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2 maggio 1995

 

ANARCHIA: ASSENZA DI ORIGINE

 

Questa sera riflettiamo su una questione che abbiamo tratta dalla lettura di Kant: è possibile tutto ciò che non è autocontraddittorio, a maggior ragione è vero tutto ciò che non è autocontraddittorio. La questione che lui pone come fenomeno, come noumeno di fatto è un modo per rilevare, sia per quanto riguarda il fenomeno sia per quanto riguarda il noumeno, che di fatto si tratta di atti linguistici, di fatti linguistici. La stessa cosa in s‚ è un fatto linguistico, dire che è vero ciò che non è autocontraddittorio ha una portata notevolissima, come dire che il vero ha questa prerogativa, è un vero linguistico anziché un vero sostanziale o metafisico. Ricordate che la nozione di vero perlopiù è stata posta come una sorta di adeguamento (adæquatio rei et intellectus), tutto sommato, si tratti dell'essere oppure no, adeguato alla cosa di cui si dice. Ma cominciamo qui a porre un'altra nozione di vero: vero come ciò che può dirsi, e cosa può dirsi? Tutto ciò che non è autocontraddittorio, ciò che in definitiva è possibile, e cosa distingue il possibile dal vero? Quando qualcosa che è possibile diventa vera? Potremmo dirla così, riprendendo anche Aristotele, quando ciò di cui si dice che è possibile si attua. Come dire che dalla potenza passa all'atto. Ô possibile che sia così, potrebbe essere, potrebbe non essere, quando è? Quando di fatto ciò di cui si enuncia la possibilità passa all'atto, cioè è attuale. Ma quando qualcosa è attuale? Questa è una bella domanda, a quali condizioni possiamo dire che qualcosa è attuale? E cosa la attualizza? Se riflettete intorno alle cose dette ultimamente, ciò per cui qualcosa è attuale è che si trovi nell'atto, ma quale atto? Quello di parola. L'atto di parola è ciò per cui ciascun elemento si trova a dirsi, a esporsi, a partecipare a ciò che si sta dicendo, cioè diventa attuale. Allora un modo per pensare ciò che diceva Aristotele intorno alla potenza e all'atto è questo: ciò che è in atto è ciò che è nell'atto di parola, è ciò che è in potenza? Non possiamo dire che non sia nell'atto di parola, se presa letteralmente questa proposizione non ha nessun senso, ma non ha nessun senso in quanto il senso stesso fa parte della parola, esiste nella parola, per cui dire che è fuori dalla parola non ha nessun senso possibile, ma dunque allora ciò che è in potenza che cos'è a questo punto propriamente? Questo: ciò che il dire implica, comporta, evoca. Per questo non è che diciamo che l'atto precede la potenza, come potrebbe sembrare, ma piuttosto che c'è una simultaneità, ma a questo punto non è ciò che è in attesa di essere detto, in definitiva in attesa di essere vero, ma quanto si produce da ciò che si dice. Però per tornare alla questione da cui siamo partiti, la questione del vero, ciò che accolgo è necessariamente tutto ciò che non è autocontraddittorio, questo, come dicevamo, comporta prettamente porre il vero in ambito linguistico, e non ce ne sono altri, e cosa comporta non avere altri riferimenti? Un altro modo di pensare la nozione di vero. Togliete ogni adeguamento di ciò che si dice a ciò che è (adeguamento in varie forme e in vari modi, può essere adeguamento ontologico oppure programmatico oppure topico, tutto sommato è marginale tutto ciò, è un adeguamento, anche perché procede per aggiustamenti, fa come voglio io, in questo non ci si è spostati poi un granché dalla logica medioevale) e c'è l'eventualità che per un verso la nozione di vero cessi di avere qualunque portata, per l'altro l'eventualità che questa nozione possa incontrare un senso. Avevamo già accennato a questa nozione indicando che c'era allora, e in parte ancora adesso, una sorta di sovrapposizione fra vero e verità, poi vedremo se è opportuno cercare di distinguere, cioè dicevamo verità come shifter, come operatore deittico. Come qualcosa che consente di proseguire indicando che ciò che sto dicendo è lì, nel momento in cui lo dico, c'è della verità in questo, che è questo ciò che sto dicendo, quindi che cosa è vero in ciò che dico? Ciò che dico è vero in quanto è ciò che dico. Tutto sommato già con Kant questo adeguamento è messo in difficoltà anche se poi lui non prosegue le sue stesse argomentazioni fino alle sue estreme conseguenze cui si possono portare, vale a dire l'impossibilità di individuare il noumeno, che a questo punto è un altro fatto linguistico a fianco al fenomeno, non lo supporta non lo spiega, non lo giustifica, è un altro discorso che faccio, ma non ha nessuna portata fuori dall'essere un fatto linguistico. Da qui tutta la questione poi ripresa da Austin, di cui suggerisco la lettura, cioè delle parole come fatti, gli unici fatti di cui è possibile parlare e di cui si dice per altro, immaginare che una certa cosa sia una cosa in s‚ è un fatto linguistico dice Austin, non è altro, o meglio questo possiamo dire, qualunque cosa pensiamo o immaginiamo è un'altra serie di atti linguistici. *Allora considerare il vero in questa accezione, è una verità del considerare il vero sicuramente amorale, in prima istanza, non tanto immorale, quanto amorale, non va contro la morale, non può occuparsene, non può occuparsene quindi non può in nessun modo avere alcun riferimento ontologico a garanzia di alcunché. Ma d'altra parte non serve moltissimo, gli effetti più sorprendenti non stanno tanto nelle grandi questioni: il bene, il male, la giustizia, ma nel dire quotidiano, qui trovate gli effetti singolari, lì in effetti si gioca la questione. Ora i grandi temi la giustizia, la verità, il bene e tutte queste storie sono altrettanti fatti linguistici, di cui è possibile parlare e che indicano di fatto che cosa? Che non c'è l'ultima parola. Questo stanno ad indicare. Cioè c'è una regressio ad infinitum che dice per, così dire, chi ha la forza, il potere, l'abilità di fare fermare questa regressio al punto in cui vuole lui, a questa punto diventa l'ultima parola. Ecco la nozione di anarchia, cioè l'assenza di origine, di origine come causa, come luogo che è causa di ciò che è immaginato seguirne necessariamente. La verità così come è comunemente intesa è il luogo dell'origine, dico comunemente intesa, anche nelle accezioni apparentemente più avanzate, più lontane da quella medioevale, come approssimazione, la verità come approssimazione, approssimazione a che? Ed esattamente come per la questione della giustizia, del relativismo o del giusnaturalismo, approssimazione a una verità data come causa già stabilita, oppure una regola che si è data relativamente a ciò che comunque si ritiene essere il bene in quel momento e in quella circostanza, senza tenere conto e, anche in questo caso, stabilire qual è il bene anche rispetto ad un momento contingente, si avvale necessariamente di un criterio, di un parametro che tiene conto di un valore assoluto. Se no, dicevamo, non c'è nessun modo di saper in quale direzione si sta andando, cioè se ci si approssima oppure no all'obiettivo. Ecco come tutto ciò, si incontra lungo un itinerario come quello che stiamo facendo, itinerario intellettuale? Come si situa tutto ciò per esempio, rispetto ad una conversazione analitica? Forse lì c'è l'occasione più manifesta, per costatare che una persona che parla, dice necessariamente il vero, anche se suppone di mentire, in questo senso, che ciò che sta dicendo, non avendo alcun riferimento (adæquatio rei et intellectus) non si riferisce a cose che esistono fuori dal suo discorso, potremmo soltanto dire questo che esiste soltanto un altro discorso di chi sta parlando, a fianco, o da cui muove per fare quello che sta facendo, come dire che il referente delle sue parole, non sta in qualche cosa che sta da qualche parte, ma sta nelle cose che dice, in quel discorso, anche se il riferimento è a un altro discorso, le cose sono di fatto un altro discorso. Ora dunque ascoltare tutto ciò, è porre le condizioni perché si verifichi un fatto che è piuttosto bizzarro e che è questo, cioè una persona che si trova a parlare, si trovi nelle condizioni di accorgersi di costatare che le cose che sta dicendo, si riferiscono a loro stesse. Che cosa comporta, oltre ad un certo smarrimento iniziale? Comporta questo, soprattutto l'incontro, non tanto con l'essenza, ciò che Kant indicava come noumeno, la cosa in sé, ma quanto questo noumeno, la cosa in sé è un discorso, nel quale potremo reperire un'altra cosa in sé, cioè un altro discorso, in effetti la questione che gli umani hanno posta già da sempre si svolge con una logica straordinaria, in effetti, se pensate a questo rinvio non è altro ciò che trova Peirce rispetto alla semiotica, e cioè possiamo dire una proliferazione di cose in sé all'infinito. Una volta si faceva questo che è un'operazione molto più semplice, si opera una conversione, letteralmente, cioè mentre prima credevo questo, adesso mi accorgo che era errato e adesso credo quest'altro, però non è esattamente più questo ciò di cui ci occupiamo, cioè togliere una credenza una superstizione e mettercene un'altra, come avviene per lo più. Lo dicevamo l'altro venerdì, che generalmente si tratta di fornire un sistema dottrinale più o meno elaborato, più o meno sofisticato, più o meno articolato e intendere ciascun enunciato che viene detto attraverso questa teoria. Dunque perché no? Anzi è un sistema che funziona meravigliosamente bene, non crea nessun intoppo, nessun problema e non incontra nessun ostacolo di credibilità, diciamo che le persone sembrano particolarmente disposte a questa operazione, cioè di sostituire una religione falsa con una più vera, cioè vera, assolutamente vera. Come se si trattasse sempre e unicamente di questa e non ci fosse altra alternativa. Potrebbe sembrare in effetti, che non ci sia nessun altra alternativa in questa operazione, ed è riflettendo intorno proprio a questi aspetti, che abbiamo incominciato ad interrogarci su una questione apparentemente molto banale ma che ci ha condotti ad asserzioni non sempre altrettanto banali, cioè che non c'è uscita dal linguaggio, che le parole non hanno un referente all'infuori di s‚, che è una conseguenza necessaria, se non c'è uscita dal linguaggio, il referente non può essere altrimenti che nella parola, procedendo in modo che indicavamo con Kant analitico, in accezione che indica lui, che è stata seguita e cioè non affermando per lo più, nulla che non sia già implicito nella premessa che non possiamo non accogliere necessariamente, visto che parliamo. Potremmo dirla così, un po' schematicamente, dal momento che parlo e non posso uscire dalla parola, dunque le parole non hanno referente fuori dalla parola e quindi? E quindi tutto ciò che posso trarre, in modo tale che non sembra necessariamente questo assioma, è qualcosa che può essere e anche non essere, ma può essere o può non essere rispetto a che? (mi rendo conto di ciò che andiamo dicendo) Molto semplicemente, rispetto a ciò che le regole del linguaggio ci impongono, le regole del linguaggio impongono un certo modo, una certa forma, non il contenuto, il cosiddetto contenuto, dentro posso metterci qualunque cosa e il suo contrario in un certo senso, a patto che lo faccia in un certo modo. Dunque qualunque costruzione io possa fare, non è di per sé, né vera né falsa, ma proprio rispetto alla struttura del linguaggio, non certamente rispetto a nessun referente, fuori dalla parola, a nessuna cosa in sé. Prendete una poesia, un verso di una poesia, non è di per s‚, né vera né falsa, così come una frase musicale, non è n‚ vera, n‚ falsa, non è sottoponibile ad un criterio verofunzionale, o meglio si potrebbe anche fare questa operazione, ma non ha nessun senso, prendete la famosissima poesia “Ed è subito sera" è vera o falsa? Non ha nessun senso. Dunque l'aspetto poetico come produzione, come ciò che si produce, potremmo essere indotti a pensare che tutto ciò che può essere costruito è poetico, può essere costruito, nel senso che ha la forma che è quella imposta dal linguaggio, con una grammatica e una sintassi imposte dalla struttura linguistica, tutto ciò che può essere costruito potremmo pensare che è quello. Ma allora subito, in effetti, si pone un quesito, in quanto tutto ciò che può essere prodotto può essere soltanto poesia, almeno ma anche calcolo integrale, calcolo differenziale come preferite anche questo dunque è poesia? Al di là del fatto che per molti matematici, la matematica è poesia, ma questa è una cosa soggettiva personalissima, che considerano la cosa poetica, però non da tutti è condivisa, è di una noia mortale, però anche questo non è un buon criterio di valutazione, il fatto che qualcuno si annoi oppure no. Ma la questione che ci interessa riguarda la poesia e alcune questioni che soprattutto Jakobson ha incominciato a elaborare intorno a questo, se voi prendete il suo saggio, sulla struttura del linguaggio, vi accorgete che incomincia a parlare di poesia per scivolare mano a mano verso considerazioni sempre più ampie riscontrando la struttura del linguaggio poetico, di fatto, in ciò che si dice nelle parlate quotidiane. Ora in che senso la poesia attiene al parlato quotidiano? Per Jakobson la questione si pone in questi termini, cosa dovremmo intendere con poesia? Non soltanto evidentemente dei versi impacchettati in un certo modo, secondo un certo metro e dice lui, anche se volessimo porlo in certi termini, dovremmo accorgerci che esiste un metro anche in prosa, che ciò che si dice in modo prosastico, (prosaico è più bello) risulta non meno fornito di struttura metrica, di andamento, di ritmi che possono essere individuati, colti, e cogliersene anche le ripetizioni e poi le figure, l'icasticità, (rappresentazione viva, vivace), ecco questo è dato da che cosa? Da accostamenti, da figure retoriche, da tutto ciò che interviene a rendere più efficaci retoricamente questi versi, cioè elementi icastici o rappresentativi o anche sonoramente più interessanti, in quanto il suono stesso può essere onomatopeico oppure fare pensare a della dolcezza oppure della durezza, a seconda dei casi, ma tutto ciò è svolto o svolge tutto questo, l'aspetto prevalentemente retorico. Non so se nessuno è mai andato a Napoli al mercato del pesce, ecco lì le figure retoriche che vengono utilizzate. Certe volte le poesie non raggiungono questi livelli, una quantità sterminata di figure retoriche. Una poesia? Può essere una poesia più o meno interessante, io ho letto delle poesie abominevoli, altre che invece sono delle cose interessanti, in quanto pongono delle questioni, lasciano riflettere, evocano delle situazioni, evocano delle immagini, così come la musica. Però la poesia ha questo in genere, che le si attribuisce di non servire a qualche cosa propriamente, la questione è molto discutibile, su che cosa dobbiamo intendere con utilità e quindi la questione non ci interessa minimamente, ma poniamo la questione ancora più radicalmente, prendete un aspetto più astratto, quello appunto del calcolo infinitesimale, integrale, quello che vi pare, c'è una proporzione in tutto ciò, anzi è fatto apposta, una proporzione che induce, per esempio, una dimostrazione matematica, ha indotto, anzi molti a considerarlo una cosa bella, c'è addirittura Lautreamont che dice “bello come una prova matematica", bello proprio per la proporzione, bello in modo armonico e quasi ineluttabile, necessario in cui si svolge, perfettamente conoscibile nella sua struttura. Ora una costruzione come quella matematica, adesso non ci interessa, ci atteniamo soltanto alla struttura del discorso che può essere quello matematico, quello poetico o di altro genere, o linguistico, filosofico, che cosa fa in effetti? Produce qualche cosa che non è derivabile necessariamente dalla struttura del linguaggio, quindi produce qualche cosa che si aggiunge, poi una volta stabilito un elemento, Kant direbbe, sintetico a priori, può aggiungere tutto quello che vuole chiaramente, come dire che, proviamo a dirla in modo molto, molto semplice, l'elemento analitico a priori consente di costruire proposizioni, di pensarle anche se volete, di pensare proposizioni, un sistema sintetico a priori consente di inventare delle strutture, quello sintetico a posteriori di farci quello che ci si vuole. Quindi la costruzione, l'invenzione di una struttura che è pensabile soltanto a partire da uno schema linguistico, ora in che cosa potremmo distinguere la poesia da un calcolo numerico? Al di l… dei segni che vengono utilizzati ad un certo punto, e volgere una struttura matematica in musica questa è una operazione che molti hanno fatto e stanno facendo, per esempio il compositore_ ma mi verrà poi in mente_ perché‚ in effetti la stessa armonia, la stessa proporzione, chiamiamola così, che esiste nel calcolo numerico, viene utilizzata nella composizione musicale, d'altra parte sembra e poi se non lo è, non ha nessuna importanza, che i testi antichi, greci soprattutto, fossero scritti in metrica per poter essere cantati, quindi per essere musicati, anzi erano già di per sé musicati, perché‚ si pensava già allora, che unire la parola alla musica avesse maggiore valore. Poi la musica, la musica c'è già nella parola, pensate ad un discorso che ascoltate, può produrre una musica sgradevole, può produrre una musica gradevolissima, può essere un discorso che incanta, che incanta neanche forse tanto per il contenuto, per ciò che dice in quanto tale, ma per il modo che viene detto, da qui tutta l'invenzione oratoria, sapete che i retori imparavano il testo a memoria per poter essere liberi di declamarlo nel modo migliore, senza essere impegnati a pensare a quello che stavano dicendo, che distrae evidentemente e quindi dare una musica, una musicalità. Questo appena per dire che coloro che sapevano parlare avevano una possibilità, un maggiore ascolto erano gli oratori, che si distinguevano dagli idiotai, da coloro che non avevano l'arte della parola, per questo idiota è la persona che non sa esprimersi, anche se questi erano talvolta anche magistrati, però senza l'arte della parola, che invece contraddistingueva gli oratores. Dunque ecco la produzione, cosa può prodursi? qualunque cosa naturalmente, qual è la condizione per potere produrre? Ecco ciò che Kant chiama analitico a priori, vale a dire uno strumento, senza il quale non è possibile produrre né pensare alcunché, ma produrre che cosa? Qualunque cosa, perché una cosa dovrebbe essere o avere miglior titolo di un'altra? Ecco dicevo perché attribuire ad una cosa una dignità o un valore maggiore? Consideriamo soltanto ciò che si produce, ciò che è possibile produrre, CAMBIO CASSETTA Noi ci siamo occupati fino all'altro giorno di accennare, veramente non è che il discorso si esaurisca in questi termini, di accennare alle condizioni e ci siamo avvalsi di Kant per aggiungere qualche cosa, per riflettere ulteriormente sulle condizioni perché qualcosa possa prodursi, ora occorre che ci occupiamo appunto di ciò che si produce, il giudizio sintetico, quello che compie la sintesi, sintetizza e cioè che inventa poi, per altri aspetti, la sintesi qui è un po' differente da quella di Hegel, che inventa, e come è possibile questo? Come è possibile inventare? Questa è una bella questione che sembra che le cose che si inventano vengano dal nulla, in un certo senso, vengono dal nulla, cioè nel senso che non sono deducibili da ciò che precede, come la nozione di abduzione in Peirce. Peirce distingue tra deduzione e induzione e poi questa terza inferenza, l'abduzione, per cui da due elementi se ne trae un terzo che però non è né deducibile, né inducibile dai primi due così sorge la stessa questione che pone Freud rispetto all'associazione libera, cosiddetta, anche se poi è possibile chiaramente costruire un discorso che giustifica per esempio, una certa connessione, ma è un altro discorso, non è propriamente la causa. Dunque ecco, se tutto ciò che abbiamo detto fino ad oggi ha qualche portata, questa possibilità occorre che la cerchiamo lì, dove non potrebbe non essere, e cioè nell'atto della parola, cioè tra le cose che avvengono nell'atto di parola. Perché se voi riflettete, l'aspetto analitico ci consente soltanto di pensare, ci dice qual è la condizione, ma niente più di questo. Una volta posta la condizione, il linguaggio è avviato. Cioè cosa lo avvia? Questa è una questione difficile da intendersi, dal momento che l'aspetto analitico di fatto non consentirebbe nessun avvio, almeno apparentemente per quanto se noi diciamo che gli umani parlano, compiamo una operazione già per sé complicatissima, pur affermando una considerazione apertamente analitica, ma non soltanto, in questo daremmo ragione a Toulmin il quale afferma che non c'è implicazione, inferenza analitica che non comporti una, lui la chiama sostanziale, kantiana ma sintetica; perché non potrebbe? (dice lui) perché quella analitica si arresta immediatamente. Si arresta nel senso che già l'operazione avviene dove uno parla e quindi non c'è referente fuori dalla parola, non c'è uscita dal linguaggio, comporta un ulteriore elemento, cioè non soltanto, una struttura che mi consente di parlare, ma che non consente di compiere inferenze, perché è lo stesso intoppo che trova Kant in questo passaggio che non è in nessun modo giustificabile. Come dunque procedere? Non giustificarlo giustamente, ma renderlo possibile in termini teorici, e riflettendo su questo cioè di che cosa si tratta in questo passaggio, questo salto, per cui da una cosa se ne implica un'altra, qui la linguistica e la semiotica forse ci danno un aiuto. Possiamo cominciare a porre la questione in questo modo, visto che difficilmente lo risolveremo questa sera, anche perché‚ se no, le sere successive non sappiamo come passarle, resta un pezzo anche per dopo. Cosa ci dice la linguistica? E forse più ancora la semiotica? Già da Morris, Charles Morris, ma già da Peirce in definitiva, che ciascun elemento linguistico, noto come semiotico è infinito, è infinito in quanto è segno per qualcuno, che a sua volta è segno, certo tutto questo è un registro molto differente, molto avanzato rispetto alle cose banali che dicevamo prima. Tuttavia occorre che troviamo qualche cosa nell'implicazione analitica che renda necessario questo salto, credevo avesse qualche suggerimento, nessuno ha qualche suggerimento? Devo fare sempre tutto da solo. Consideriamo allora di nuovo la formulazione analitica: “gli umani parlano", analitica in quanto necessaria, e assolutamente non confutabile, a priori, in quanto indicavamo l'altra volta questa accezione necessaria rispetto alla struttura del linguaggio. Dunque dicevamo gli umani parlano, c'è un salto in tutto ciò necessario? Perché ciò intorno a cui ci stiamo interrogando è questo, se è necessario ciò che per definizione non è necessario. Che è una bella domanda, eppure

- Intervento: necessario?

Il salto, questo salto tra, per esempio, fra ciò che è necessario e ciò che non lo è, fra la deduzione e l'induzione, per esempio, o tra la premessa maggiore e la conclusione, comporta sempre un salto che non è giustificabile, se l'inferenza non è analitica, non dice niente cioè continua a ripetere lo stesso assioma principale, famosa _tutti gli animali sono mortali, Socrate è un animale, Socrate è mortale" ma la conclusione è già implicita nell'assioma di partenza, che fosse mortale, proprio in quanto animale. Ecco considerate quest'altra formulazione, che non è un sillogismo ma una considerazione, cioè che gli “umani parlano" che nel darsi afferma proprio ciò stesso che fa, una formulazione performativa, che fa ciò che dice, apparentemente non c'è nessun salto non giustificato in tutto ciò, per• forse è il caso di riflettere ancora su questa nozione di salto, cioè questo passaggio che non è giustificato, in quanto comporta un’aggiunta che non è presente nella premessa. Se apparentemente tutto è necessario, cosa invece non lo risulta? La struttura sintattica? Questa è necessaria, e anche quella frastica, e allora potremmo dirla così: come sempre avviene quando sorge un problema che apparentemente non ha soluzione, è perché‚ è mal formulato, come ho sempre riscontrato

- Intervento:_

Sì, cosa dunque è necessario? Ô necessario ciò che non può più considerarsi nella parola, perché‚ la parola esista, che la parola si dia, dunque attenendoci a questa nozione, se l'implicazione analitica che è necessaria, necessariamente si arresta, cosa impedisce che non si arresti? Faccia così, lei provi ad aggiungere un elemento, uno qualunque, questo elemento risulta (come direbbe Kant) necessario, ma non deducibile, se preferisce sintetico a priori, e perché‚ fa questa operazione? Proprio perché‚ ha compiuta l'inferenza analitica, che la costringe a fare questo e adesso spiego il perché l'inferenza analitica costruisce la possibilità, la pensabilità stessa del linguaggio, quale linguaggio? Qual è il linguaggio che la riflessione chiamiamola così analitica comporta, di quale linguaggio si tratta? Del linguaggio, che proprio per il fatto che rende possibile il linguaggio, occorre che lo costruisca, e come potrebbe costruirlo? Se si arrestasse istantaneamente, non potrebbe farlo, come dire che tutto si arresterebbe lì, ma se dunque c'è questa costruzione, allora questa costruzione è necessaria e potremmo dire a questo punto, anche se poi si tratterà di elaborare in termini precisi, adesso vogliamo soltanto dare delle tracce una direzione, che la costruzione di questo linguaggio è implicita nella implicazione analitica, se riflettendo intorno a questo riusciamo a stabilire, e ad affermare in termini analitici, la necessità di questa implicazione, allora abbiamo effettivamente dissolto il problema, mostrando come è necessario che una implicazione, una riflessione analitica, necessariamente per esistere, deve comportare ciò stesso che inventa, in questo caso per dirla così in modo molto rozzo: il salto diventa necessario, per potere proseguire e in questo senso è implicito nella implicazione analitica, e in quanto implicito deducibile, non derivabile, deducibile proprio nell'accezione della deduzione kantiana. Ecco questo è il lavoro su cui rifletteremo in questi giorni in attesa che giunga il martedì successivo. Intanto se qualcuno vuole dare un contributo per riflettere in questi giorni, contributo analitico, sintetico a vostro piacere, deduzione, induzione, anche abduzione sono accolte. In questo senso, diremmo così, il giudizio sintetico è deducibile ma non derivabile, e avremo modo di sbizzarrirci nella distinzione della deducibilità e derivabilità, in parte un accenno è stato fatto, ma occorre distinguere con maggiore precisione.