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25 aprile 1995

 

KANT: critica della ragion pura 2°

 

Allora incominciamo subito questo scritto, incominciamo a leggere una serie di brani e vedere in che modo possiamo avvalercene. Dice nella sua prefazione:

La ragione umana, in una specie delle sue conoscenze, ha il destino particolare di essere tormentata da problemi che non può evitare, perché le son posti dalla natura della stessa ragione, ma dei quali non può trovare la soluzione, perché oltrepassano ogni potere della ragione umana. /…/… ed è un invito alla ragione di assumersi nuovamente il più grave dei suoi uffici, cioè la conoscenza di sé, e di erigere un tribunale, che la garantisca nelle sue pretese legittime, ma condanni quelle che non hanno fondamento, non arbitrariamente, ma secondo le sue eterne ed immutabili leggi; e questo tribunale non può essere se non la critica della ragion pura stessa. Io non intendo per essa una critica dei libri e dei sistemi, ma la critica della facoltà della ragione in generale riguardo a tutte le conoscenze alle quali essa può aspirare indipendentemente da ogni esperienza; quindi la decisione della possibilità o impossibilità di una metafisica in generale, e la determinazione così delle fonti, come dell’ambito e dei limiti della medesima, e tutto dedotto da principi /…/ Ora, per ciò che riguarda la certezza, mi sono imposto una legge: che cioè in questa specie di considerazioni non è permesso a nessun patto di opinare, e tutto ciò che, anche lontanamente, in esse somigliano a un’ipotesi, è merce proibita, che non può essere venduta né anche al prezzo più vile, ma, appena scoperta, deve essere sequestrata. Giacché quello che annunzia ogni conoscenza che deve valere a priori, è che essa vuol essere considerata assolutamente necessaria; tanto più una determinazione di tutte le conoscenze pure a priori, la quale deve essere l’unità di misura e perciò anche l’esempio di ogni certezza apodittica.

Poi distingue tra estetica e analitica trascendentale:

L’una riguarda gli oggetti dell’intelletto puro, e deve stabilire e spiegare la validità oggettiva dÈ suoi concetti a priori; e rientra appunto perciò essenzialmente nei miei fini. L’altra passa a considerare lo stesso intelletto puro secondo la sua possibilità e i poteri conoscitivi su cui esso si fonda. /…/ Ora, in quanto in queste deve aver parte la ragione, è necessario che in esse qualcosa sia conosciuto a priori; e la sua conoscenza si può riferire al loro oggetto in doppia maniera: o semplicemente per determinare questo e il suo concetto (che deve esser dato d’altronde), o per realizzarlo. L’una è conoscenza teoretica della ragione, l’altra pratica. /…/ Qui è proprio come per la prima idea di Copernico; il quale, vedendo che non poteva spiegare i movimenti celesti ammettendo che tutto l’esercito degli astri rotasse intorno allo spettatore, cercò se non potesse riuscir meglio facendo girare l’osservatore, e lasciando invece in riposo gli astri. Ora in metafisica si può veder di fare un tentativo simile per ciò che riguarda l’intuizione degli oggetti. Se l’intuizione si deve regolare sulla natura degli oggetti, non vedo punto come si potrebbe saperne qualcosa a priori; se l’oggetto invece (in quanto oggetto del senso) si regola sulla natura della nostra facoltà intuitiva, mi posso benissimo rappresentare questa possibilità. Ma, poiché non posso arrestarmi a intuizioni di questo genere, se esse devono diventare conoscenze; e poiché è necessario che io le riferisca, in quanto rappresentazioni, a qualcosa che ne sia l’oggetto e che io determini mediante quelle; così non mi rimane che ammettere: o che i concetti, con i quali io compio questa determinazione, si regolino anche sull’oggetto, e in questo caso io non mi trovo nella stessa difficoltà, circa il modo cioè in cui possa conoscerne qualcosa a priori; oppure che gli oggetti o, ciò che è lo stesso, l’esperienza, nella quale soltanto essi sono conosciuti (in quanto oggetto dati), si regolino su questi concetti; allora io vedo subito una via d’uscita più facile, perché l’esperienza stessa è un modo di conoscenza che richiede il concorso dell’intelletto, del quale devo in me stesso la regola prima che gli oggetti mi sieno dati, e perciò a priori; e questa regola si esprime in concetti a priori, sui quali tutti gli oggetti dell’esperienza devono necessariamente regolarsi, e coi quali devono accordarsi. Per ciò che riguarda gli oggetti in quanto sono semplicemente pensati dalla ragione, ossia necessariamente, ma non possono essere dati punto nell’esperienza (almeno come la ragione li pensa), i tentativi di pensarli (devono pur potersi pensare!) forniranno quindi una eccellente pietra di paragone di quel che noi assumiamo come il mutato metodo nel modo di pensare, e cioè: che noi delle cose non conosciamo a priori, se non quello stesso che noi vi mettiamo.

Ci fermiamo qui un momento per riflettere su queste cose, per vedere in che modo e per quale via ci interessino. Dunque dice che per conoscere intanto è di un certo interesse sapere a quali condizioni conosciamo, se io mi riferisco a qualche cosa deve pure esserci un criterio che mi consenta di dire che percepisco qualche cosa, di stabilirlo, di affermarlo, tutto ciò non è per un verso molto lontano da ciò che andiamo dicendo da tempo, anche se con qualche differenza, quando ci siamo interrogati intorno alle condizioni attraverso le quali io possa interrogarmi anche sulle stesse condizioni, fare tutta questa serie di operazioni, dicevamo dunque che occorre che qualche cosa mi sia dato, mi sia dato uno strumento per potere fare tutte queste operazioni, ciò che Kant indica con “a priori” o come “analitico” è propriamente, anche se per Kant ha una accezione leggermente differente, ciò che noi indichiamo procedura del linguaggio, come ciò, diciamola così, di cui non possiamo non tenere conto per proseguire a parlare. Non si tratta per noi di fondare alcuna metafisica, né di fondare alcunché, perché se Kant avesse avuto l’occasione, come hanno avuto altri come Wittgenstein, ma non soltanto, di accorgersi che ciò che lui indicava come “a priori” in effetti non è da qualche parte nell’intelletto ma propriamente nel linguaggio, ecco che allora gli si sarebbe aperta una questione straordinaria, quella che ci consente di fare dei passi notevolissimi, anche rispetto a Kant, che già però ci ha indicato che le cose che cogliamo le cogliamo non così come sono in quanto tali, ma le cogliamo attraverso le stesse cose che noi stessi vi abbiamo poste e che magari proprio queste cogliamo, cioè soltanto le cose che vi abbiamo messe dentro. Notazione tutt’altro che marginale questa poiché ci fa riflettere su questo e cioè le cose che diciamo intorno a una qualunque cosa, che cosa ci dicono? Ci dicono questo, che noi stiamo utilizzando un sistema organizzato di regole, noto come linguaggio, e tutto ciò che possiamo dire ci è fornito da ciò che il linguaggio può dire e metterci in queste cose, niente di più. Certo, per Kant la cosa in sé esiste, ma è un’esistenza curiosa e bizzarra per lo stesso Kant tutto sommato, ché se non è possibile conoscere se non come fenomeno e mai come noumeno, allora di fatto rimane un’ipotesi, per cui posso dire che qualcosa esiste, ma a questo punto la nozione stessa di esistenza viene messa in gioco in quanto io intendo con esistenza ciò stesso che io intendo intendere con questa nozione, cioè non è un riferimento a qualche cosa che esiste di per sé nemmeno l’esistenza. Dunque per un tratto abbiamo viaggiato parallelamente a Kant cogliendo che di fatto, nel dire qualunque cosa, questo qualunque cosa che diciamo non si riferisce propriamente ad un quid, ma dice esattamente ciò che noi abbiamo messo in questo dire. Non è molto differente, se volete, ciò che affermava Wittgenstein, che per altro segue per molti aspetti Kant, e cioè ciascuno dicendo delle cose fa un certo gioco, gioca un certo gioco, Kant direbbe che trova quelle cose che lui stesso ci ha messo dentro. Ma per fare un passo ulteriore proviamo a considerare la cosa in termini più radicali, Kant già ci induce a pensare che è possibile sbarazzarsi dell’idea che le cose che si dicono abbiano un referente fuori di sé, certo Kant non ha tratto da questo tutte le considerazioni che poteva trarre, forse non aveva gli strumenti, ma non è questa la questione che ci interessa, non ci interessa sapere cosa pensasse Kant, prendiamo ciò che scrive come spunto per riflettere, se dunque ciascun elemento possiamo coglierlo come fenomeno, il modo ci si mostra e si mostra attraverso gli strumenti che noi abbiamo per definirlo, allora non c’è nulla dietro, dietro nel senso di sostegno, di una garanzia, di qualche cosa che mi dica che ciò che sto dicendo si riferisce a questo, posso solo dire che sto giocando questo gioco. Non posso dire niente più di questo e quindi ciò che io affermo come esistente, o ciò che io affermo continuamente in qualunque modo risulta una ipotiposi, una figura che abbiamo illustrata qualche tempo fa, vale a dire…

- Intervento: Ipotiposi?

L’ipotiposi dice questo, che esiste un modo per dire le cose tale per cui queste cose si vivificano, risultano presenti, risultano immediate, quasi tangibili, come dire che fornisce a qualche cosa una sorta di esistenza, ma la fornisce retoricamente…

Ma proprio in ciò consiste l’esperimento d’una controprova della verità del risultato di questo primo apprezzamento della nostra conoscenza a priori della ragione: che essa giunge solo fino ai fenomeni, mentre lascia che la cosa in sé sia bensì per se stessa reale, ma sconosciuta a noi. Giacché quel che ci spinge a uscire necessariamente dai limiti dell’esperienza e di tutti i fenomeni, è l’incondizionato, che la ragione necessariamente e a buon diritto esige nelle cose in se stesse, per tutto ciò che è condizionato, a fine di chiudere con esso la serie delle condizioni.

Qui certo c’è un ritorno della metafisica, “l’incondizionato” che sarebbe l’ultimo elemento (questo è condizione di questo che a sua volta è condizione di questo, che a sua volta è condizione di questo…ma ad un certo punto c’è l’arresto, ed è ciò che Kant chiama l’incondizionato). Prosegue:

Giacché la ragion pura speculativa ha in sé questo di peculiare, che essa può e deve misurare esattamente il suo proprio potere secondo il diverso modo col quale sceglie gli oggetti pel suo pensiero; e perfino enumerare esaurientemente tutti i differenti modi di porsi i problemi; e così, delineare tutto il disegno per un sistema di metafisica. Infatti, per ciò che concerne il primo punto, nella conoscenza a priori nulla può essere attribuito agli oggetti, all’infuori di ciò che il soggetto pensante trae da se medesimo. /…/… e non ha bisogno per ciò dei sussidi speculativi, ma solo di assicurarsi contro le loro opposizioni, per non cadere in contraddizione con se medesima.

Ecco questo risulta un aspetto essenziale, e cioè “nella conoscenza a priori nulla può essere attribuito agli oggetti, all’infuori di ciò che il soggetto pensante trae da se medesimo” sì certo, ma cosa trae da se medesimo senza aggiungere nulla che riguardi l’esperienza o altre cose? Può trarre unicamente che cosa se non ciò che può dire senza che questo dire sia contraddittorio, tant’è che lo dice poco dopo “ma solo di assicurarsi contro loro opposizioni per non cadere in contraddizione”, e da qui facendo un salto audace cosa diciamo? Che risulta necessariamente vero tutto ciò che non è autocontraddittorio. Ma vero in quale accezione? Vero non nel senso che descrive un dato di fatto o uno stato delle cose, vero nel linguaggio, vero nella parola, vero in ciò che dico, vero cioè non autocontraddittorio rispetto ad alcuni principi che non possono essere eliminati, e i principi sono quelli che abbiamo indicati già qualche tempo fa, gli stessi di Aristotele, il principio di identità, di non contraddizione e del terzo escluso, poi la questione della causa la vedremo in seguito, ma intanto questi. Dire che qualunque cosa che non sia autocontraddittoria è vera comporta una cosa straordinaria, è un altro modo di dire che le cose, le parole, non hanno nessun referente fuori di sé e che la nozione di vero qui non ha nulla a che fare con qualcosa in quanto tale che esiste di per sé o che c’è da qualche parte, è soltanto l’affermazione che qualcosa non è autocontraddittorio quindi si attiene alla regola del linguaggio, quindi una nozione di “vero” un po’ particolare, come dire che a questo punto, il “falso” in quanto ciò che è autocontraddittorio è semplicemente ciò che impedisce al discorso di proseguire. Se io dico che questo è un accendino e che questo non è un accendino simultaneamente, non dico niente, dico una cosa e poi la nego, sì posso farlo nel senso che la struttura linguistica mi consente anche questo, ma non ha nessuna portata, non mi porta da nessuna parte, letteralmente non mi indica nessuna direzione e allora potremmo aggiungere ancora questo che il vero, cioè ciò che non è autocontraddittorio, indica una direzione, semplicemente, lungo la quale è possibile proseguire, il falso no, dice che da qui non si può proseguire, nel senso che non se ne può fare niente di questa proposizione, la si formula ma non può farsene assolutamente niente, cioè si ferma, si arresta…

- Intervento: si può dire che il vero fornisce del senso?

Già, questo introduce una questione di cui per il momento non ci stiamo occupando, certo e poi c’è anche questo aspetto, l’aspetto semantico, ma per il momento ci atteniamo ad un criterio prettamente logico. Ma allora proviamo ad attenerci ad un criterio che sia prettamente analitico, cosa possiamo affermare di prettamente ed esclusivamente analitico? Che l’unica proposizione che non può essere confutata è quella che afferma se stessa, vale a dire, abbiamo detto in varie occasioni, che gli umani in quanto parlanti parlano. Questa è una proposizione analitica in quanto non dice propriamente niente, le proposizioni analitiche hanno la virtù di non dire niente, non dicendo nulla non si autocontraddicono evidentemente, però resta che non aggiunge assolutamente nulla, considera ciò che necessariamente deve essere. Per formulare questa proposizione occorre che in qualche modo io parli e quindi, se volete, anche una tautologia, una proposizione analitica non ci dice nulla di più di quanto già sappiamo, sarebbe il sillogismo scientifico di Aristotele, o la deduzione pura, perfetta, assoluta, quella che di fatto non dice assolutamente nulla se non che questo elemento è necessariamente implicito in quello da cui procede. Ora si tratta di questo, che noi ci siamo trovati a muovere da qualche cosa di cui non possiamo non tenere conto, di cui non possiamo non tenere conto per proseguire. Questo è una sorta di esercizio in cui ci siamo trovati lungo l’indagine che compiamo da un certo numero di anni, cioè tutto ciò procede da alcune considerazioni che ci dicevano che qualunque teoria che abbiamo incontrata nel corso di queste esplorazioni che stiamo facendo, muoveva da un certo numero di premesse, di principi o meglio di assiomi assolutamente arbitrari. Voi riflettete su qualunque teoria, c’è ad un certo punto, all’inizio, nell’enunciazione di questa teoria l’esigenza, la necessità di porre una sorta di atto di fede, come dire: per tutto ciò che segue occorre che tu creda questo. Può anche essere un invito soltanto, non importa quale né quanti, ma ciò che in ciascun caso si rileva è che è necessario credere che qualche cosa, che di fatto non ha di per sé alcuna giustificazione, sia vero. Una volta accolto questo elemento poi è possibile dedurre e indurre qualunque cosa, però c’è questo atto di fede originario, ora la questione da cui siamo partiti è questa: è possibile dire qualcosa senza che ci sia questo atto di fede? Era una bella domanda, a cui stiamo incominciando a rispondere muovendo, come dicevo prima, propriamente da ciò di cui non si può non tenere conto per proseguire a parlare. È una considerazione questa che muove da qualcosa di cui non possiamo non tenere conto che compie un passo (anche Kant ha posto nel suo programma questo avvio, anche se c’è qualche differenza) che ci consente di non accogliere delle cose che potrebbero non essere e in qualunque teoria che voi prendiate c’è un assioma, un principio, un assunto che afferma che le cose stanno così, ma potrebbero benissimo non essere, mentre se io affermo che gli umani parlano, potrebbe non esserlo? No, se sto parlando, perché è autocontraddittorio, cioè falso e a questo punto non vado da nessuna parte, mi arresto immediatamente, dunque è ciò di cui non si può non tenere conto per proseguire a parlare. A questo punto abbiamo uno strumento che ci consente non di costruire una teoria, perché non ha nessun fondamento in quanto non presuppone niente, assolutamente niente, semplicemente considera ciò che non può non considerare. Ora posta la questione in questi termini si tratta di procedere lungo questa via, seguendo in parte anche Kant, perché ci da qualche indicazione qua e là, adesso proviamo a vedere di aggiungerne qualcuna ecco:

Tuttavia, e questo deve sempre essere ben notato, in tutto ciò si deve far sempre questa riserva: che noi dobbiamo poter pensare gli oggetti stessi anche come cose in sé, sebbene non possiamo conoscerli. Giacché altrimenti ne seguirebbe l’assurdo che ci sarebbe un’apparenza senza qualche cosa che in essa appaia.

Ora qui si trova in un intoppo (intoppo che per altro poi risolve a modo suo), anche se così come abbiamo posta noi la questione in effetti non lo si incontra affatto dal momento che se qualche cosa appare, il fatto che appaia non ci dice propriamente assolutamente niente, non segue necessariamente un’esistenza, segue soltanto una struttura linguistica che propriamente, grammaticalmente, dice soltanto che se qualcosa appare allora c’è qualche cosa in questa apparenza, ma questo che cosa me lo dice? Me lo dice la grammatica, e la grammatica, come diceva Wittgenstein, è una cosa piuttosto bizzarra, che mi consente di fare delle implicazioni, di dire che una cosa segue ad un’altra, e che se una cosa allora quest’altra, ma già questa considerazione, cioè dire che se parlo di apparenza occorre che ci sia qualche cosa che appare potrebbe non essere così automatico. Perché? Chi lo ha stabilito? Io posso trovare questa regola nella grammatica, ma come già lui stesso notava non posso sapere nulla che non sia implicito nella grammatica, in questo senso porsi la questione in questi termini (se appare qualcosa allora c’è qualcosa) non significa assolutamente niente, significa soltanto porre una regola grammaticale. Aggiunge:

Ma sebbene ogni nostra conoscenza cominci con l’esperienza, non perciò essa deriva tutta dalla esperienza. Infatti potrebbe essere benissimo che la nostra stessa conoscenza empirica fosse un composto di ciò che noi riceviamo dalle impressioni e di ciò che la nostra propria facoltà di conoscere vi aggiunge da sé (stimolata solamente dalle impressioni sensibili); aggiunta che noi propriamente non distinguiamo bene da quella materia che ne è il fondamento, se prima un lungo esercizio non ci abbia resi attenti ad essa, e non ci abbia scaltriti alla distinzione. V’è pertanto almeno una questione, che ha bisogno ancora di essere esaminata più da vicino e che non si può sbrigare subito a prima vista: se cioè si dia una simile conoscenza, indipendente dall’esperienza e dalle stesse impressioni tutte dei sensi. Tali conoscenze son dette a priori e distinte dalle empiriche, che hanno le loro origini a posteriori, cioè nell’esperienza.

Un altro modo per rimarcare qualche cosa che può farsi effettivamente, e cioè affermare qualche cosa che è implicito unicamente da quelle regole, da quel gioco che ci consente di fare tutte queste considerazioni:

… il concetto di causa contiene così manifestamente il concetto di una necessità del legame con un effetto e di una rigorosa universalità della legge, che esso andrebbe interamente perduto, se lo si volesse derivare, come fece Hume, dal frequente associarsi di ciò che accade con ciò che precede, e da una abitudine che ne deriva (e perciò da una necessità semplicemente soggettiva) di collegare certe rappresentazioni. Si potrebbe anche , senza bisogno di simili esempi per trovare la reale esistenza di principi a priori nella nostra conoscenza, dimostrare che essi sono indispensabili per la possibilità della stessa esperienza, e quindi a priori. Perché, dove l’esperienza stessa cercherebbe mai d’attingere la sua certezza, se tutte le leggi, secondo le quali essa procede, fossero sempre empiriche e perciò contingenti; e se, per conseguenza, esse non potessero farsi valere come principi primi?/…/ Così, se togliete via dal vostro concetto empirico di ciascun oggetto, corporeo o incorporeo, tutte le proprietà che l’esperienza vi insegna, non gli potete non di meno togliere quella, per cui lo pensate come sostanza, o aderente a una sostanza (sebbene questo concetto abbia una determinazione maggiore che quello di oggetto in generale). Spinti dalla necessità con cui questo concetto vi si impone, dovete dunque convenire che esso ha la sua sede nella vostra facoltà di conoscere a priori. /…/ Ora pare in verità naturale che, appena abbandonato il terreno dell’esperienza, non si possa subito, con le conoscenze che si posseggono non si sa donde, e sul credito di principi di cui non si conosce l’origine, elevare un edifizio, senza prima essersi assicurati, con accurate ricerche, della fondazione di esso, e senza che dunque sia stata scrutata piuttosto da un pezzo la questione del come possa l’intelletto giungere a tutte queste conoscenze a priori, e quale estensione, quale validità, qual valore esse possano avere.

Se voi riflettete intorno a questo fatto semplicissimo, cioè che ciò che comunemente si chiama intelletto può pensare solo perché esiste una struttura (che è quella linguistica) che glielo consente, e che l’intelletto stesso è in prima istanza un significante avete immediatamente la possibilità di intendere come la questione che sta ponendo Kant risulta assolutamente imprescindibile, perché di fatto si chiede quali sono le condizioni per cui conosciamo, qualunque esperienza, qualunque cosa io avverta in quanto tale è comunque vincolata a una struttura che mi consente di percepirla, di vederla, di considerarla, in qualunque modo lo faccia:

In tutti i giudizi, nei quali è pensato il rapporto di un soggetto col predicato (considero qui soltanto quelli affermativi, perché poi sarà facile l’applicazione a quelli negativi), codesto rapporto è possibile in due modi. O il predicato B appartiene al soggetto A come qualcosa che è contenuto (implicitamente) in questo concetto A; o B si trova interamente al di fuori del concetto A, sebbene sia in connessione col medesimo. Nel primo caso chiamo il giudizio analitico, nel secondo sintetico.

Dunque il giudizio analitico dice semplicemente che un elemento è contenuto necessariamente in un altro, in questo non è autocontraddittorio, per cui non dice propriamente nulla, continua ad affermare le stesse cose, quello sintetico no, quello sintetico dice di qualcosa che non è necessariamente. Se volete dirla così nei termini di Kant, ciò che stiamo rilevando è qualcosa che è prettamente analitico, non ancora sintetico anche se parlando è impossibile non trovarsi a formulare giudizi sintetici, nell’accezione che dice lui, sia a priori che a posteriori, tuttavia rimane che l’elemento da cui muoviamo è ciò che necessariamente dobbiamo accogliere, perché non accoglierlo comporterebbe l’impossibilità di proseguire.

Giudizi analitici (affermativi) son dunque quelli, nei quali la connessione del predicato col soggetto vien pensata per identità; quelli invece, nei quali questa connessione vien pensata senza identità, si devono chiamare sintetici. I primi si potrebbe anche chiamarli giudizi esplicativi, gli altri estensivi; poiché quelli per mezzo del predicato nulla aggiungono al concetto del soggetto, ma solo dividono con l’analisi il concetto nei suoi concetti parziali, che erano in esso già pensati (sebbene confusamente); mentre al contrario, questi ultimi aggiungono al concetto del soggetto un predicato che in quello non era punto pensato, e non era deducibile con nessuna analisi. Se dico per esempio: tutti i corpi sono estesi, questo è un giudizio analitico: Giacché non mi occorre di uscir fuori dal concetto che io unisco alla parola corpo, per trovar legata con esso l’estensione, ma mi basta scomporre quel concetto, cioè prendere coscienza del molteplice che io comprendo sempre in esso, per ritrovarvi il predicato; questo è dunque un giudizio analitico. Invece se dico: tutti i corpi sono gravi; allora il predicato è qualcosa di affatto diverso da ciò che io penso nel semplice concetto di corpo in generale. L’aggiunta di un tale predicato ci dà perciò un giudizio sintetico.

Vi ho letto questo soltanto per precisare la questione di cui stiamo parlando rispetto al giudizio analitico. Ora prendiamo l’esempio che fa lui del corpo “se dico: tutti i corpi sono estesi, è un giudizio analitico” ora cosa me lo fa pensare? Perché pronunciando questo termine “corpo”, implicitamente parlo di estensione, anziché immaginare che questa sia un’aggiunta assolutamente arbitraria? Forse per un motivo molto semplice, forse qui Wittgenstein ci dà un suggerimento, perché direbbe lui la nozione di estensione è semplicemente implicita nell’uso che faccio del termine corpo. In questo senso è implicita, però potrei fare un altro uso di questo termine, non possiamo escluderlo necessariamente, anche se potremmo contravvenire a delle regole grammaticali, se noi potessimo pensare “corpo”, senza pensare un’estensione, allora avremmo formulato un giudizio che non è autocontraddittorio e non è analitico. Ora ciò che ce lo impedisce, se ce lo impedisce, è soltanto una questione grammaticale, vale a dire, in questo caso, più una questione di campi semantici direbbe Greimas, per cui la nozione di corpo prevede e comprende quest’altro campo di estensione, però noi possiamo pensare una nozione di corpo che non sia esteso, senza che questo comporti una contraddizione. Ciò invece che ci interessa è compiere una affermazione, di cui non possiamo in nessun affermare altro, senza che questo altro sia autocontraddittorio, e a questo risponde la proposizione che abbiamo detta prima, per cui questa dell’estensione del corpo è possibile negarla senza contraddirsi, ma se io dico che “gli umani in quanto parlanti parlano” non posso negarlo senza autocontraddirmi, perché qualunque cosa io faccia la faccio in un linguaggio e dunque confermo ciò che sto negando e pertanto l’affermarlo risulterebbe autocontraddittorio. Se volete porla in questo modo, la proposizione su cui stiamo riflettendo è ancora più analitica di quella di Kant, più necessaria. Poi passa a parlare dei giudizi sintetici, però a noi interessa soffermarci su questo aspetto particolare, cioè sul giudizio analitico, poi ci occuperemo del sintetico a priori cioè dato necessariamente, dato in modo tale per cui non possiamo fare nulla senza questo elemento, in questo senso a priori, insito in ciò stesso che utilizziamo per formulare qualsiasi proposizione, per fare, per dire, per pensare qualunque cosa, con “a priori” potremmo dire anche necessario, come ciò che non può non essere, che non può non darsi, come ciò che non può non considerarsi. Ma come proseguire a questo punto? Perché formulata la questione in questi termini si potrebbe dire: e adesso, quali riflessioni possiamo fare?

Intanto possiamo provare a vedere se possiamo dedurre analiticamente altro da tutto ciò, e cioè se ci sono altre cose di cui non possiamo non tenere conto, visto che stiamo facendo questo esercizio, giusto per tenere la mente allenata, allenata in queste sofisticherie. Una riflessione che possiamo fare è questa, che ciascuno parlando dice molte di cose, si riferisce a molte cose, ma tutto ciò a cui si riferisce non può avere un referente fuori da ciò che sta dicendo. Accennavo prima che è una questione di una portata immensa, e possiamo considerare se questa formulazione è analitica oppure no. Se ciò che si dice avesse un referente, cioè comportasse la possibilità di uscire fuori dal linguaggio, fuori dalla parola, ci sarebbe almeno un elemento che non sarebbe preso in questa struttura, ma qui di nuovo Kant ci sorregge: ma se non è preso in questa struttura con che cosa lo conosciamo? Bella questione, non ne sapremmo nulla, anche se ipotizzassimo una cosa del genere, ciò che conosciamo, ci rammenta lui continuamente, è necessariamente conosciuto attraverso quello che lui chiama giudizio a priori, cioè le regole di questo gioco, come direbbe Wittgenstein, se noi conosciamo necessariamente attraverso questo va da sé che non possiamo in nessun modo pensare che sia fuori dal linguaggio, ciò che conosciamo dunque è ciò che pensiamo, ciò che diciamo, in questo senso anche questa proposizione risulterebbe analitica. Come dire che (lasciando l’eventualità che questa sia una proposizione analitica) questa risulterebbe assolutamente necessaria (tutto ciò che si conosce è conosciuto attraverso la struttura linguistica e pertanto non c’è uscita dal linguaggio), detta in altro modo, le cose non hanno alcun referente fuori da se stesse Dunque dicevo, se questa risultasse una implicazione analitica sarebbe assolutamente necessaria. Allora come avviene che ciascuno pensa esattamente il contrario? È una questione anche questa. Cosa vuole dire pensare il contrario intanto? Usare il linguaggio in un modo particolare e cioè supponendo questo: che ciò che il linguaggio fa, produce, dice, produca cose su cui il linguaggio non può intervenire, come se (ed è questa la superstizione fondamentale) il linguaggio producesse cose che vanno fuori dal linguaggio, cioè il linguaggio non può più controllare, e queste sono tutte le affermazioni che dicono che le cose stanno così, sono così, per cui qualunque cosa si dica questa cosa rimane quella. Ma a questo punto ci interessa moltissimo intendere per quale via questo può avvenire, in buona parte abbiamo già fatto delle riflessioni intorno a questo, ma la questione è molto più ampia, più complessa di quanto abbiamo finora detto, perché se ci atteniamo a ciò che abbiamo appena stabilito come necessario, possiamo trarre da questo una serie di implicazioni che per quanto per nulla necessarie, tuttavia possiamo accogliere, dal momento che queste regole del linguaggio non ci consentono affatto di stabilire il perché delle cose, proprio per nulla, al momento in cui noi inincominciamo a chiederci delle cose, il perché di qualche cosa, già compiamo un’altra operazione che non comporta più nulla di necessario in quanto tale, salvi naturalmente gli elementi o gli strumenti per fare questa affermazione ma ciò che queste affermazioni affermano, potremmo dirla così, può benissimo non tenere conto di ciò che è necessario per compiere queste affermazioni. A questa punto c’è un salto, un salto che occorre compiere per quelli che Kant chiama giudizi sintetici, o il passaggio dalla deduzione all’induzione o altre cose… Perché qualunque cosa noi potessimo mai formulare intorno al “perché mai avvenga una cosa del genere”, qualunque affermazione di questo tipo non sarà mai necessaria in nessun modo. Ecco perché il paradosso del “perché chiedersi perché” comporta sempre necessariamente un salto non giustificato ma che potremmo anche considerare necessario ma in altra accezione di necessario, in effetti ciò su cui ci stiamo interrogando è ciò che non può non ammettersi, ciò che non può non accogliersi per proseguire a parlare, e allora ecco l’introduzione (sembra inevitabile) del giudizio sintetico, ci introduce a tutta la questione complicatissima del giudizio sintetico (questione che per altro già Aristotele aveva posta) di cui però parleremo martedì prossimo, adesso se ci sono delle questioni intorno a ciò che abbiamo appena detto possiamo discutere. Dicevo che del giudizio sintetico parleremo la volta prossima perché è un discorso piuttosto complesso dal momento che a rigore di logica, chiederci il perché non ha alcun senso, allora che cosa vuol dire questa operazione del chiedersi il perché delle cose, e qui di nuovo Kant ci fornirà una serie di elementi su cui riflettere, non solo lui, perché occorrerebbe tenere conto di Aristotele a questo punto che ha detto parecchio, soprattutto nell’Organon e nella Metafisica. Di cosa parlo venerdì? L’avvenire della comunicazione. Va bene, allora proseguiremo venerdì prossimo.