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20 giugno 1995

 

L’implicazione è un’inferenza che dice che “se p allora q”, che se una cosa allora un’altra, dove questa implicazione, questa connessione tra l’uno e l’altro risulta necessaria.

La logica formale coglie la questione in modo preciso. Cosa vuol dire che “se p al­lora q”? Vuol dire che se si dà p necessariamente si dà q. Tant’è che, sempre nella logica formale, l’unico caso in cui questa implicazione non è vera è il caso in cui l’antecedente è vero e il conseguente è falso. Cioè non si dà il caso, dice l’implicazione, che ci sia p ma non q. Tant’è che uno dei modi per intendere l’implicazione in questo caso è considerare in termini più precisi la formulazione “se p allora q” come la negazione della proposizione che afferma p e ~ q, quindi “non (p e ~ q)”.

Nelle tavole di verità che fanno i logici c’è un solo caso in cui l’implicazione “se p allora q” è falsa ed è il caso in cui l’antecedente è vero e il conseguente è falso, ché sarebbe come dire che in questo caso l’implicazione è falsa. Viene trascritto, per illustrare questo fenomeno, attraverso una variazione, perché “se p allora q” può anche scriversi in quest’altro modo non (p e ~ q), come dire che non si dà il caso che ci sia p ma non q. Questo per definizione, come dire che “p implica q” vuol dire questo.

Da dove traggono i logici questa certezza? La traggono da una decisione: stabiliscono che in questo caso se c’è p allora necessariamente c’è q. Questo vuol dire l’implicazione, niente altro che questo.

Per molti, tra cui Colli, l’implicazione non è altro che una variante, ciò che ri­mane di un’implicazione necessaria e divinatoria, vale a dire che per Colli l’im­plicazione procede dalla divinazione. Se il fegato di qualche animale ha l’ampol­lina a sinistra vuol dire che sarà una sciagura per tutti voi.

Il divinare è il trarre le cose divine, come dire che c’è un segno nelle cose, che gli dei hanno lasciato nelle cose, per cui se si intende questo segno che hanno la­sciato si intende il loro volere e si intende, in definitiva, qual è il destino degli umani o, più propriamente, cosa significano le cose.

Questo apre a una questione di notevole interesse, dal momento che lo stesso Colli ci dice che è proprio questa forma di inferenza, questa implicazione a essere all’origine del pensiero in quanto tale, cioè l’inizio di una serie di considerazioni per cui si avverte che un elemento è segno di un altro, cioè rinvia a qualcos’altro.

Cosa è l’estispicina, o ieromanzia? È l’arte di predire il futuro attraverso l’ispezione delle vi­scere degli animali.

Ci sono dunque degli eventi che devono essere significati. In caso contrario, non so nulla. Ma tutto ciò ha una funzione particolare, che è quella di consentire a un elemento di potere dirsi in un altro.

Che cosa vogliono dire le cose? Ecco, è questa la questione centrale. Cosa stanno dicendo? Chi saprà dire cosa stanno dicendo le cose, quindi le parole?

Soltanto se un elemento è segno di un altro, allora posso dirne.

Considerate questo, che nell’implicazione ciò che risulta necessario non è tanto che questa proposizione q debba seguire da p, ma è l’implicazione in quanto tale che è necessaria o, se preferite, è necessaria l’esistenza stessa dell’implicazione. Perché, per definizione, se c’è una cosa deve essercene un’altra. Perché per defini­zione?

Avevamo visto qualcosa con Derrida la volta scorsa. Occorre che perché io possa dire di un qualche cosa, dirne qualunque cosa, quindi, saperne, che questo dire comporti un due, comporti ciò che dico e ciò di cui dico.

Un elemento ne implica un altro necessariamente. Cosa ci suggerisce questa proposizione? Poi vedremo se è proprio così, per vedere se possiamo, e in quali termini se possiamo, accogliere questa nozione di implicazione.

Dunque, dicevamo, un elemento ne implica necessariamente un altro. Cosa significa? Cosa vuol dire tutto ciò?

Intanto questo, che qualcosa sia tale per qualcuno occorre che ci sia qualcuno per cui sia tale. Qualcosa è segno per me che lo pongo come tale, non è segno di per sé. Se dico che un elemento è un segno, già pongo una differenza tra, per dirla in un modo molto rozzo, tra me che sto dicendo e ciò di cui sto dicendo.

Allora, dunque, l’implicazione non è altro che l’enunciazione di una necessità grammaticale, logica, che per i logici formali, in effetti, risulta imprescindibile.

Se p allora q, se parlo c’è la parola, per esempio.

In questo caso, ciò che mi consente di affermare che sto parlando è il fatto che esista la parola.

Dicevamo l’altra volta della parola e avevamo indicato una definizione tale per cui la parola risultava ciò che consente di affermare questo, che consente di chie­derci, di dire questo, di chiederci, per esempio, che cos’è la parola, attraverso una definizione che avevamo indicata come circolare, una definizione che non ag­giunge propriamente nulla al di là di ciò che è già affermato. D’altra parte, questo è il criterio secondo cui ci stiamo muovendo.

Ora, vediamo se la stessa implicazione può porsi in questi termini. Abbiamo de­finito l’implicazione con la logica formale come l’affermazione, come la condi­zione per cui un elemento esiste in quanto ne esiste un altro. Solo questo. L’affermazione che dice “se p allora q” dice soltanto questo: che q esiste se esiste p, nient’altro che questo.

Dunque, io parlo se esiste la parola, per esempio. Quale implicazione risulta necessaria? L’implicazione che afferma che un elemento esiste se esiste quell’altro ma qual è l’implicazione cosiffatta?

Quella che afferma, per esempio, come dicevo, che “se gli umani parlano, allora esiste la parola”.

Dire il contrario sarebbe una doppia implicazione: “gli umani parlano se e sol­tanto se esiste la parola”, come dire che “esiste la parola se e soltanto se gli umani parlano”.

Qui c’è un legame che è assolutamente necessario. Un legame necessario, dun­que, è quello che avviene nella deduzione analitica. Qualunque altra forma di implicazione comporta un “discreto”, mentre questa forma di implicazione è un “continuo” in quanto circolare; non c’è soluzione di continuità in quanto è la stessa cosa che continua a dirsi.

Se dico, per esempio, che “gli umani parlano perché vivono” già insinuo qui un discreto, un altro elemento, c’è un salto. Il fatto che vivano è un altro concetto, è un’altra questione che non ha nulla a che fare con il parlare.

Una definizione circolare è qualcosa di prossimo alla tautologia.

Ciascuna definizione analitica è circolare: continua a affermare ciò stesso che è implicito nell’assioma, nella premessa maggiore.

Stiamo vedendo se si riesce, cosa che non è sempre facile, a procedere unica­mente in modo continuo, non in modo discreto.

Questo è di straordinaria importanza anche se può apparentemente non inten­dersi quali risvolti può avere questa riflessione.

Siamo partiti dall’implicazione divina, dalla divinazione. Se l’uccellino ha il fe­gato o la cistifellea con dentro il grasso, vuol dire che farà freddo tutto l’inverno.

Perché tutto ciò ci interessa? Perché questa forma di divinazione è esattamente il tipo di inferenza utilizzato dal discorso occidentale.

Se succede questo, allora questo vuol dire che succederà quest’altro. Questa è una forma di implicazione che possiamo chiamare divinazione, che è la forma di implicazione che viene utilizzata parlando da ciascuno.

Ora, il fatto che ciascuno possa crederci o no, questo è un fatto puramente personale. Gli antichi credevamo molto fermamente a questo.

La divinazione rappresenta il modello dell’inferenza, dell’implicazione, del modo, come suole dirsi, di ragionare. D’altra parte, se escludiamo questa forma di inferenza, questa implicazione che, dicevamo prima, necessaria, qualunque altra implicazione risulta strutturata come una divinazione, quale che sia il grado di attendibilità, che ha come funzione quella di attribuire un significato a qualcosa che interroga. Solo questo.

Qual è la differenza tra questa forma di implicazione, cioè la divinazione, e l’implicazione che io reclamo come necessaria?

Che la prima cerca di dare un significato a ciò che interroga, la seconda no.

La seconda, propriamente, accoglie e, per dirla così, conferma ciò che è stato detto.

Questa seconda forma di implicazione può apparentemente risultare difficilmente utilizzabile nella vita quotidiana. Tuttavia, può esserci di grandissimo giova­mento riflettere su questo. Se continuate a considerare ciò che dicevamo all’ini­zio, forse nel primo incontro, e, cioè, a quali condizioni io do il mio assenso a una proposizione? A condizione che io la ritenga vera o verosimile o probabil­mente vera.

Noi abbiamo riflettuto sul criterio di verità e abbiamo considerato che l’unico cri­terio che possa essere seguito è quello logico-grammaticale, che afferma che è vero unicamente ciò che non può essere negato, salvo negare la possibilità stessa di negare alcunché. Ora, tenete conto di questo e avrete immediatamente la mi­sura, per così dire, di ciò che andiamo dicendo, vale a dire, di come di fatto non possa inferirsi altro che ciò che abbiamo inferito come necessario.

Qualunque altra forma di inferenza risulta assolutamente innegabile, nel senso che se p allora q, o r o s o qualunque altra cosa.

Ciò che noi abbiamo tentato di fare è di porre un argine a questo e cioè, in defini­tiva, alla assoluta, totale e irreversibile non significabilità delle cose.

Perché porre un argine? Per proseguire a parlare. In caso contrario, non è possi­bile, non è possibile perché ciascuna cosa può significare, e di fatto significa, qua­lunque altra, senza nessuna possibilità che non sia così. L’argine, il limite ferreo che abbiamo stabilito è tale da non consentirci in nessun modo di derogare a que­sto, tant’è che non facciamo concessioni a nulla, ci atteniamo soltanto a ciò che non può essere negato.

Provate a riflettere intorno all’implicazione, così come avviene nel discorso cor­rente, quello di tutti i giorni. Ciascuno compie questo tipo di inferenze incessan­temente, anche se non sono formulate esplicitamente. Qualunque cosa venga creduta, accreditata, accolta è il prodotto, come diceva Peirce, di una serie di infe­renze più o meno lunga, più o meno articolata, ma di fatto era una serie inferen­ziale, una stringa di inferenze.

Ciò che generalmente si tende a fare è ricostruire questa stringa di inferenze per giungere all’assioma principale. Che questa operazione sia possibile o no è una questione tutt’altro che semplice. Se noi affermiamo una cosa del genere, che ciascuna credenza non è altro che il prodotto di una serie di inferenze, noi facciamo qualcosa che ha conseguenze tutt’altro che marginali, dal momento che ci chie­diamo se potrebbe non essere così o a quali condizioni è così.

L’implicazione, di fatto, è un’affermazione, che comporta necessariamente per essere tale un interprete e un interpretato, oltre che un interpretante. Può esserci un interprete senza l’interpretato o viceversa? L’interpretato è tale per chi? È come dire che c’è un segno senza qualcuno o qualcosa per cui questo segno sia tale. Qui ci imbattiamo in una questione che si tratta di verificare se è semiotica oppure grammaticale o logica, anche se spesso la logica e la semiotica sono con­fuse. Cosa ci costringe ad affermare che se c’è un segno c’è qualcuno per cui sia tale? È la definizione stessa di segno oppure la considerazione che ci costringe a considerare che se io dico qualcosa, e dicendolo me ne accorgo, allora necessaria­mente ci sono io che dico e la cosa che sto dicendo. Mi accorgo di che? Di ciò che sto dicendo, che è già un’altra cosa.

Vediamo di portare la cosa in termini ancora più radicali. Che cos’è una parola che non è mai stata parlata, che non è parlata e non potrà mai essere parlata? Niente, assolutamente niente.

Si tratta, in definitiva, di ricondurre questo aspetto a ciò da cui siamo partiti, in un modo di nuovo assolutamente circolare. Possiamo considerare come questa necessità sia trasferita per estensione a qualunque altra cosa, ma per il momento non lo faremo. Ci limitiamo a considerare questa necessità connessa all’implica­zione e quale implicazione noi stiamo accogliendo in questo percorso, dal mo­mento che qualunque altra forma di implicazione ha la struttura della divina­zione. Questo è importante dal momento che apre a una serie di considerazioni empiriche. L’empiria è ciò che chiamavamo giudizio sintetico, quello che com­porta un passaggio discreto tra p e q, per cui la proposizione q può negarsi rispetto alla proposizione p e, pertanto, possiamo dire che se p allora q, oppure ~ q, op­pure r, s, ecc. Nulla ci costringe nell’implicazione divinatoria ad accogliere la va­lidità dell’implicazione, salvo la nostra fede.

Occorre distinguere il necessario tra ciò che non può non essere, salvo l’impossi­bilità di affermare questa stessa proposizione, e ciò che non può non essere per­ché io credo che sia così. Posso crederlo per vari motivi: perché così ha detto il sa­cerdote, perché così lo ha detto la mamma, perché così mi è stato insegnato.

C’è una differenza tra il sillogismo di Aristotele, il sillogismo scientifico, così come tra il giudizio analitico di Kant e ciò che io intendo con necessario. Sia per Aristotele che per Kant ciò che è necessario è il procedimento mentre l’assioma risulta assolutamente arbitrario, risulta fuori dal necessario perché è ciò che è creduto dai più. Qui facciamo un’operazione tale per cui ripieghiamo la necessità su se stessa, reperendo la proposizione che vieta, per così dire, di essere negata perché negandosi negherebbe la possibilità stessa di produrre qualunque proposi­zione. L’assioma da cui partiamo è un assioma particolare.

Aristotele ha posto i suoi principi, quello del terzo escluso, ecc. Ciò che non ha fatto è il costruire proposizioni che tengano conto unicamente di questo. E così lo stesso Kant e altri filosofi. E cioè che eludessero dalla produzione di proposizioni tutto ciò che per costruirsi non necessita unicamente di queste regole. La formu­lazione che dice che “gli umani sono mortali” è già una proposizione che è nel linguaggio. Fuori dal linguaggio non è niente. Dunque, reperire qualcosa che co­stringe a rimanere necessariamente nel linguaggio. Per questo ci atteniamo cia­scuna volta a una premessa che continui a dire di fatto sempre la stessa cosa e cioè, se volete, che non c’è uscita dal linguaggio o che i parlanti parlano.

Come so che i parlanti parlano?

A quali condizioni io posso formulare la domanda “come so di sapere?”.

Si tratta di tenere sempre presente le condizioni che consentono di formulare qualunque domanda, qualunque proposizione. Dire che “gli animali sono mor­tali” non ci dice niente, è come dire che il sasso lasciato libero cade. È una propo­sizione che io formulo e che mi rappresenta un quid che io sono stato addestrato a osservare e a descrivere in un certo modo. Questo e nient’altro che questo.

Va da sé che ciascuno può riflettere intorno alla forma, alla struttura e alla vali­dità delle inferenze di cui si avvale quotidianamente.

Dicevamo prima una cosa di un certo interesse, cioè l’affermazione secondo cui è possibile risalire attraverso una serie di inferenze all’assioma principale. È possi­bile questo? A quali condizioni? Cosa vuol dire poi risalire?

Di fronte a una qualunque affermazione, questa affermazione, se richiesta di ren­dere conto di sé, produce un altro elemento. Che funzione ha quest’altro ele­mento? Ha la funzione di poter affermare il precedente, dal momento che cia­scun elemento che viene affermato viene affermato in conseguenza, secondo la nota formula “se p allora q”. Qui, il modo di inferenza è quello che i medioevali chiamavano modus ponendo ponens, che dice che “se p allora q, ma p dunque q”. Questo è il sistema più frequente di inferenza. L’altro, quello che i medioevali chiamavano modus tollendo tollens dice che “se p allora q, ma ~ p dunque ~ q”.

Tutto ciò ci dice qualcosa di molto preciso circa il modo di pensare. Se io affermo qualcosa, come faccio ad affermarlo? A partire da che cosa io affermo una qualunque cosa? Come giudico che se c’è una cosa c’è necessariamente quell’altra? Sono stato ispirato dagli dei, me lo ha ordinato il medico o per quale altro mo­tivo? O perché le cose stanno così, come generalmente si enuncia, secondo la modalità superstiziosa?

A quali condizioni, dunque, io posso affermare qualcosa? Questa è la questione su cui ci stiamo interrogando. Oltre a quest’altra: che cos’è affermare qualcosa?

Abbiamo visto che necessariamente se affermo qualcosa, questo segue necessariamente a un altro elemento, per una questione prettamente semiotica. Ma di quale necessità stiamo parlando? Del fatto che è necessario che le cose siano come io credo che siano o di altra necessità? Che cosa mi costringe a inferire q da p, o il conseguente dall’antecedente, o l’apodosi dalla protasi?

 

La logica formale dice che se c’è un antecedente necessariamente c’è un conseguente. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che l’esistenza del conseguente ci dice che esiste un antecedente. Tant’è che l’implicazione è falsa quando all’antecedente non segue il conseguente. Se segue il conseguente, allora è vera. È vera perché ogni volta che c’è p necessariamente c’è q, per cui non può darsi che ci sia q senza p. Oltre a p, potrebbe darsi il caso che ci sia anche r, anche s.

 

L’implicazione dice questo: qual è l’elemento che deve esistere perché esista q? Rispetto alla risalita alla scena originaria, questo risalire alla scena originaria di per sé non significa niente. Noi ci stiamo soffermando per il momento su che cosa risulta necessario perché, dato un elemento, se ne dia un altro. Che cosa ri­sulta necessario perché io possa asserire q? Qual è l’elemento perché io possa as­serire qualunque cosa? Che cosa è necessario perché io possa asserire?

La questione posta rispetto alla risalita alla scena originaria, all’assioma princi­pale, va molto oltre, nel senso che enuncia una serie di passaggi che sono lonta­nissimi da ciò che facciamo. Sono passaggi assolutamente non necessari, giudizi sintetici, direbbe Kant, siano essi a priori o a posteriori. Nessuno di questi è anali­tico, assolutamente nessuno. Se una persona cerca di risalire alla causa di ciò che dice o di ciò che pensa, qualunque cosa dica risulterà sempre un giudizio sinte­tico, resterà sempre non necessario.

Per il momento riflettiamo intorno a ciò che non possiamo non dire, ciò che non possiamo negare, badate bene, non intorno a ciò che possiamo dimostrare. È molto differente, ciò che interessa è ciò che non possiamo negare. È una diffe­renza sostanziale da tenere sempre presente. Qualunque dimostrazione può es­sere negata. Basta trovare il sistema.

 

Il principio del terzo escluso vieta di formulare proposizioni tali che affermano che “se p allora ~ p”, come dire che se lei sta affermando questo, allora lei non sta affermando questo. Questo è vietato dal principio del terzo escluso in quanto non dice niente, non consente di proseguire, non porta da alcuna parte.

Negare il principio del terzo escluso comporta questo, che se il principio del terzo escluso non esiste, allora il principio del terzo escluso esiste. Si proibisce in questo modo la possibilità di prendere una qualche direzione perché arresta il discorso.

In questo caso, l’implicazione risulta necessaria. Se non esistesse l’implicazione non potremmo affermare nulla di tutto ciò.

Ora, si tratta di considerare se l’implicazione è una regola grammaticale o pro­duce una regola grammaticale. Per regole grammaticale intendo quelle che sono necessarie per il gioco. Non possono prodursi, sono già prodotte. Né possono essere un effetto, ché occorrerebbe una regola grammaticale che possa affermare la propria esistenza senza nessuna implicazione. Come tale, i connettivi fanno parte della sintassi.

 

Aristotele enuncia tre condizioni. Sono tre ma in effetti sono la stessa, la stessa implicantesi a vicenda. Se non posso affermare simultaneamente p e ~ p, vuol dire che p è differente da ~ p e, quindi, se p è differente da ~ p, allora p è uguale a p.

 

Se affermo che non esiste il principio di non contraddizione, allora necessaria­mente esiste il principio di non contradizione. Questo affermarsi che il principio di non contraddizione non esiste non può farsi in nessun modo, perché, se non c’è principio di non contraddizione, allora affermare che non c’è principio di non contraddizione lo possa fare se esiste principio di non contraddizione. Questo in termini grammaticali, non certo ideologici. A questi primi ci atteniamo. Non stiamo costruendo una dottrina ma stiamo riflettendo su come funziona il lin­guaggio e che cosa non possiamo non accogliere. Tutto il resto lo lasciamo mo­mentaneamente in sospeso.