di fronte un enunciato tipo questo: “so che le cose stanno in un certo modo ma non so dirlo”. Allora, a questo punto, potete fare mille congetture, anche tra le più elaborate. Ne dico una: “so come stanno le cose ma non so come dirlo” comporta propriamente questo, rispetto alla semiotica, alla supposizione o alla credenza che ci sia un rinvio da parte di un elemento a qualche altro senza sapere esattamente quale ma si sa con precisione che esiste questo rinvio ma non si sa quale. Quindi, come diceva Agostino, finché nessuno me lo chiede posso supporre che questo rinvio, se mi si pone un elemento, naturalmente, quasi magicamente, si ponga. Naturalmente, se poi di fatto mi trovo di fronte alla necessità di esporre la cosa, questo rinvio magicamente non viene e quindi “non so”. E questa è una congettura che, come dicevo, può farsi, perché no? Vale qualunque altra. Come dire in altro termini che tutto ciò che ho detto di per sé è una mia congettura, non significa niente. Per tornare a ciò che dicevamo all’inizio c’è qualcosa che è assolutamente gratuito in tutto ciò, è una costruzione e una costruzione non spiega le cose né le mostra. È soltanto un modo per rilan­ciare la questione ma di per sé la costruzione non espone affatto come stanno le cose, proprio per nulla. Dunque, di fronte a un enunciato del genere non c’è pos­sibilità di costruire un modello interpretativo, per cui se avviene una certa o una persona enuncia questo allora vuol dire quest’altro. La facilità estrema con cui invece avviene generalmente una cosa del genere, cioè la tendenza a costruire dei modelli interpretativi per cui, ogni volta che ascolto un enunciato del genere “so come stanno le cose però non riesco a dirle”, immediatamente sono ricon­dotto, per esempio, alla spiegazione che fornivo prima. Ecco, tutto questo nell’e­laborazione che stiamo conducendo non può darsi, in nessun modo. Anche per­ché io posso costruire dei modelli interpretativi diametralmente opposti, altrettanto verosimili. Eppure, non è questo che ci interessa ma il porre le condizioni perché ci sia il confronto necessario e irrinunciabile con tutto ciò in cui si crede, per esempio anche a questo modello interpretativo. Non è affatto vero che senza questi modelli interpretativi, o modelli cognitivi come li chiamano altri, non sia possibile proseguire. Proprio per nulla, anzi, questo è il modo per non proseguire.

La struttura religiosa del discorso di ciascuno si manifesta in tutto ciò che è rite­nuto evidente, in tutto ciò che è ritenuto necessario.

Ciò che abbiamo elaborato fino ad oggi ci consente, invece, di riflettere su questa nozione di necessario in altri termini, ritorno a dire, come tutto ciò che non può negarsi salvo negare la possibilità stessa di negare alcunché, quindi, tutto ciò che non può non accogliersi nel gioco linguistico perché possa proseguire.

Il fatto che non abbiamo reperiti altri criteri non sta alla nostra incapacità ma al fatto di avere preso estremamente alla lettera, per così dire, l’insegnamento di al­cuni che hanno indicato una via molto precisa, indicando che non c’è uscita dal linguaggio.

Queste considerazioni riguardano un aspetto molto pratico. In effetti, tutto ciò che stiamo dicendo, se a taluni può sembrare assolutamente astratto e inafferrabile, è di una concretezza e di una praticità straordinaria, nel senso che la difficoltà non sta tanto nel mettere in pratica ciò che andiamo dicendo, a meno che con questo non si intenda l’accoglierne gli effetti di una tale pratica. E l’effetto è diffi­cile, questo sì, perché ritrovarsi in una solitudine può di primo acchito risul­tare sconcertante. Solitudine in quanto non c’è trasmissione. Qualunque cosa io dica, in nessun modo so come verrà inteso, quali effetti produrrà. Se, nella migliore delle ipotesi, posso ascoltare e quindi confrontarmi con gli effetti che ciò che io dico produce su di me, risulta senz’altro improbabile sapere quali sono gli effetti che ciò che io dico produrranno su altri. Quando parlo di solitudine parlo di questo, solo di questo, il constatare in atto che non soltanto sono in assoluta solitu­dine con le mie parole ma che nemmeno rispetto alle mie parole io ho il con­trollo.

Sono cose dette che abbiamo detto molte altre volte ma le cose che andiamo dicendo possono consentire di accogliere in modo più semplice, ri­flettendo sulla assoluta arbitrarietà del segno, come direbbe de Saussure, e quindi sulla mia responsabilità. Questo non significa che gli altri non facciano niente, né questo conduce alla considerazione che sia sempre colpa mia, poiché sarebbe un delirio di onnipotenza che porta poco lontano. Ciascuno fa delle cose, facendo le incon­tro. Ma come le incontro? Le incontro evidentemente connesse a un discorso che mi riguarda, per cui a questo punto non posso più evitarle.

Qualunque cosa io faccia, qualunque sia il modo in cui intervengo nei confronti dell’altro, tutto ciò comunque non può non interrogarmi.

“L’altro ha fatto questo, quindi...”, posso fare una congettura rispetto a ciò che ha fatto, posso fare tutte quelle che voglio, ma rispetto alla congettura che io ho fatta è questa congettura che mi interroga. Questo non significa che io non possa o non debba intervenire sull’altro. Intervengo assumendomene tutta la re­sponsabilità, non penale naturalmente e neanche morale. Responsabilità, nel senso che sono io che sto facendo qualcosa e che sicuramente ciò che l’altro ha fatto mi ha provo­cato delle cose, questo è indubbio. Anche nell’ipotesi che io mi muova in modo tale per impedirgli di fare altre cose, comunque tutto questo mi interroga e non posso non farlo, come analista evidentemente. Perché non posso più non tenere conto di una nozione che abbiamo elaborata ed è quella di “necessario”, che non ha nulla di sostanziale.

Abbiamo elaborata questa nozione accogliendo in modo radicale l’enunciato che dice che “non c’è uscita dalla parola”. Se non c’è uscita dalla parola, cosa di fatto risulta necessario? Il fatto che sto parlando, che qualunque cosa io faccia non posso non farlo. Questo è ciò che è necessario. Qualunque altra cosa non è neces­sa­ria. Non essendo necessaria, che cos’è?

Si tratta soltanto di questo, in definitiva, che, stabilita la nozione di necessario in questi termini e non potendo più attribuire a altri aspetti questa prerogativa, se tutto il resto non è necessario risulta assoluta­mente arbitrario, aleatorio. Se qual­cosa non è necessario allora non ne ho la responsabilità. Di cosa non sono re­sponsabile? Del fatto di essere preso nella parola.

Io dico che risulta necessario, ad esempio, che gli umani parlano - la forma esatta sarebbe “gli umani, in quanto parlanti parlano”: di questo non c’è responsabilità.

Di tutto il resto sì, in quanto qualunque altra cosa procede da questa considera­zione molto semplice, molto banale.

Responsabile in questa accezione, che non può non confrontarsi. Proprio per que­sto fatto, perché si è presi nella parola, che non c’è uscita dalla parola, non può non confrontarsi con ciò che si dice e che le cose av­vengono nella parola.

Vi rendete immediatamente conto come a questo punto qualunque cosa pensiate, diciate, facciate, immaginiate, sognate, ecc., è considerata altrimenti e in modo ancora più importante evidentemente laddove qualcuno si rivolge a voi perché lo ascoltiate.

Cessare di credere è questo, in definitiva: il cessare di credere che altro al di fuori di ciò che abbiamo indicato sia necessario.

È una cosa di una tale banalità che risulta sorprendente. C’è una sola cosa da cui nessuno può esimersi: il fatto che parla. Come già gli antichi avevano brillante­mente colto, non c’è uscita dalla parola. Dicevamo di Gorgia “nulla è”, questo es­sere non è null’altro che il logos, la parola: nulla è fuori della parola, con tutto ciò che ne segue.

Non è possibile uscire dalla parola e, pertanto, ritenersi responsabili di essere presi nella parola comporterebbe il tentare di uscirne.

Diamo questa definizione, giusto per proseguire, di responsabilità: non potere non rispondere alla parola.

Ci sono due questioni molto importanti. La prima riguarda la regressio ad infini­tum e il modo, per esempio, in cui ne dice Peirce con la sua semiosi infinita, l’al­tro è come di fatto la parola risponde, sposta la questione domandando ancora: la risposta che dà la parola è un’altra domanda.

La semiosi infinita riguarda la questione dell’impossibilità di arrestare la produ­zione di segni fra l’uno e l’altro - segno nell’accezione anche più corrente come rinvio, oppure come dicono altri come l’implicazione in cui l’antecedente è ne­cessario. Questo sarebbe il segno dal momento che non c’è l’uno senza l’altro, necessariamente. Abbiamo accennato a questo anche dicendo alcune cose prese da Derrida.

In effetti, la nozione di segno si dà in questi termini, vale a dire che se io affermo qualcosa è necessario che ci sia l’affermare qualcosa. Questo è più prossimo a ciò che dice Derrida. In questo direi che non c’è l’uno senza l’altro, una sorta di simultaneità. Se io affermo qualcosa c’è l’affermare qualcosa.

In questi termini, come intendere la semiosi infinita? Quando si avvia la semiosi infinita?

Che se io affermo qualcosa allora necessariamente c’è l’affermare qualcosa comporta evidentemente l’esistenza di un terzo che mi fa dire una cosa del genere, che mi consente di dire questo.

Ciò che io mi sono chiesto tanto intorno alla regressio ad infinitum quanto alla semiotica infinita di Peirce, ma la stessa cascata di semiotiche di Hjelmslev, e se questa proliferazione di semiotiche o di quello che vi pare, non sia tale nella ri­cerca della causa ultima. Solo a questa condizione tutto ciò diventa un ostacolo. Provate a pensare la semiosi infinita in questo modo, come il fatto che, per esi­stere, necessariamente ciascun elemento è connesso con un altro. Esattamente come dicevo prima, il fatto che io affermi comporta necessariamente che ci sia un’affermazione e che, quindi, qualunque cosa si dica comporta una produzione. La regressio ad infinitum di cui parla la filosofia è questo, è l’impossibilità di risa­lire alla causa perché ciascuna volta c’è una produzione. Lo stesso tentativo di trovare la causa comporta il produrre altro ancora. Per cui la nozione di regressio ad infinitum è, in effetti, una nozione bizzarra, non comporta nessun ostacolo. Può risultare, detto tutto ciò, che gli scettici siano così fieri di avere trovato una cosa del genere, cioè che ciascuna parola produce, direi per definizione, altre pa­role. Va da sé che se immagino che la causa debba essere fuori della parola, già parto malissimo. Va altrettanto da sé che la causa che ha sempre cercato la filoso­fia è un’altra proposizione e ciascuna proposizione, direi a questo punto per defi­nizione, ne comporta un’altra, se non altro quella che afferma se stessa, che af­ferma che sta dicendo la stessa cosa.

La regressio ad infinitum è in termini diciamo quotidiani la ricerca di ciascuno della causa delle proprie difficoltà o di sapere perché gli è accaduta una certa cosa e allora si cerca tutta una serie di giustificazioni. Lì trova la regressio ad infinitum in modo concreto. E allora in molti casi c’è la risposta degli scettici per cui non c’è risposta. Da qui la risposta del nichilista.

(CAMBIO CASSETTA)

Non fa nessun conto mettersi lì a farsi tante domande, in quanto non c’è nessuna risposta. È una follia, per dirla in termini eufemistici, o un’ingenuità. Non ci si accorge che in questo modo ci si dà una risposta, una risposta che dice grosso modo questo: se non c’è l’ultima parola, questa è l’ultima parola, cioè il fatto che non c’è l’ultima parola. Una sorta di calembour, una gherminella, un gioco di pa­role.

Si tratta in questo caso, anche se può sembrare un paradosso, dell’ultima parola: l’ultima è che non c’è l’ultima parola. Ma questo viene creduto, rappresentato, messo in scena. Poi, evidentemente, non è che funzioni perché di fatto funziona per cinque minuti. Dopo ci si riprecipita a cercare l’ultima parola dopo che si è appena detto che non c’è.

Dicendosi una cosa del genere non si è detto assolutamente niente e, soprattutto, ha aggirato l’unica eventualità, l’unica occasione per incontrare, per reperire qualcosa, cioè per confrontarsi con ciò che sta dicendo. E, quindi, riprende religio­samente daccapo, perché crede, crede a una quantità sterminata di cose.

Ora, non è che per esempio un itinerario analitico debba passare in rassegna, spuntare di volta in volta tutte le cose in cui si crede. Non è esattamente così, dal momento che si producono altre parole.

La parola chiede di essere creduta.

Austin incomincia ad affrontare la questione, Wittgenstein la svolge.

La parola di fatto è qualcosa e, essendo qualcosa, l’idea è che questo qualcosa non sia soltanto la parola ma sia qualcosa che va al di là della parola. È indubbio che le parole sono delle cose, delle cose nel senso che c’è del significante, c’è della voce, è un evento, qualcosa che avviene.

Ora, da qui l’idea che la parola, che produce la parola, sia fuori della parola e come tale gestibile, come tale osservabile. Qui succede un intoppo. E allora mi occupo di ciò che parola dovrebbe mostrare e non mi accorgo di ciò che la parola dice.

Quando non è più possibile credere? Quando non è più possibile credere che la parola mostri le cose, perché le cose sono altre parole. In questo senso la parola è segno, in quanto rinvia ad altre parole, ad altre proposizioni.

Lo stesso Aristotele, tanto bistrattato da molti, dice che le parole non sono rappresentazioni, affezioni dell’anima ma dice che sono i segni delle affezioni dell’anima.