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21-3-1995

 

Wittgenstein: Libro blu e libro marrone. (1 incontro)

 

Dal Libro Blu: Il modo, in cui questa domanda ci aiuta a comprendere il problema del significato d’una parola, è analogo al modo nel quale la domanda: “Come misuriamo una lunghezza?” ci aiuta a comprendere il problema: “Che cos’è la lunghezza?”.

Le domande: “Che cos’è la lunghezza?”, “Che cos’è il significato?”, “Che cos’è il numero uno?” etc., producono in noi un crampo mentale. Noi sentiamo che non possiamo indicare qualcosa in risposta ad esse, eppure dobbiamo indicare qualcosa. (Ci troviamo di fronte ad una delle grandi fonti d disorientamento filosofico: noi cerchiamo una sostanza (substance) in corrispondenza ad un sostantivo (substantive); un sostantivo ci induce a cercare una cosa che corrisponda ad esso.

Porre preliminarmente la domanda: “Che cos’è una spiegazione del significato?” presenta due vantaggi. In un certo senso, tu riporti sulla terra la domanda: “Che cos’è il significato?” In effetti, per comprendere il significato di significato, tu devi comprendere anche il significato di “spiegazione del significato”. In altri termini: “Domandiamoci che cosa sia la spiegazione del significato; infatti, ciò che sia spiegato da essa sarà il significato”. Studiare la grammatica dell’espressione “spiegare il significato” ti insegnerà qualcosa sulla grammatica della parola “significato” e ti libererà dalla tentazione di cercare qualcosa da chiamare: il significato.”

Ecco, direi di fermarci qui perché ci sono già varie cose di cui discutere. Dunque, chiedersi che cos’è il significato di qualche cosa è una domanda particolare, è una domanda curiosa. Che cosa ci si attende come risposta? Come nota Wittgenstein, l’attesa è che a questa domanda corrisponda effettivamente qualcosa. E crea qualche problema l’eventualità che questo qualcosa non esista, non esista o non sia reperibile. È questo tipo di domanda che a noi interessa particolarmente qui, perché chiedere che cos’è il significato è come attendersi un qualche cosa, che come nota Wittgenstein è differente dal chiedersi che cosa dobbiamo intendere qui in questa occasione con questa domanda, cosa stiamo chiedendo di fatto. È la domanda questa che già da tempo abbiamo indicata come domanda foriera dei più gravi intoppi che il pensiero incontri, intoppi di ordine logico prevalentemente, come aporie, contraddizioni. L’aporia è, per dirla in termini spicci, un intoppo logico tale per cui la soluzione che si cerca, si intravede che logicamente non è possibile, non c’è. Aporia, per esempio, la regressio ad infinitum, la ricerca delle cause, poi la ricerca della causa della causa, della causa della causa della causa... una sorta di insolubilia, si può dirla anche così, dunque questa è la domanda: che cos’è? In modo particolare qui il significato che pone la domanda circa qualcosa di essenziale rispetto a qualunque altra. Questo ci apre a una considerazione di un certo interesse, che è quella intorno alla logica di cui abbiamo parlato mille volte. Ecco: che cosa distingue un procedimento retorico da uno logico? questo, che alla domanda “che cos’è?” o “come fare?” o “come utilizzare?” la retorica offre molte risposte, la logica una, una che è ritenuta o può essere ritenuta necessaria, come dire che ciascuna volta la retorica compie un passo inferenziale, ma questo elemento che trova apre a una serie di altri elementi che può anche essere infinita, per cui se una cosa ha varie facce utilizzerò quella che mi è più opportuna in quel momento, la più conveniente. Invece la logica sembra avere questo percorso dove ciascun passo non offre una infinità possibilità o una serie di possibilità, ma offre soltanto una uscita, come nel calcolo inventato da Boole, che è utilizzato dai computer, una sola possibilità nel senso che l’altra è esclusa, questo dunque distingue perlopiù la retorica dalla logica, solo che è proprio così? Cioè è proprio vero che la logica offre un’unica possibilità di fronte a un passo induttivo, deduttivo, oppure anche la logica mostra vari aspetti? Non dovrebbe, non dovrebbe così come teoricamente non dovrebbe la matematica, che ha una funzione particolare, che assolve perlopiù, nel senso che ci sono degli intoppi anche lì, come nella logica, nella matematica sono i numeri irrazionali, sono varie cose, nella logica sono i paradossi, le antinomie cioè tutto ciò che insorge a rendere non più certa, non più sicura tutta la costruzione. Vi ricordate quell’esempio che avevamo trovato dal “Dell’interpretazione” di Aristotele del necessario, del possibile: se diciamo che A è necessario, a fortiori cioè a maggior ragione dobbiamo dire che è anche possibile, non potremmo ammettere che una cosa non sia possibile ma necessaria, se è necessario che A sia, non possiamo dire che non è possibile che sia, e dunque se è anche possibile che A sia allora siamo costretti a dire che se è possibile è anche non possibile, il possibile prevede anche il non possibile e quindi se A è non possibile che sia, necessariamente è anche non necessario che sia e così ciò che è necessario che sia è simultaneamente non necessario che sia. Come è avvenuto questo? Avviene perché questa esclusione, per cui se una cosa è necessaria o meglio è necessario che sia, non possiamo dire che se è necessario che sia allora non è possibile che sia, cosa ci impedisce di fare questo? Ci impedisce una regola logica, banalissima, che ci impedisce di considerare che se A è vero simultaneamente che sia anche falso, facevamo l’esempio l’altro giorno, dicevamo: se questo è nero da qui non può seguirne che allora necessariamente non è nero. Ma è una semplice inferenza logica, una regola della logica il fatto che ce lo impedisce, di fatto non diciamo niente di più che enunciare una regola logica, dunque se questa regola ci impedisce di asserire che se una cosa è necessario che sia è anche impossibile che non sia, non possiamo che prendere atto di questa regolamentazione, perché se non ne prendiamo atto, allora diventa tutto più complicato, nel senso che diventa difficile parlare e diventa difficile trasmettere qualunque tipo di informazione. Dicevamo quindi della logica, che sembra comportare inferenze a una sola uscita, diciamola così intanto, in termini un po’ rozzi, la retorica no, anzi, l’abilità della retorica sta in questo, nel tenere conto, sapere perfettamente che ha moltissime possibilità ma nel far intendere che invece ne è possibile solo una, e invece sono possibili molte. La logica invece ha questo di differente, che enuncia soltanto le regole di inferenza, non fa altro, non fa esistere le cose, enuncia soltanto delle regole, così come il manuale per il gioco degli scacchi, non fa esistere né il gioco degli scacchi né gli scacchi in quanto tali, ma dice soltanto come si fa per giocare a “quel” gioco se invece uno vuole giocare a “tre sette” è inutile che si legga il manuale degli scacchi. Considerare la logica come un insieme di regole del gioco è già porla in modo differente da come generalmente si pone, come una sorta di viatico dato agli umani dagli dei perché potessero, tramite questo, giungere alla verità. “Nulla fides sine ratione” diceva Tommaso, non c’è fede senza un supporto logico. Bisognerebbe leggere di Tommaso La summa contra Gentiles, e i trentuno volumi della Summa Teologiæ. Ecco allora questa serie di regole, che consentono di procedere nel dire, non hanno né la funzione, né la possibilità, né la prerogativa di potere garantire alcunché fuori di sé, cioè fuori della struttura di cui stabiliscono le regole. Dire che facendo una certa mossa la torre si mangia il pedone per esempio, non ci dice nulla circa l’esistenza metafisica della torre o del pedone, ma soltanto un modo in cui possiamo agire, e se la torre mangia il pedone abbiamo usato correttamente, per così dire, questa indicazione, queste regole. Allora che dire di un paradosso, per esempio, Epimenide, cretese, dice: “Tutti i Cretesi mentono”, mente o dice la verità? Epimenide, di Creta, dice la verità se e soltanto se mente.(Intervento e racconto di un altro paradosso) Tutti i paradossi di autoreferenzialità, cioè quelli che sono formati applicando lo stesso divieto che vietano, a sé stessi o per esempio: “vietato vietare” o altre banalità di questo tipo. Come dire allora che una regola logica, in questo caso, non potrebbe essere applicata a se stessa, e questa è la teoria dei tipi di Russell, che ha utilizzato questo metodo per eliminare i paradossi... Allora dicevamo come è possibile che si produca un paradosso se si tratta soltanto di regole per la formazione di frasi, e quindi del loro uso? È possibilissimo, dal momento che la struttura logica stessa è fatta in modo tale da essere inserita, sono regole per l’uso del linguaggio, possiamo dirla così, la logica non è il linguaggio, sono regole per l’uso. È il linguaggio che consente di applicare ciascun suo elemento a ciascun altro, non lo vieta, di fatto è possibile affermare una cosa e simultaneamente negarla, cioè è possibile linguisticamente, non comporta nessun problema, ma comporta un problema logico, vale a dire che di fronte a questa cosa non si sa come utilizzarla. Non si sa come utilizzarla rispetto a un criterio logico, non retorico, la retorica invece sa benissimo come utilizzarla, ma la sa utilizzare perché dà per acquisito un criterio logico, un ossimoro non avrebbe nessun effetto retorico se non si avvertisse una sorta di stonatura o di contraddizione. Per esempio, poeticamente, qualcuno parla di “un fuoco gelato” può evocare qualche immagine, però questa figura ha degli effetti soltanto se si sa che il fuoco non è gelato, se no non produce assolutamente niente, quindi comunque prevede delle regole con cui può giocare, le può sovvertire a scopo provocatorio, però deve comunque coglierle per potere fare questa operazione. Dunque i paradossi, le antinomie, sono formulazioni che creano dei problemi perché non si sa come utilizzarle, come dire non si riesce a dare loro un significato, per cui si può dire: ecco, “questo” è questa cosa. Se nel quotidiano questo generalmente non comporta grossi problemi, tuttavia li si incontra anche nel linguaggio quotidiano laddove si volesse, per qualche motivo, fondarsi, se no non crea nessun problema. C’è dunque una proposizione di cui non si riesce a stabilire nessun significato, così come pareva esserla questa, cioè “cos’è il significato?” o più propriamente sarebbe “che cos’è il che cos’è?”, se proprio vogliamo porre la questione in termini più precisi, non solo “che cos’è questo?” sì va bene ma che cos’è il che cos’è? Se potessimo rispondere a questa domanda allora potremmo anche alle altre. Allora cosa possiamo trarre da qui, che non c’è nessun elemento che possa rispondere di sé, non da sé, ma di sé, non c’è elemento che possa dire nulla di sé, ma soltanto può dire spostandosi, andando altrove. Dunque nessun elemento può dire di sé se non incappando in una sorta di regressio ad infinitum, come se nessun elemento assunto potesse sostenersi, potesse esistere di per sé, da qui alcuni, che poi sono diventati noti come strutturalisti, hanno pensato che in effetti ciascun elemento acquisisce una portata, come diceva già De Saussure, all’interno di una combinatoria, di per sé non vuole dire proprio niente. Wittgenstein giunge a dire che il significato non è altro che l’uso in cui occorre questo elemento, ma tuttavia occorre pure considerare che non è che ciascuna parola voglia dire qualunque cosa, perché di nuovo saremmo di fronte all’impossibilità di potere parlare, e allora ecco che ci troviamo di fronte già a un problema dei linguisti, di Saussure in particolare, e cioè la dicotomia fra la “langue” e la “parole”, vale a dire tra la lingua con tutte le sue possibili forme, connessioni e utilizzi e poi la parole che è l’esecuzione che di fatto non può dire simultaneamente mille cose. Tutto ciò ci interessa per questo motivo, che a ciascun lessema corrisponde, in questo caso, più che un significato, come direbbe Greimas, un campo semantico. Ci sono una serie di altri elementi che, per dirla in termini un po’ spicci, gravitano intorno a questo elemento, cioè sono all’interno di un insieme in cui compaiono altri elementi, ma questo insieme non è chiuso, come dire che non può esaurirsi questa serie di altri elementi, per cui questa cosa vuol dire esattamente questo, c’è un riferimento ad alcuni altri termini. I linguisti che si sono occupati di stabilire, come Greimas per esempio, dico lui in particolare ma anche Hjelmslev, di restringere il più possibile questo campo semantico in modo di poterne fare un insieme chiuso, quindi isolato e delimitabile, si sono trovati di fronte a dei problemi insormontabili e cioè questi campi semantici esplodono, mano a mano che si cerca di chiuderli esplodono verso altri, per cui risulta una formulazione che può suonare abbastanza paradossale: meglio ci si capisce quanto meno si chiacchiera. Perché? Sì è un paradosso evidentemente, non è che sia proprio così ma è così nella misura in cui non si mette alla prova ciò che si dice, allora io dico una certa cosa, l’altro la intende o fa mostra di avere capito, basta così, finiamo lì, come per lo più avviene, perché se si incomincia a chiedere precisazioni, specificazioni e definizioni e delimitazioni ecco che allora diventa un problema arduo che può addirittura divenire insormontabile. Dunque ciò che capisco è sempre molto approssimato, ma approssimato qui cosa vuole dire? Vuole dire che coglie solo alcuni aspetti, ora questi aspetti diciamo possibili, subiscono una sorta di aggiustamento, tenendo conto anche degli altri elementi che intervengono, sono una quantità enorme di formulazioni che sarebbero assolutamente non intelligibili se non fossero precedute e seguite da altre, che aggiustano il tiro o, come sarebbe più proprio dire, le encatalizzano. Encatalizzare vuol dire questo: stabilire in base agli elementi che sono assenti nella proposizione di cui si vuole stabilire il senso, qual è il senso più proprio, cioè ricostruisce il senso della proposizione a partire da altri elementi che sono fuori dalla proposizione, ma senza i quali non è possibile intendere nulla. Per esempio uno trova una epigrafe latina con scritto “desiderata” non sa se è un femminile singolare o un neutro plurale, viene a saperlo da altri elementi, ma di per sé non potrebbe mai saperlo. Così dunque avviene parlando, e questi elementi che assenti, consentono di stabilire il senso delle proposizioni sono la più parte del proprio discorso. Questi aggiustamenti che vengono fatti parlando consentono di orientarsi, ma un conto è orientarsi attraverso un certo senso, altro è volere sapere che cosa esattamente è il senso della proposizione. Come dicevo prima, se qualcuno dice qualcosa ad Alessio e Alessio non chiede niente, dice: “ho capito” e la cosa finisce lì, ma se si comincia a dire: che cosa ha voluto dire esattamente con questo? Poi con questo, e poi questo con quest’altro, non si capisce più niente. Succede che né il suo amico, né Alessio sanno più di che cosa stessero parlando. Ora tutto ciò risulta essenziale per quanto riguarda il modo in cui ciascuno parla anche tra sé e sé, forse soprattutto fra sé e sé, quando cioè per qualche motivo si trova di fronte all’eventualità di dovere considerare in modo più preciso quelle cose che sta dicendo, e si chiede per esempio che senso ha ciò che sta dicendo, ciò che sta facendo, nella fortunata ipotesi che non lo dia per acquisito, perché se lo dà per acquisito è escluso che si chieda alcunché, dandolo per acquisito immagina che magicamente questo senso sia insito, non tanto in ciò che dice ma nelle cose che descrive. Che cos’è allora, si chiede Wittgenstein, il significato? Cosa dovremmo rispondere a questa domanda? Potremmo dare varie risposte a questo punto, “che cos’è il significato?” è il modo in cui pongo una domanda, il senso di questa domanda o l’impiego di questa domanda. Dal momento che la proposizione come usano i logici fra virgolette, per indicare il nome di una proposizione “che cos’è il significato?” è in prima istanza una domanda, se noi prendessimo alla lettera tutto ciò, potremmo dire che il significato è una domanda, in questo caso, ma forse non andremmo molto lontani dal dire qualcosa che forse può tornarci utile nel proseguo.

- Intervento: intanto dice che è qualche cosa.

Sì, certo, è qualcosa cioè è una proposizione. Ma ancora non lo dice propriamente, si chiede che cosa sia, ma ancor prima di questo c’è una domanda, la domanda è sancita dal punto interrogativo. E qui Wittgenstein le obietterebbe immediatamente che lei dà al lessema “cosa” un significato molto preciso, muovendo questa obiezione perché ancora è da stabilire, ancora non siamo arrivati a quel punto, ci atteniamo per il momento a ciò di cui disponiamo e quindi a una proposizione con il punto interrogativo. Certo che questa domanda, questa proposizione così combinata ha delle prerogative precise, il fatto che ci sia un punto di domanda, il fatto che ci sia una copula comportano una serie di elementi tutt’altro che trascurabili. Nel senso che, ecco che cosa comporta, per esempio, che ci sia un punto di domanda? Come qualunque manuale di grammatica insegna o cerca di fare, instaura una aspettativa, un’attesa, la domanda instaura un’attesa di qualcosa, intanto è questa la funzione del punto di domanda, sospende qualcosa in attesa di altro. Tenga conto che quando fa un’analisi di qualunque elemento linguistico, qualunque esso sia, questa analisi occorre che muova soltanto da ciò in cui in nessun modo può prescindere, cioè da ciò che c’è, proprio lì, proprio dalla prima considerazione e d’altra parte anche una psicanalisi fa qualcosa che non è molto lontano da questo, nel senso che si attiene propriamente e prevalentemente a ciò che si dice, ciò che c’è, ciò che si pone lì, alle cose che avvengono lì, anche il racconto di un fatto avvenuto mille anni prima è qualcosa che sta avvenendo lì, sono cose che si producono lì. Dicevamo, la prima cosa da fare, anche rispetto a una propria questione, per esempio, supponiamo che Alessio si trovi di fronte a un quesito e si ponga dunque la domanda, ecco allora potrebbe, volendolo, muovere da questo, dal fatto che in quel momento sta domandando qualcosa, il che potrebbe non essere del tutto marginale, vale a dire che rispetto a qualcosa c’è una attesa, c’è una sospensione, una sospensione per esempio di senso. Perché quel tizio ha fatto così anziché cosà? Perché non tenere conto che intanto c’è una domanda? E cioè c’è l’attesa di qualche cosa che deve avere una funzione, c’è una sospensione, perché si dice che in filosofia non si fa altro che domandare? Perché c’è qualche cosa sempre in sospeso, cioè non c’è mai la chiusura, ma tutto sommato anche in un itinerario analitico, anzi, Freud e più di lui Verdiglione, posero la domanda connessa alla pulsione come una delle istanze più proprie dello psichico, il fatto che esista una domanda, un domandare strutturale, dire che c’è questa continua sospensione circa qualunque cosa che si incontri, sospensione che non può togliersi, ma questa è ancora un’altra questione, di fatto qui anche nel caso di Alessio c’è una sospensione, c’è una attesa. L’attesa ciascuna volta comporta un rilancio, un rinvio ad altro, perché se elude tutto ciò, cosa avviene perlopiù? Avviene questo, che la sospensione viene eliminata a vantaggio di un qualche cosa, ma questo qualche cosa che trova, rispondendo alla domanda “perché tizio ha fatto così”, donde viene? Alessio avrà fatto sicuramente una serie di ragionamenti per giungere a quella conclusione, giunge a questa conclusione e sa che le cose stanno così. Anche il metodo della scienza, anche se magari è un po’ più articolato funziona così, cioè procede attraverso una serie di deduzioni e di induzioni, e da una domanda giunge a un elemento che viene posto come ciò che fa cessare questa domanda, fa cessare la sospensione, è una serie di inferenze, c’è questo e quindi se c’è questo necessariamente c’è questo, ma se c’è questo necessariamente c’è quest’altro e quindi... fino all’ultima inferenza, per cui si giunge ad affermare: e quindi questo. Però a questo punto possiamo tenere conto di ciò che abbiamo detto delle regole del gioco, e Wittgenstein le paragona continuamente alle regole del gioco degli scacchi, che ci dicono come muovere per ottenere un certo risultato; nel caso del linguaggio per giungere ad altre proposizioni e per dire ad altri delle cose, in modo tale perché ci sia una risposta più o meno adeguata, dunque la conclusione cui giunge Alessio ci dice soltanto che cosa? Che ha usato in modo più o meno corretto queste regole, ma il fatto che abbia usate in modo più o meno corretto queste regole cosa ci dice del fatto che questo tizio abbia fatto in un modo oppure in un altro, perché dovremmo supporre di avere ricostruito tutti i passaggi di quest’altro tizio? Può essere giunto a quella condotta per altri motivi, e quindi lungo un giro di inferenze che è assolutamente estraneo a quello che abbiamo concluso. Quindi che cosa possiamo dire, che questo è ciò che in qualche modo abbiamo pensato e che non è escluso che possa essere stato pensato anche da lui, non è escluso, questo solo potremmo dire. E che altro? Che abbiamo seguito correttamente un calcolo logico? Sì, possiamo anche averlo seguito correttamente ma, qui riprendiamo la questione di prima, a quali condizioni possiamo dire che ciascun passaggio comporta necessariamente una sola uscita? Cioè se fa tutto questo, è perché questo, quindi se questo allora quest’altro, oppure potremmo dire “se questo” allora qualunque altra cosa? In teoria sì, che cosa ci fa pensare che ci sia questa eventualità, che lui abbia pensato qualcosa di simile. Il fatto che si attenga agli stessi luoghi comuni, cioè abbia delle credenze o creda in cose a cui credo anch’io, questo solo mi consente di potere cogliere l’eventualità che sia possibile. Poi, rispetto alla nozione di possibile, di provabile ci sarebbe da dire moltissimo, dedicheremo una serie di incontri per queste nozioni, di possibile, di provabile, se è provabile cosa provi esattamente? Questione che ha lasciato sgomenti anche le menti più argute. Ecco, dicevo che è questo che mi consente di pensare che sia possibile: se io credo fortemente e fermamente in dio, e so che anche Alessio crede la stessa cosa, e se so che Alessio ha bestemmiato dio, allora so che Alessio ha commesso un peccato e che lui sa di avere commesso un peccato, a queste condizioni io posso dire qualcosa del genere, se crediamo le stesse cose ma credere le stesse cose non è attenersi a una serie di regole che abbiamo stabilite? Perché è interessante tutto ciò che abbiamo detto, per quale motivo?

Intervento: Wittgenstein dice che nel linguaggio aspettazione e adempimento si toccano...

Bisognerebbe controllare il testo tedesco “aspettazione”, qui sembra porre l’accento su qualcosa di compiuto, “l’attesa” pone più l’accento sulla sospensione, e poi?

Intervento: Attesa e adempimento dicevo, la domanda instaura una attesa e lui sembra dire che questa attesa sia adempimento come se la domanda sia già...

Sì, certo, dire che ciò che fa nella domanda si adempie nella domanda, sì non è lontano da ciò che dicevamo prima rispetto al fatto che una domanda, come l’aspettarsi qualche cosa, questo qualche cosa che aspetta è già adempiuto di fatto nella domanda, che è un altro modo per dire che una domanda non attende nessuna risposta, non c’è risposta possibile alla domanda perché verrebbe da altrove, verrebbe da un altrove mentre ciò che indica Wittgenstein si compie nella domanda, lì nel domandare, e quindi nel linguaggio, è come dire che da fuori non c’è qualcosa che possa supportare o garantire, ma dicendo che si adempie nel domandare si pone la questione in termini più radicali, come se dicessimo che la domanda domanda se stessa, d’altra parte come potrebbe attendersi qualche cosa fuori di sé? Nel senso che ciò che domanda se è insito nella domanda non può in nessun modo venire da altrove, se l’adempimento e l’aspettazione si toccano, non c’è nessuno spazio per ciò che potrebbe eventualmente giungere come risposta da altrove, è una questione abbastanza complessa questa. Va bene ci vediamo venerdì all’Araba Fenice.