INDIETRO

 

 

 

 

17 gennaio 1995

 

Wittgenstein - Ricerche filosofiche

 

Allora, siamo all’aforisma 77:

 

Supponi di dover disegnare avendo a modello una figura sfumata, una figura nitida corrispondente alla prima. In quella c’è un rettangolo rosso dai tratti imprecisi: al suo posto ne metti uno nitido. Naturalmente - di tali rettangoli nitidi corrispondenti a quello non nitido, se ne potrebbero disegnare più di uno. Se però nell’originale i colori sfumano l’uno nell’altro senza traccia di un confine, non sarà un compito disperato il disegnare un’immagine nitida corrispondente a quella confusa? Non dovrai dire allora: - Qui potevo disegnare tanto un circolo quanto un rettangolo, quanto la forma di un cuore; tutti i colori infatti si confondono l’uno nell’altro. Tutto è giusto, e nulla lo è? - E in questa situazione si trova per esempio chi, in estetica o in etica, va in cerca di definizioni che corrispondono ai nostri concetti. Quando ti trovi in questa difficoltà chiediti sempre: Allora come abbiamo imparato il significato di questa parola, per esempio della parola “buono”? In base a qual genere di esempi? In quali giochi linguistici? Allora vedrai più facilmente che la parola deve avere una famiglia di significati.

Aforisma 78: Confronta: sapere e dire: quanti metri è alto il Monte Bianco - come viene usata la parola “gioco” - che suono ha il clarinetto. Chi si meraviglia del fatto che si possa sapere qualcosa, e non essere in grado di dirlo, pensa forse a un caso come il primo. Certo non a un caso come il terzo.

Aforisma 79: Considera quest’esempio: Se si dice: - Mosè non è esistito - questo può significare diverse e svariate cose. Può voler dire: gli Ebrei non avevano un capo quando fuggirono dall’Egitto - oppure: il loro condottiero non si chiamava Mosè - oppure: non c’è stato alcun uomo che abbia fatto tutto ciò che la Bibbia racconta di Mosè - oppure ecc. ecc.. Secondo Russell possiamo dire: il nome “Mosè” può essere definito mediante diverse descrizioni. Per esempio, come: “l’uomo che ha condotto gli Ebrei attraverso il deserto”, “l’uomo che è vissuto in questo tempo e in questo luogo e che allora era chiamato Mosè”, “l’uomo che, bambino, fu salvato dal Nilo dalla figlia del Faraone” ecc. E secondo che assumiamo l’una o l’altra definizione, la proposizione “Mosè è esistito” acquista un senso diverso, e così pure ogni altra proposizione che tratti di Mosè. -E se uno ci dice: “N non è esistito”, chiediamo: Che cosa intendi? Vuoi dire che...oppure che..., ecc.? Ma quando faccio un enunciato intorno a Mosè - sono sempre disposto a sostituire “Mosè” con una qualsiasi di queste descrizioni? Potrei dire: Per “Mosè” intendo l’uomo che ha fatto ciò che la Bibbia racconta di Mosè, o, almeno, ne ha fatto una buona parte. Ma quanto? Ho deciso quanto debba dimostrarsi falso, perché io abbandoni la mia proposizione come falsa? Il nome “Mosè” ha dunque per me, un uso fisso inequivocabilmente determinato in tutti i casi possibili? - Non accade piuttosto che io abbia, per così dire, tutta una serie di puntelli a mia disposizione e sia pronto ad appoggiarmi a uno quando mi viene sottratto l’altro, e viceversa? - Considera un altro caso ancora. Se dico “ N è morto”, la situazione, per quanto riguarda il significato del nome “N, può essere all’incirca questa: Io credo che sia vissuto un uomo che: 1) ho visto in questi e questi altri luoghi; 2) aveva un aspetto così e così (immagini); 3) ha fatto queste e queste altre cose e 4) nella vita civile portava il nome “N”.- Se mi chiedessero che cosa intendo per “N”, enumererei tutte queste cose o alcune di esse, e, in occasioni diverse, cose diverse. La mia definizione di “N” sarebbe dunque all’incirca: “l’uomo di cui è vero tutto ciò”. Ma se qualcosa si dimostrasse falso? - Sarò disposto a dichiarare falsa la proposizione “N è morto” anche se è risultato falso soltanto qualcosa che a me appare secondario? Ma dov’è situato il limite del secondario? - Se in un caso del genere avessi dato una definizione del nome, ora sarei pronto a modificarla. E questo si può esprimere così: Uso il nome “N” senza un significato fisso. (Ma ciò è tanto poco pregiudizievole al suo uso quanto all’uso di un tavolo sarebbe pregiudizievole il fatto che esso poggi su quattro gambe anziché su tre, e quindi qualche volta traballi). Si deve dire che uso una parola di cui non conosco il significato, e che quindi parlo insensatamente? - Dì quello che vuoi, basta che ciò non ti impedisca di vedere come stanno le cose. (E quando l’avrai visto, ci saranno alcune cose che non dirai più). (L’oscillare delle definizioni scientifiche: Ciò che oggi viene considerato, in base alle nostre esperienze, come manifestazione concomitante del fenomeno A, domani sarà utilizzato per la definizione di “A”).

Aforisma 80: Dico: “Là c’è una sedia”. Che cosa direi se mi dirigessi verso di essa per prenderla ed essa improvvisamente sparisse dalla mia vista?- “Dunque non era una sedia; ma un’allucinazione”. - Però un paio di secondi dopo vediamo di nuovo la sedia e possiamo toccarla, ecc. Dunque la sedia c’era davvero e la sua sparizione era un’allucinazione.- Ma supponi che dopo qualche tempo scompaia di nuovo, - o sembri scomparire. Che cosa dovremmo dire, ora? Per casi del genere hai già pronte delle regole, che dicano se una cosa così, si può ancora chiamare “sedia”? Ma queste regole ci vengono meno quando usiamo la parola “sedia”? E dobbiamo dire che a questa parola non colleghiamo, propriamente, nessun significato, poiché non siamo muniti di regole per tutte le sue possibili applicazioni?

Aforisma 81: Una volta, durante una conversazione con me. F. P. Ramsey ha insistito sul fatto che logica è una scienza normativa. Non so esattamente che idea avesse in mente nel dir ciò; senza dubbio, però, era strettamente imparentata con quella che solo più tardi è venuta in mente a me: cioè spesso in filosofia, confrontiamo l’uso delle parole con giochi, calcoli condotti secondo regole fisse, ma non possiamo dire che chi usa il linguaggio non possa non giocare un tale gioco. - Ma se si dice che la nostra espressione linguistica soltanto si avvicina a tali calcoli, ci si trova immediatamente sull’orlo di un fraintendimento. Infatti potrebbe sembrare che in logica si parli di un linguaggio ideale. Come se la nostra logica fosse, per così dire, una logica per lo spazio vuoto. - Invece la logica non tratta del linguaggio - o del pensiero - nel senso in cui una scienza della natura tratta di un fenomeno naturale; al massimo si può dire che costruiamo linguaggi ideali. Ma forse qui la parola “ideale” è fuorviante, perché suona come se questi linguaggi fossero migliori, più completi, del nostro linguaggio quotidiano; e come se ci fosse bisogno del logico per rivelare finalmente agli uomini che aspetto ha una proposizione corretta. Ma tutto ciò può apparire nella sua giusta luce solo quando si sia raggiunta una maggiore chiarezza riguardo ai concetti del comprendere, dell’intendere e del pensare. Perché allora diventerà anche chiaro che cosa ci possa erroneamente indurre a pensare (come è successo a me.) Che chi pronuncia una proposizione e la intende, o la comprende, sta eseguendo un calcolo secondo regole ben definite.

Aforisma 82: Che cosa chiamo “la regola in base alla quale procede”? L’ipotesi che descrive in modo soddisfacente il suo uso delle parole, che noi osserviamo; o la regola che tiene presente nell’usare i segni; oppure quella che per tutta risposta ci enuncia quando gli chiediamo qual è la regola cui si attiene? Ma, e se l’osservazione non ci permettesse di riconoscere chiaramente alcuna regola, e la nostra domanda non ne mettesse in luce nessuna? - Infatti alla mia domanda: che cosa intendesse per “N”, mi ha bensì dato una definizione, ma era pronto a ritirarla e a modificarla. Dunque, come devo determinare la regola secondo cui si gioca? Non lo sa neppure lui. - O più correttamente: Che cosa vuole ancora dire, qui, l’espressione: “regola secondo cui procede”?

Aforisma 83: Non ci illumina, su questo punto, l’analogia tra lingua e gioco? Possiamo senza dubbio immaginare che certi uomini si divertano a giocare con una palla in un prato; e precisamente, che comincino diversi giochi, tra quelli esistenti, senza portarne a termine qualcuno; che tra un gioco e l’altro gettino la palla in alto senza scopo, si diano l’un l’altro la caccia con la palla, gettandosela addosso per scherzo ecc. E ora uno potrebbe dire: Per tutto il tempo costoro hanno giocato un gioco di palla attenendosi ad ogni lancio a determinate regole. E non si dà anche il caso in cui giochiamo e “make up the rules as we go along”? (facciamo le regole via via che procediamo) - E anche il caso in cui le modifichiamo - as we go along?

Ecco, direi che tutta questa serie di aforismi pone l’accento su un aspetto importante, quando io dico che so qualcosa, qualunque cosa sia, che cosa sto dicendo? Qui Wittgenstein ci illustra una questione importantissima che riguarda il sapere, una questione di una importanza straordinaria. Wittgenstein sta dicendo di badare all’uso che faccio, per così dire, di questo significante quando lo uso, perché può voler dire una quantità grandissima di cose ma, più propriamente, se dovessimo attenerci al significato proprio di questo termine, che dice che il sapere è tale soltanto se può essere provato, se no non è sapere, ecco allora non c’è nessun caso in cui io, a buon diritto, potrei parlare di sapere o dire di sapere. Nella stragrande maggioranza dei casi io non dico che so questo, dicendolo, rendo implicito a me, e il più delle volte anche a chi mi ascolta, che so quello che sto dicendo, ma in particolare a me, io compio un’affermazione per quanto mi riguarda, mi riguarda nel senso che io faccio questa affermazione su qualche cosa. Allora facendo questa affermazione si inserisce un sapere, tant’è che se compiendo un’affermazione qualcuno chiedesse - ma la sai?- direi subito si, anzi probabilmente non capirei neanche la domanda, se dicessi: -questo è un registratore - e qualcuno chiedesse: - ma lo sai?- probabilmente non capirei neanche cosa mi sta chiedendo. Perché nel fatto che io enunci questo, che io affermi questo, è implicito che io lo sappia anzi, più che implicito è qualcosa che aggira la questione, nel senso che la esclude, non posso dicendo “questo registratore”, chiedermi anche se lo so, e non posso farlo perché se lo facessi a quel punto sarei preso nella necessità di chiedermi se so qualunque cosa, e quindi anche qualcosa della preposizione con cui ho espresso questa domanda. Non è possibile affermare un sapere, intendendo con sapere ciò che questo sapere è indicato volere dire per esempio da ciascuno strumento della grammatica, dal dizionario per esempio. Dicevamo tempo fa che qui ci si trova di fronte a una formulazione che è paradossale, nel senso che per affermare che so qualcosa, al tempo stesso devo negarlo, ma di più, posso dire che so qualcosa se e soltanto se non lo so. Intendo dire questo, che posso dire di sapere qualcosa soltanto se di fatto io non uso il termine sapere nella sua accezione, che mi obbliga a provare questo sapere. Posso dire di sapere se e soltanto se non so, se no non potrei mai giungere all’affermazione che dice che so, in nessun modo. Ma prendete un’affermazione qualunque, quella che ciascuno di voi fa quotidianamente un milione di volte, anzi prendete una conversazione analitica, ecco qui avviene qualcosa di particolare, nel senso che c’è l’opportunità di constatare in atto che ciascuna affermazione, ciascuna cosa quindi che so, può trovarsi di fronte alla richiesta di essere provata per potere affermare questo sapere. È chiaro che è una richiesta parodistica, che non punta a giungere a una conclusione tale per cui si stabilisce un sapere una volta per tutte, ma che pone l’accento su questo, sul paradosso di cui dicevo prima e cioè che io posso dire di sapere qualcosa se e soltanto se non so. Cosa comporta questo, così di primo acchito? Innanzi tutto che ciò che ritengo di sapere si trasforma, così come Freud aveva illustrato per quanto riguarda una fantasia, da familiare in straniante, cioè non lo riconosco più, qualcosa che so, che ho sempre saputo o immagino di avere sempre saputo, e che ritengo assolutamente evidente e inamovibile perché è così, si volge all’improvviso in straniante, cioè mostra aspetti che non conoscevo. Ma non conoscevo non perché fossi distratto, ma perché non esistevano effettivamente, come dire, so con assoluta certezza questa cosa e so con assoluta certezza il suo contrario, cioè so che è così e simultaneamente che non è così.

Ciò che mi consente di compiere questa operazione è indubbiamente una riflessione intorno alle cose che so, le cose che so costituiscono i limiti entro i quali io mi muovo, per cui se so che questo è così è chiaro che questo è il limite oltre il quale, come direbbe Dante? Acciò che l’uom più oltre non si metta. Ciò che io so funziona come limite, se so che questa cosa è così, è chiaro che non posso andare oltre, mi atterrò a questo. L’inizio di una psicanalisi avviene in questo modo, con il listaggio delle cose che uno sa, che sono generalmente quelle che teme, io temo questo quindi so che è così. Ecco, questa serie di elementi che, dicevamo, costituisce l’insieme delle cose che sono sapute, costituisce tutto ciò che si pone come pregiudizio, come superstizione.

Qui c’è una cosa con cui ha concluso Wittgenstein e che ci interessa, e cioè giocare cambiando continuamente le regole del gioco. Possiamo agganciarci a ciò che dicevamo martedì scorso rispetto alla prosodia, al variare dell’accento, come dire che parlando l’accento si sposta, subisce uno spostamento, cambia il ritmo. Ma cambiando il ritmo cambiano anche le regole del gioco che sto giocando oppure no? È il ritmo che determina la regola del gioco o viceversa? Questa è una bella questione su cui si può riflettere. Dunque dicevamo il ritmo, cioè l’andamento ritmico del discorso, è questo che determina la regola del gioco che si sta giocando o viceversa? Intanto potremmo chiederci se la questione è formulata in modo interessante in questo modo, e cioè se di fatto possa darsi una cosa del genere. O forse sono la stessa cosa? Se qualcuno ha qualche ipotesi da proporre ne possiamo discutere.

- Intervento:...

Certamente esistono delle regole. Qui forse occorrerebbe distinguere tra la regola del gioco come prosodia, e la regola del gioco intesa come aspetto, chiamiamolo così, grammaticale. La grammatica si partisce generalmente in tre aspetti, la fonetica, la morfologia e la sintassi. Ci troviamo di fronte a un quesito interessante, come approcciarlo? Intanto potremmo chiederci cosa stiamo dicendo ponendo questa domanda, dal momento che non si tratta qui di scoprire come stanno le cose, ma di inventare qualcosa che può consentirci di proseguire in modo più interessante, cioè non c’è una verità soggiacente da scoprire per cui in qualche modo è già così e si tratta soltanto di porlo alla luce, di illuminarlo. Se noi dicessimo che le regole del gioco determinano il ritmo, ci troveremmo di fronte a questo problema, e cioè che le regole del gioco sono altra cosa dal ritmo. Se le regole del gioco sono altra cosa rispetto al ritmo ecco che allora, precedendo le regole del gioco il ritmo, questo ne sarebbe una conseguenza, se è una conseguenza allora questo ritmo è vincolato dalle regole del gioco, però qui occorre forse precisare a questo punto che cosa si debba intendere con regole del gioco...

- Intervento:...bisogna precisare tutto...

Intanto questo, poi magari vediamo. Però abbiamo detto che cosa sono le regole del gioco, siete disattenti. Abbiamo detta questa ipotesi cioè (erano tre) che il ritmo precedesse il gioco, che le regole del gioco precedessero il ritmo o che fossero la stessa cosa. Questo è un modo di valutare una questione o di affrontarla nel senso della implicazione logica, in questo caso quando si dice “precede logicamente” si intende questo non cronologicamente, ma che da uno segue l’altro necessariamente, come dire se c’è regola del gioco c’è ritmo. Ma non necessariamente il contrario, se c’è un ritmo c’è una regola del gioco necessariamente. Con questo stiamo dicendo che il ritmo, cioè la prosodia, la cadenza e lo spostarsi degli accenti, ciò che è accentato nel discorso, non comporta necessariamente una regola del gioco, dunque che cosa sarebbe allora una regola del gioco?

- Intervento: che io possa formulare qualcosa come ritmo questa è già una regola.

Potrebbe pensarsi, lei dice bene, e se qualcuno dicesse che senza la prosodia lei non può nemmeno parlare? E quindi non soltanto stabilire le regole del gioco ma nemmeno pensarle, cosa risponderemmo a questo signore?

- Intervento: come dire c’è prima l’uovo o la gallina?

No, non tanto in questo senso ma di necessità logica, stiamo valutando anche la simultaneità...

- Intervento: Scusate cos’è la prosodia? Non c’ero io..

L’insieme degli elementi che stabiliscono l’andamento ritmico del discorso. Ecco allora la simultaneità pone ancora un’altra questione, sono due cose distinte o indichiamo di fatto la stessa cosa? Qui sono ancora due questioni differenti, possono essere simultanee e imprescindibili, pur essendo distinte, così come indicavamo per esempio rispetto alla funzione di rimozione e la funzione di resistenza, sono simultanee ma imprescindibili, non può darsi l’una senza l’altra, non può parlarsi di una senza l’altra, oppure sono effettivamente proprio la stessa cosa che erroneamente abbiamo considerato come distinte. Ciò che sappiamo in un certo senso è che senza prosodia risulta improbabile immaginare la parola, con questo dobbiamo dire che la regola del gioco fondamentale è la prosodia, a cui altre eventualmente seguono?

- Intervento:...

In questo caso è una parodia, una caricatura. Poco fa dicevamo qual è la condizione per potere fare qualunque cosa, dicevamo che è questa: che esista la parola. A questo punto forse possiamo aggiungere un elemento, a quali condizioni esiste la parola? Però dobbiamo anche considerare che di fatto dicendo della parola noi diciamo anche dell’aspetto prosodico, non c’è parola senza prosodia.

- Intervento:...

Per giochi linguistici o per regola del gioco linguistico, perché lei prima ha chiesto sulla regola del gioco linguistico. Ciò che non può infrangersi salvo l’impossibilità di proseguire a dire, ciò che risulta irrinunciabile per potere proseguire a parlare. Avevamo enunciato tempo fa il principio del terzo escluso, una delle più antiche fra queste regole. Il gioco linguistico è fatto di regole, il gioco è tale perché esistono delle regole, se no non potrebbe essere un gioco. Il gioco linguistico essendo fatto di regole si attiene a questo, il terzo escluso ci impedisce di accogliere simultaneamente un elemento e il suo contrario. Adesso qui ci riferiamo unicamente a un aspetto logico, non ideologico che è tutt’altra cosa, ce lo impedisce perché non possiamo dedurre nulla, in questo senso non possiamo proseguire, se dico una cosa e il suo contrario, come dicevano già gli antichi: ex falso quodlibet, cioè posso dedurre tutto e il suo contrario, ma non mi dirige da una parte e per proseguire occorre che io trovi una direzione. Il terzo escluso dà soltanto una direzione, nient’altro che questo, non dice ciò che è vero o ciò che è sbagliato, ciò che è vero o ciò che è falso, dà una direzione, indica una direzione. Cosa dobbiamo dire a questo punto? Che la prosodia è una regola del gioco, insieme con altre.

- Intervento:...

Perché se l’avere definito la regola del gioco nei termini che poc’anzi abbiamo espressi, come ciò che risulta irrinunciabile per proseguire il discorso, allora la prosodia è una di queste regole. Consente di proseguire a giocare. Quali sono orientativamente le regole? Una è questa, la stessa logica fornisce un’altra regola la grammatica, in definitiva le arti del trivio. La grammatica, la logica e la dialettica, per altri logica e retorica. Questo è il trivio, il quadrivio? Aritmetica, geometria, musica, astronomia. Dicevamo delle regole del gioco per parlare, se Wittgenstein chiede: in che modo stai usando questo termine? Oppure: quale gioco stai giocando rispetto alla prosodia, per esempio? Non lontano dal domandare: su che cosa stai ponendo l’accento rispetto a ciò che dici? Che cosa in questo momento sta domandando, che cosa sta questionando? Che cosa sta aprendo un abisso?

Dice lui, aforisma 87:... ma allora come può la spiegazione aiutarmi a comprendere, se non è la spiegazione ultima, allora la spiegazione non è proprio mai finita, e dunque continuo a non capire e non capirò mai che cosa egli intende. Quasi che una spiegazione, quando non è sostenuta da un altra, questa è per così dire sospesa nel vuoto, invece una spiegazione può bensì poggiare su un’altra spiegazione già data, ma nessuna spiegazione ha bisogno di un’altra, a meno che non ne abbiamo bisogno noi per evitare un fraintendimento. Si potrebbe dire che una spiegazione serve a eliminare o a prevenire un fraintendimento, dunque un fraintendimento che potrebbe sopravvenire in assenza della spiegazione. Può facilmente sembrare che ogni dubbio indichi soltanto l’esistenza di una lacuna nei fondamenti, così che la comprensione sicura è possibile soltanto quando mettiamo in dubbio tutto ciò che può essere oggetto di dubbio e poi rimuoviamo tutti questi dubbi ecc.

In altre circostanze avevamo detto che la spiegazione non toglie la piega della parola ma ne aggiunge un’altra. D’altra parte è possibile togliere il fraintendimento ma non il malinteso, quando voi avete frainteso qualcosa e chiedete spiegazione: cosa hai voluto dire? Volevo dire questo. Va bene. È come se il fraintendimento si fosse tolto, non il malinteso. Malinteso che è strutturale e qui Wittgenstein insiste a dirlo, e che abbiamo enunciato dicendo questo paradosso del sapere. Posso dire che so se e soltanto se non so. Quali sono gli effetti nel dire, di tutto ciò che andiamo raccontando questa sera? È evidente, dice Wittgenstein, che le regole del gioco mutano rispetto a un ideale, ma bisogna che leggiamo questo passo perché adesso risulta imprescindibile:

Aforisma 81: ma se si dice che la nostra espressione linguistica soltanto si avvicina a tali calcoli ci si trova soltanto sull’orlo di un fraintendimento, infatti potrebbe sembrare che in logica si parli di un linguaggio ideale, come se la nostra logica fosse per così dire una logica per lo spazio vuoto e invece la logica non tratta del linguaggio del pensiero ecc...la parola ideale è fuorviante perché suona come se questi linguaggi fossero migliori, più completi del nostro linguaggio quotidiano ecc..

Come facciamo a dire che, come fa lo stesso Wittgenstein, ad affermare: (scritto in inglese perché gli piaceva di più) fare le regole man mano che si procede con il gioco.? È evidente che fare queste regole (o meglio, più che fare qui constatarle in atto) sempre differenti comporta la possibilità di avvertire una differenza fra queste regole, cioè quindi riconoscere qualche cosa come una regola necessariamente, ma qui sorge un problema, come posso riconoscere qualche cosa come una regola? Posso stabilirlo in seguito, questa era una regola. Mi trovo qui in una situazione bizzarra, come dire che posso dire di stabilire una variazione rispetto a questa regola avendo immaginato di potere fermare questa regola. E qui mi accorgo che di volta in volta c’è una regola differente, perché c’è una variazione rispetto a quella precedente. Non è simile qui il discorso a quello che facciamo rispetto a ciò che chiamiamo ?

- Intervento: io mi accorgo di questa variazione sempre attraverso le stesse regole del gioco...

E allora?

- Intervento: come faccio a dire che mi accorgo di una variazione?

Ha mai pensato che le regole del gioco in cui lei si trova le consentono di dire, di fare quest’operazione...

- Intervento: se le regole del gioco sono le stesse come faccio ad accorgermi che è una cosa nuova?

Si, il divieto antico parmenideo che afferma che ciò che non è (se è fuori delle regole non può nemmeno essere pensato), non esiste. Ciò che ci interessa qui è intendere questo e cioè come il gioco che ciascuno sta giocando gli consenta, mano a mano, di inventare nuove regole del gioco. Ciò che fa una psicanalisi è essenzialmente questo inventare nuove regole del gioco, come le inventa? Una persona si trova a parlare in un certo modo ponendo l’accento, per esempio, su un aspetto, provarsi a porre l’accento su un altro, cioè accorgersi di uno spostamento d’accento comporta (l’abbiamo detto prima), che questa è già una regola del gioco e quindi una regola del gioco è cambiata, e quindi gioco di fatto un altro gioco, anche se di fatto altre regole possono permanere. Dunque mi trovo a giocare un altro gioco con la differenza che mentre il gioco precedente, così come era strutturato, impediva per definizione la possibilità di inserire elementi tali che potesse prodursi un nuovo gioco, invece questo altro modo prevede questa possibilità, non soltanto la prevede ma è fatto di questa eventualità. Quando parliamo di apertura che si instaura in un percorso analitico parliamo di questo, cioè questo gioco che si instaura non è che prevede, è fatto di questi infiniti elementi simultanei. Ci sono questioni? È tutto chiaro?

- Intervento:... perché?

Come perché, lo ho appena spiegato, perché non sono reperite all’interno di un bagaglio di regole, si inventano così come Beethoven ha inventato la nona sinfonia e non dal nulla, non è una creazione dal nulla, è quella che Verdiglione, riprendendo da Peirce, chiama abduzione, che di per sé è una forma di inferenza che muove dall’accostamento di due elementi dove però uno non è deducibile dall’altro, tuttavia questo accostamento produce un terzo elemento e lui chiama questa forma né induzione né deduzione, la chiama abduzione, come dire che da una connessione di due elementi interviene un terzo elemento che non è derivabile, deducibile o indeducibile logicamente da questi altri. Per esempio fa un sogno, dice una cosa, si accorge che c’è una connessione e lì gli viene in mente un’altra cosa, ma se fosse richiesto non saprebbe derivarla da queste cose, perché non troverebbe un passaggio logico tale da consentirgli una derivazione. Poi resta da stabilire se la derivazione comunque sia possibile, perché per esempio quando Verdiglione parli di deduzione o di induzione non ne parla nell’accezione logica del termine, ma in un’altra accezione, non c’è deduzione del nome propriamente, è il nome che deduce, in questo senso anche se delle volte parla di deduzione (ma è determinazione soggettiva) è il nome che deduce cioè che letteralmente toglie fuori qualcosa, è la questione della caduta rispetto alla rimozione. Così come quando della resistenza parla di seduzione, quando dell’oggetto dice che è indotto dalla pulsione. Cosa aveva chiesto prima?...Si, si ecco l’invenzione riguarda ciascuna volta la parola, dicendo che in ciascun atto di parola c’è invenzione è come dire che ciascuna volta, ciascun atto di parola è qualcosa che non c’era prima, che non c’è mai stato, che si trova lì, si trova lì per la prima volta...

- Intervento: cercare di specificare meglio cose di questo genere...per esempio nel gioco linguistico della spiegazione dovrebbe essere facilissimo trovare quali sono le regole, possono essere logiche, prosodiche, ma una volta stabilito che questo gioco linguistico è quello della spiegazione la regola che si inventa trascina via questo gioco della invenzione, non è più un gioco. Così come stamattina spiegavo ai ragazzi che dovevano attraversare il fiume, le pietre del fiume non sono un passaggio, bisogna inventarlo, da quel momento è un passaggio, ma allora in qualunque gioco io mi trovo e invento, trovo una regola questa regola cessa di essere tale...