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17 APRILE 1995

 

KANT: critica della ragion pura 1°

 

 

Esercitare il pensiero in modo che ciascuno si trovi a pensare in un modo più rapido, efficace, sicuro, e sicuro proprio perché non ha nulla da temere, dunque faremo un esercizio, prenderemo un discorso di Carlo Sini e ci confronteremo con questo. Il discorso di Sini che ho scelto è la questione centrale di tutta la sua argomentazione, non perché si trovi a metà del libro, ma perché è la più importante, quella attorno a cui ruota la sua elaborazione e cioè la questione che affronta rispetto al senso, muovendo dall’idea che il bambino incominci ad avvertire o a cogliere la questione del ritmo a partire dai battiti cardiaci della madre (quando si trova dentro la pancia della madre), lì secondo Sini è possibile che il bambino percepisca questi battiti cardiaci e quindi cosa avviene secondo Sini? Avviene questo, che c’è un primo battito, ma questo battito di per sé non significa assolutamente niente finché non giunge il secondo, e allora che succede? Che è il secondo che consente di cogliere l’esistenza del primo, cioè una ripetizione, a questo punto dice lui è il terzo battito che dirà che c’è stato il primo battito, perché il secondo consente soltanto di avvertire che qualcosa si sta ripetendo, ma è soltanto con il terzo che dice “sì, c’è proprio questa ripetizione e quindi quello era il primo battito” e lo dice così, ve lo leggo:

Ciò che è presente, il secondo improprio, non è infatti nient’altro che averlo da riconoscere. Ciò che accade è che lo riconosco come il suo presupposto. Allora, questo che chiamo secondo improprio è l’apertura di una domanda, la cui risposta è nel terzo che mi dice: sì, quello che hai percepito era il secondo di un primo. Quando sono nel terzo comprendo che il secondo era originato dal primo, comprendo che il secondo era una provenienza la cui destinazione è il terzo. E allora finalmente ho il ritmo: primo, secondo, terzo (che però è ancora primo); quindi: uno, due,; uno, due. Però non lo posso scrivere così semplicemente; lo scrivo così per comodità, ma non è questo che realmente accade: accade che qui, nel secondo improprio, ho uno slancio verso il primo improprio che è un terzo, il quale diventa a sua volta un secondo improprio, uno slancio verso il primo improprio che è il terzo e così via. Così camminiamo, così respiriamo, così apriamo e chiudiamo le mani e gli occhi; attraverso questo schema riconosciamo le cose: questo schema è la traccia di tutte le tracce. /.../ Quello che c’è, dunque, non è mai l’istante, e non è mai una cosa: non ci sono cose e non ci sono istanti /.../ Non ci sono cose reali, come pensa il senso comune, lì, così e così da percepire; ciò che viene percepito è un compito. Percepire è un esercizio, percepire è uno slancio, un azzardo, un’ipotesi, una possibilità /.../ Si può dire: l’incanto del ritmo è quel tornare eternamente in dietro al principio che apre al futuro. È quel chiedersi eternamente chi era la madre per sapere chi siamo noi; o chi è il nome, come diceva Borges, chi è il dio dietro il dio. Domanda che naturalmente non si scioglie in una risposta; si scioglie nella provocazione a una nuova domanda, cioè ad un nuovo progetto, quel progetto che abita diversamente ogni presente del ritmo /.../ Non si esce dalle cose che ho detto, non c’è confutazione delle cose che ho detto (lo dico nel modo più provocatorio e quasi con orgoglio).

Ecco questo è il prologo da cui partire (Testo: L’incanto del ritmo). Allora dice in definitiva che di questi tre battiti, il primo in quanto tale non c’è, non c’è perché finché non arriva il secondo per cui riconosco che c’è un ritorno, e infatti l’ho riconosciuto perché c’è un ritorno, e diventa chiaro, consolidato al terzo colpo, di fatto prima non c’è, dice lui, ci consente di dire che di fatto ciò da cui muoviamo è soltanto una copertura, qualcosa che interroga, dunque non c’è il reale, così dice lui, come il senso comune suppone, non c’è la cosa, ma soltanto in questo movimento di ritorno, come del resto abbiamo detto in altre circostanze. Ma è proprio così? Proviamo a riflettere. Se con il secondo battito cardiaco io riconosco il primo, perché c’è una ripetizione, è proprio sicuro che questo primo non ci sia in quanto tale? Dal momento che io potrei anche dire che perché il secondo possa riconoscere il primo, come diceva lui questo ‘secondo improprio, occorre che questo primo sia percepito. Se io non percepissi in nessun modo il primo, allora anche il secondo sarebbe un primo, il terzo un primo e così via all’infinito. Cosa fa sì che ci sia un primo rispetto al secondo, il primo di un ordine? La considerazione che mi dice che il secondo è uguale al primo, ripete il primo, ma per potere dire questo, torno a dire, lui deve avere già non solo percepito, ma isolato il primo, questo primo deve porlo come identico a sé, deve essere chiuso in sé stesso, se non fosse così, se questo primo non fosse isolato, isolabile, il secondo non ci sarebbe mai, quindi sarebbe un altro primo, che non riconoscerei nemmeno, cosa fa sì dunque che io possa riconoscere qualcosa? Chiaramente qui ci occupiamo dell’argomentazione di Sini, non che le cose avvengano o non avvengano così, chiaramente non è questo che è in gioco, ciò che avviene dentro la pancia della madre non lo sapremo mai, dunque occorre stabilire in questa argomentazione che sia assunto, oltreché possibile, che questo secondo ripeta il primo, che lo riconosca e in base a che cosa lo riconosce? Come fa a riconoscerlo? Perché questa è la questione centrale dal momento che se non ci fosse questo riconoscimento non ci sarebbe niente. C’è un passo che lui compie, c’è un evento, ce n’è un altro, e a partire da quest’altro dire che è come il primo, e poi c’è il terzo e allora a questo punto c’è l’inferenza, cioè se c’è il terzo allora quello precedente era il secondo e quello precedente al secondo era il primo. Dunque cosa mi consente di compiere questa inferenza? C’è un salto che devo fare, un salto che chiude lo iato, l’apertura che c’è tra il primo e il secondo. Se questa apertura non potessi chiuderla non potrei mai dire che questo è il secondo, e come la chiudo questa apertura? La chiudo immaginando che qualche cosa del primo si mantenga, ma qui c’è una questione complicata perché o ciò che si mantiene del primo procede, dicevamo l’altra volta, analiticamente, e quindi il due è implicito nell’uno, ma se è implicito nell’uno è come se fosse uno, in quanto ciò che procede analiticamente da un elemento rimane lo stesso, se no c’è un salto per cui nell’uno si introduce un’altra cosa. Quando dicevamo di Toulmin e delle sue implicazioni analitiche, sostanziali, dicevamo qualcosa di molto simile, che poi Kant ha in effetti comunicato in modo ancora più preciso, come dire che un’inferenza che procede analiticamente è assolutamente certa in quanto non richiede nessun salto, nessun passo che debba essere giustificato, ma allora di fatto non dice niente più di quanto dica la premessa, se deve essere una conseguenza necessaria, ma che il due segua l’uno non è affatto una conseguenza necessaria, non è il due implicito nell’uno, proprio per niente, Kant direbbe che il concetto di uno non c’è già nel due, occorre un salto. Oppure occorre un altro tipo di giudizio, non quello analitico ma quello sintetico, quello per cui si aggiunge un elemento ma c’è un salto che il giudizio analitico non compie e allora questo salto deve essere giustificato, oppure no, ma se non lo è, rimane che cosa? Un’invenzione, un’invenzione retorica e allora dire che è con il secondo che riconosco il primo è dire che cosa propriamente? Che questo riconoscimento non è il riconoscimento di qualche cosa che è nel primo, non potrebbe, se lo fosse, il primo, implicherebbe necessariamente il secondo, il che non è, non necessariamente ma arbitrariamente e comporta che è un invenzione. E allora ci troviamo di fronte almeno a due vie che possiamo prendere: o dire che il secondo battito non riconosce affatto il primo ma lo inventa, lo inventa letteralmente oppure il secondo non c’è mai. È il secondo che a questo punto è un’invenzione, così il terzo ecc., di fatto ciascuna volta è il primo, o come abbiamo detto in molte occasioni è originario, mai ripetibile e quindi in questa accezione mai riconoscibile...

- Intervento:..

Vale a dire che il primo in quanto tale non è necessariamente deducibile dal secondo, è un’invenzione, è un arbitrio, io stabilisco che al primo segue il secondo, questo direbbe Kant, e allora a questo punto occorre dire della frase con cui chiude questo capitoletto e cioè “delle cose che ho detto, non c’è confutazione...” che non è proprio esattamente così, non ci sarebbe confutazione se ponesse la cosa come un’ipotesi e l’ipotesi come è noto non è confutabile. Questo per dire che occorre sempre una certa cautela quando si fanno asserzioni apodittiche, “di questo non c’è confutazione”, e se invece lo fosse confutabile? Come in questo caso? Abbiamo confutato la questione centrale del testo di Sini, e questo per introdurre qualcosa di cui abbiamo dato l’avvio la settimana scorsa, e cioè l’implicazione, l’implicazione analitica. Kant come sapete è molto rigoroso su questo: giudizio analitico è quello che è necessario. Quale per esempio? Se dico che una cosa è un effetto, questo necessariamente comporta che ci sia una causa. Tutti gli esempi che possono addursi, che Kant addotta come giudizi analitici, naturalmente non sono inconfutabili. Tal Davide Hume per esempio si è divertito a confutarli, dicendo che anche in questo caso è soltanto l’abito, l’abitudine a pensarli in certo modo che fa credere che questa implicazione sia necessaria, e belle e fatto. Tuttavia Kant fin dall’introduzione insiste su un aspetto che è importante, e c’è qualcosa che risulta irrinunciabile e che non può togliersi, che dice che qualche cosa c’è e di cui non possiamo prescindere per continuare a parlare, e cita anche il principio del terzo escluso, di identità, solo che presta il fianco a qualunque obiezione (per esempio ho citato quella di Hume perché era contemporaneo e avevano modo di scambiarsi le loro considerazioni), perché pone la necessità nella conclusione. Qui sta l’intoppo, se la conclusione deve essere necessaria avviene un fenomeno bizzarro, per cui questa stessa conclusione posso farla procedere non tanto dalle premesse da cui segue questa conclusione, ma da altro, come fa Hume dicendo che questo non segue alle premesse necessariamente, ma semplicemente dall’abitudine a pensare in quel certo modo. Allora l’implicazione analitica offre il fianco a questa obiezione, così come il dogmatismo ha sempre fatto, ha cioè offerto il fianco allo scetticismo (Hume) il quale chiede “bene, giustifica le tue asserzioni, come puoi farlo?” e quell’altro non può rispondere altrimenti che dicendo che è necessario che sia così, ma se quell’altro non accoglie che sia necessario che sia così non ha altre argomentazioni, e la cosa va avanti da alcuni secoli. Eppure potrebbe trarsi una lezione da tutto ciò, che è questa che abbiamo accennato la volta scorsa: ciò che risulta necessaria non è la conclusione, ciò che risulta necessaria è la costruzione della proposizione in quel modo. La conclusione non è necessaria, e se una la pensa come necessaria si espone a obiezioni difficilmente confutabili. Così come avviene sempre. È lo stesso discorso avviato con la disputa sugli universali, dove ciò che sfugge è che si combatte rispetto alle conclusioni, cioè a cosa comporta il giudizio analitico o sintetico, non a come è fatto. Provate a pensare in questo modo, a una implicazione analitica semplicemente come alla costruzione di una proposizione che dice che questa proposizione per potere costruirne altre debba escludere che questa proposizione che viene affermata sia simultaneamente negata per esempio. Da questo non discende assolutamente niente, non implica assolutamente niente, nel senso che qualunque implicazione io possa fare, sia che la immagini analitica o sintetica (sostanziale come diceva Toulmin) comunque non può prescindere da questo, per la costruzione stessa della frase, e allora potremmo formularla così: se dico, se affermo “p”, affermando questo escludo necessariamente “non p”. Perché la escludo? È una questione grammaticale, per nessun altro motivo, cioè è la grammatica che lo vieta, non c’è nessun principio ontologico, nessuna morale dietro questo, solo una semplicissima regola grammaticale che è quella che mi consente di costruire una proposizione e che mi impedisce di distruggere la proposizione che ho costruita, perché se lo facessi questo non mi consentirebbe di andare da nessuna parte. Ecco allora la questione dell’implicazione analitica, che non comporta una conclusione, che non consente di concludere niente, consente soltanto la formazione di una proposizione tale per cui in seguito a questa io posso formarne un’altra. Tutto qui, semplicemente, qualunque altra cosa io possa pensare è, come direbbe Kant, un giudizio sintetico. In effetti che cosa gli obietta Hume, che anche quei giudizi analitici che lui apporta di fatto sono giudizi sintetici e quindi devono essere giustificati o, come diceva Toulmin, qualunque implicazione analitica di fatto è una implicazione sostanziale, il concetto di analitico, possiamo affermare, non implica assolutamente niente, cioè non possiamo trarre null’altro se non che esclude una direzione, ma questa non è una implicazione, è una regola grammaticale. Posta la questione in questi termini, apre a un modo assolutamente differente di pensare la questione della logica, della retorica, se volete potete porre le distinzioni che fa Kant, fra giudizio analitico e giudizio sintetico, come la distinzione fra logica e retorica, ciò che è necessario è ciò che necessariamente deve dedursi e invece ciò che si deduce arbitrariamente e quindi non necessariamente (giudizio sintetico) comporta un passo che non è giustificabile o che richiede di essere giustificato, ma questa giustificazione non la trova se non con una decisione.

- Intervento:...

La matematica è un giudizio sintetico chiaramente, sintetico a priori dice Kant, dal momento che dall’uno non è analiticamente deducibile il due; non c’è, per esempio, il concetto di uno nel due, e in questo non è analitico, è sintetico ma a priori perché non è deducibile dall’esperienza. Il fatto che sia un giudizio sintetico comporta che un passo, per cui se dall’uno non è deducibile il due come giunge questo due? Da dove arriva? Da qualcosa che si aggiunge certo, ma questa aggiunta che facciamo, non essendo necessariamente implicita nell’uno viene da qualche cosa che è altro rispetto all’uno, c’è un passo che occorre compiere, un passo che invece non c’è nel giudizio analitico. Ora perché dicevo che il giudizio sintetico a priori fa parte della retorica? Per questa distinzione che ponevo, nel senso che qualunque implicazione di qualunque tipo chiede di essere giustificata, il fatto che all’uno segua il due è giustificato dal sistema del calcolo, che è stato inventato in questo modo, un sistema... (... a priori semplicemente perché non procede dall’esperienza, certo.) un gioco che è inventato e come tale non ha nessun fondamento nell’esperienza ma trova la sua necessità non nella deduzione, non nel necessario, ma semplicemente nella regola del gioco che si è posta. Ora questo passo viene qui dalla regola del gioco, come dire che io invento un gioco e quindi mi attengo a questo, e quindi all’uno segue il due e quindi l’uno sommato all’uno fa due, così come posso stabilire altri tipi di giochi. Perché dico che è un’operazione retorica? In questo senso: intendo qui la nozione di logica propriamente come ciò che mi consente la costruzione di proposizioni che a loro volta consentono di costruirne altre, poi a questo punto il modo della costruzione, cioè quale proposizione, in quale modo io le costruirò, questo è l’aspetto retorico, cioè di volta in volta stabilisco un tipo di gioco, che è quello che fa la retorica poi in definitiva, e se pensiamo anche alla retorica antica, da Gorgia in poi, che cosa fa? Stabilisce di volta in volta delle regole con cui giocare, per cui se riesco a fare in modo che altri accolgano queste regole allora giocano il mio gioco che condurrà dove voglio io, questo è un artificio retorico... (...) le utilizza per potere giocare, anzi è noto che molti oratori si sono dati molto da fare proprio per cercare queste regole per potere utilizzare nel modo migliore...

- Intervento:...

Fino ad un certo punto interviene nel gioco l’esperienza, nel senso che laddove mi trovo per esempio di fronte a un’argomentazione, lì troverò trovo un’altra argomentazione, e questa può anche non venirmi dall’esperienza, può essere letteralmente inventata in quel momento per opporre un’argomentazione a un’altra, come d’altra parte le cose che funzionano nella prima parte della retorica e cioè l’inventio, come dire che buona parte delle questioni che si trovano si costruiscono lì sul momento a partire da ciò che avviene, se in effetti fossero definibili e racchiudibili in un codice, la retorica di fatto scomparirebbe e ci sarebbe soltanto l’esecuzione di un sistema già fatto. Ma così non è, ciascuna volta ci si trova di fronte all’imprevisto e all’imprevedibile, quindi non ha la certezza di ciò che accadrà, di volta in volta non sa che cosa l’altro dirà e dunque si trova costretto a inventare lì per lì l’argomentazione, e questo può anche non procedere dall’esperienza, perché può trovarsi di fronte a una cosa che non ha mai incontrata prima e non avere riferimenti già dati, ma costruire realmente lì in quel momento un altro gioco che per esempio spiazzi un avversario. (...) Sempre relativo al gioco che si vuole giocare, certamente.

- Intervento:...

Sono finalizzate ad ottenere il risultato, sono finalizzate per esempio a ottenere il teorema... (...) ciò che intendo con logica è soltanto ciò che consente di costruire una proposizione che non si neghi e quindi non negandosi... (...) esatto, chiunque per costruire delle proposizioni anche matematiche deve avvalersi... Ora cosa avviene nella matematica? Cosa è avvenuto più propriamente nel tentativo di fondare la matematica? Prendiamo per esempio Peano, muove da cinque assiomi come è noto, dice che il numero è una classe, poi dice che zero è un numero (perché? è un assioma e quindi non può essere dimostrato, idee primitive) ed è esattamente la stessa cosa che dice Wittgenstein rispetto a qualunque gioco che si voglia inventare. Una regola del gioco (...) un’idea primitiva dice Peano. Questa idea proprio perché è primitiva non è dimostrabile e allora cosa è avvenuto? È avvenuto questo, che tutta la costruzione, l’impianto della matematica, la costruzione logica della matematica è stato fondata su assiomi che non sino fondabili ma presi così (...) cosa vuol dire che un sistema logico è fondato su assiomi non dimostrabili? Che si tratta propriamente di un sistema di regole che consentono a questo gioco di giocarsi, dicevo prima, ciò che dice Wittgenstein rispetto al gioco: le regole del gioco non possono essere dimostrate, si utilizzano per il gioco, così come per il fatto che muovendo in un certo modo il Re questo dia scacco matto alla Regina, questo non può essere dimostrato in quanto tale, ma si accoglie come regola del gioco. Dire che un elemento è a priori è dire questo, Kant sfiora la questione, semplicemente ciò che non può non essere accolto per potere (come dice lui giustamente) pensare, per potere parlare. Di questo possiamo dire che è a priori, in questa accezione, nel senso che è dato come elemento per poter giocare. Ora a questo punto, vengono ovviate chiaramente tutte le possibili obiezioni, comprese quelle di Hume, perché in questi termini non necessita di nessun fondamento, perché non ha nessun fondamento da nessuna parte, non lo ha e quindi non può esibirlo, ma non soltanto, impedisce addirittura che venga cercato il fondamento perché non saprebbe effettivamente dove andare a cercarlo. Questo ha una portata non indifferente rispetto a qualunque elaborazione teorica che cerchi un fondamento, come la stessa argomentazione di Sini che esponevo prima, come se cercasse un fondamento in una sorta di referente, in una sorta di necessità extralinguistica, ma ciò che abbiamo utilizzato per confutare l’argomentazione di Sini è che questo fondamento non è fuori dalla parola, il fatto che non sia fuori dalla parola toglie la possibilità stessa del fondamento in quanto tale, a meno che come fondamento si voglia intendere semplicemente l’esibizione di una regola. Dice: “devi fare così”, è un ordine, un semplice ordine che viene fornito dalla grammatica la quale mi dice che se voglio proseguire devo fare in un certo modo, se no mi fermo. Poi chiaramente ci occuperemo in un modo più dettagliato del lavoro di Kant, la questione è molto complessa, potremo dividere la sua opera in due parti... cambio cassetta

(...) è una teoretica straordinaria quella di Kant: tutto ciò che io posso dire riguarda unicamente ciò che io posso pensare di qualche cosa, ma la cosa in sé non la conoscerò mai, assolutamente mai, questo è il limite di Kant.

- Intervento: è il noumeno?

No, è la cosa in sé. Non è tanto il pensabile, quanto proprio la sostanza, l’ousia di Aristotele. (...) Lui dice questo, che ci sono degli elementi da cui muove la nostra esperienza, da questi elementi qualche cosa prende avvio, allora mettiamo insieme gli effetti, ciò che rileviamo come fenomeno, e ciò che connettiamo con il nostro pensiero è tutto ciò di cui disponiamo, ma la cosa in sé ci resta inaccessibile, non possiamo mai coglierla in quanto tale. Però come avviene anche per altri testi, ciò che ci interessa di più non è tanto cosa afferma in quanto tale ma come lo afferma, cioè in che modo, intendere come ha argomentato per sostenere le sue tesi. È l’aspetto su cui ci siamo soffermati questa sera, ché in effetti ciò che lui intende con analitico è propriamente ciò che non può non considerarsi, solo che lui lo pone come possibilità di implicazione o come implicazione necessaria e quindi sempre necessariamente valida, qualcosa che è fuori dalla parola, come dire che questa regola che noi abbiamo posta, e come pone Wittgenstein, all’interno del gioco linguistico, Kant invece la pone fuori, questo è sicuramente il limite, e lo è perché immediatamente presta il fianco a una quantità notevole di obiezioni (non solo quelle di Hume) e cioè se pone qualche cosa fuori dalla parola immediatamente avviene questo, che lì si espone a una domanda “come lo sai ?”, ma un “come lo sai” non riferito a quello a cui risponde Hume e cioè che lo so perché tutte le persone sane di mente sanno questo, ma a quali condizioni lo sai, e le condizioni sono proprio queste, cioè ciò che lui pone fuori dalla parola costituisce lo strumento necessario, indispensabile per potere parlare, che è la condizione per potere formulare delle proposizioni, quelle stesse che gli consentono di elaborare la sua analitica trascendentale, ma accorgendosi che si tratta di una regola che ha unicamente il valore di regola del gioco. Questo sicuramente toglie la possibilità della metafisica così come è sempre stata pensata, pur interessandoci moltissimo la metafisica, e ci interessa per le argomentazioni che muove, non per le conclusioni cui giunge che non ci dicono assolutamente niente, sono confutabilissime in qualunque momento, ma ci importano le argomentazioni, cioè il modo in cui la metafisica giunge a delle conclusioni. La stessa cosa possiamo dire per Kant, non le conclusioni ma il modo, la via che segue. E poi tutta la questione della cosa in sé e della teoria della conoscenza che ha avviata Kant è una cosa straordinaria, che ha aperto probabilmente la via a modi differenti di pensare, come dire che ha cominciato a porre l’accento su delle condizioni. In effetti lui muove da considerazioni che sono le stesse da cui siamo partiti noi. Si pone la questione di quale sia il metodo, il criterio per potere proseguire senza necessariamente cadere in contraddizioni immediatamente dopo, o senza partire da petizioni di principio, quindi che cosa è imprescindibile per potere pensare? Tutto sommato non è molto lontano dalle considerazioni che abbiamo fatte noi qui. Proprio agli esordi dell’introduzione (Critica della Ragion Pura):

“Non c’è dubbio che ogni nostra conoscenza incomincia con l’esperienza; da che infatti la nostra facoltà conoscitiva sarebbe altrimenti stimolata al suo esercizio, se ciò non avvenisse per mezzo degli oggetti che colpiscono i nostri sensi, e, per un verso, danno origine da sé a rappresentazioni, per un altro, muovono l’attività del nostro intelletto a paragonare queste rappresentazioni, a riunirle o separarle, e ad elaborare per tal modo la materia greggia delle impressioni sensibili per giungere a quella conoscenza degli oggetti, che chiamasi esperienza? Nel tempo, nessuna conoscenza in noi precede all’esperienza, e ogni conoscenza comincia con questa. Ma sebbene ogni nostra conoscenza cominci con l’esperienza, non perciò essa deriva tutta dalla esperienza. Infatti potrebbe essere benissimo che la nostra stessa conoscenza empirica fosse un composto di ciò che noi riceviamo dalle impressioni e di ciò che la nostra propria facoltà di conoscere vi aggiunge da sé (stimolata solamente dalle impressioni sensibili); aggiunta che noi propriamente non distinguiamo bene da quella materia che ne è il fondamento, se prima un lungo esercizio non ci abbia resi attenti ad essa, e non ci abbia scaltriti alla distinzione”.

Esattamente ciò che ci ha mossi fin dall’inizio e vedremo i modi in cui argomenta e ci confronteremo con questo. E ancora:

Si tratta ora di cercare il segno, per cui ci sia dato distinguere con sicurezza una coscienza pura da una empirica. L’esperienza ci insegna in verità che qualche cosa è fatta in questo o quel modo, ma non che non possa essere altrimenti.

Bene, si tratterà di vedere se è proprio così.