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15/11/1995

 

Non vi è mai capitato di trovarvi a riflettere intorno al principio di identità? Abbiamo detto del principio di non contraddizione in vari modi, e abbiamo anche indicato come questa sia una procedura linguistica, e il principio di identità? Intendo questo, il principio di identità è una serie di proposizioni che affermano che un elemento è identico a sé, lo affermano, e dico che è importante perché se non lo fosse questo elemento non sarebbe percepibile, non potrebbe essere utilizzato se ciascuna cosa si trasformasse continuamente in ciascun altra, non potremmo neanche dire che è quella cosa che si è trasformata, non potremmo dire nulla di tutto ciò. Aristotele nella Metafisica affronta la questione, che riprende anche nell’Organon, e ne fa uno dei principi insieme a quello di non contraddizione e del terzo escluso. L’identità dunque, abbiamo detto ogni tanto delle cose qua e là, abbiamo dimostrato sia che non può darsi nessun principio di identità, sia che non può non darsi il principio di identità, sia l’una sia l’altra cosa, è possibile provare una cosa e il suo contrario? Si, occorre essere sufficientemente abili. Dunque cosa possiamo dire del principio di identità, e del quale non potremmo non dire? Cerchiamo sempre di attenerci al criterio che ci sta muovendo e allora incominciamo a riflettere, posso dire una cosa e un’altra simultaneamente? No, non posso, posso affermare una cosa e il suo contrario? Questo posso pronunciarlo, posso farlo nel senso che affermare una cosa e il suo contrario non porta da nessuna parte, non dice nulla, non soltanto ma, se posta in termini radicali, diventa la formulazione stessa del paradosso: cioè affermo che non sto parlando. Per affermarlo devo parlare, quindi devo fare esattamente ciò che dico che non sto facendo. Del principio di identità cosa possiamo dire? Possiamo dire che ciascuna cosa è necessariamente quella che è, però detta così sembra quasi una petizione di principio, e allora cosa possiamo dire o meglio cosa non possiamo non dire? E ciò che dico potrebbe intanto essere altro da ciò che dico? Se si, a quali condizioni? La domanda che ci questiona è: ciò che dico potrebbe essere altro da ciò che dico, quindi altro da sé? A quali condizioni potrebbe essere altro da ciò che dico? Evidentemente che sia un’altra cosa, ma se fosse un’altra cosa, proprio perché altra non sarebbe più la stessa, allora ciò che dico può essere altro da ciò che dico? Dicendo un’altra cosa ne dico un’altra. C’è l’eventualità che non possa dire altro da ciò che dico, per esempio ciò che ho appena detto: avrei potuto dire altro? Questo ci interessa poco, ci interessa che ho detto ciò che ho detto, posso avere detto altro? No, ho detto quello che ho detto. Esiste un principio o (a questo punto è meglio dire un criterio) di identità che non necessiti per essere esposto di un altro criterio di identità? Ciascuna definizione di identità, anche le più sofisticate che Voi possiate trovare sono dei circoli viziosi, nel senso che utilizzano, per definire la nozione di identità, la stessa nozione di identità, cioè la danno per acquisita. Quindi provate a definire l’identità e Vi troverete di fronte a dei sinonimi, dei sinonimi oppure delle indicazioni del contrario, che è identico a ciò che non differisce, però non andiamo molto lontani. Dunque, a noi occorre che una definizione non necessiti dello stesso principio o criterio di identità per potere dirsi. L’identità dice questo: che ciò che dico è esattamente ciò che dico. Potete anche togliere l’esattamente, è pleonastico. Dicendo questo parrebbe essersi detto nulla o molto poco, ma non è esattamente così, nel senso che l’identità, dicendo unicamente che ciò che dico è ciò che dico, mi induce a riflettere su questo, che ciò che dico rimane tale, non ho nessun modo per alterarlo. Se parlo di identità, questa identità non può essere né identica né non identica a sé stessa, non può esserlo per una questione logica, in questo caso, perché ancora non ho definito che cosa sia l’identità, quindi non posso pormi questa domanda. Logicamente. Identità dunque come criterio o a questo punto, più precisamente, come procedura, procedura che mi dice soltanto che ciò che dico è ciò che dico, niente più di questo, ma pur facendo una cosa assolutamente banale fa allo stesso tempo qualcosa di straordinario, e cioè indica l’identità come una procedura, che pertanto non necessita di nessun criterio di identità precedente per potere dirsi. Ecco perché noi possiamo provare l’identità e provare la non identità a piacere, perché l’identità, fuori da una procedura linguistica non è assolutamente niente, e in effetti posso dirne qualunque cosa e il suo contrario. Ma a questo punto c’è un passo che occorre fare, di un certo interesse, perché questa procedura dicendomi che ciò dico è ciò che dico, mi consente altre operazioni che altrimenti non potrei fare, pensate all’antanaclasi. L’antanaclasi è una figura semantica, si avvale di una metalessi, di trasformazioni semantiche, di significato, cioè uno stesso termine interviene in occasioni differenti con significato differente, sono figure semantiche molto simili, il poliptoto è una figura molto simile o l’antimetabole...

- Intervento...

No sono sempre figure semantiche, l’antimetabole per esempio è una figura in cui lo stesso termine viene inserito in proposizioni contrapposte tra loro: non si vive per mangiare ma si mangia per vivere. Invece un esempio tipico dell’antanaclasi è quello riportato da Quintiliano: Proculeio, sul letto di morte, si lamenta che il figlio aspetta con ansia la sua morte, e il figlio gli risponde che non l’aspetta di certo. Il padre allora gli dice, ma almeno aspettala, cioè non ammazzarmi prima. In questo caso il significante aspettare subisce un’antanaclasi, cioè una trasformazione, in un caso l’aspettare è inteso come il non affrettare la mia morte, quindi farmi fuori anzitempo, nell’altro invece l’aspettare è l’attendersi un evento spiacevole, per cui il figlio non si attende che il papà muoia. C’è un’ambiguità semantica nel senso che non mi aspetto affatto che la persona muoia, non aspetto, faccio subito. Allora come potrei, per esempio, utilizzare un’antanaclasi o qualunque altra figura retorica se non esistesse un’identità? La figura retorica è una variante e viene colta come figura retorica proprio perché è una variante, ma una variante è tale perché qualcosa non varia. Dunque perché una cosa sia una variante, dicevamo, occorre che qualcosa non vari, perché se tutto variasse come potrei stabilire una variante? Rispetto a che cosa varierebbe? Se tutti fossero cattivi, come potrei parlare della cattiveria? Quale ne sarebbe il criterio? Occorre che almeno uno sia buono. L’antanaclasi dice dunque che uno stesso significante interviene con significati differenti. Ma come può accadere una cosa del genere? Noi potremmo dire che per potere avere significati differenti occorre che abbia un significato e uno solo, se no non potremmo dire che utilizziamo significati differenti, sarebbero differenti rispetto a che? Rispetto a quello che abbiamo stabilito. Però come lo stabiliamo questo significato? In base a quale criterio? Noi potremmo anche parlare del dizionario di una lingua, il vocabolario della lingua italiana fornisce dei significati, e quindi accogliere quello come significato, nessuno ce lo proibisce, però noi sappiamo perfettamente che se da una parte il vocabolario dà dei significati, vocabolari più sofisticati, più elaborati aggiungono altri significati che danno come a pari valore, non solo ma potremmo anche inseguire il significato all’infinito, nel senso che ciascuno di questi significati che viene fornito dal vocabolario è espresso in significanti, ciascuno dei quali avrà un significato e così via all’infinito, dunque non potremmo mai stabilire il significato definitivo, quello rispetto al quale potere dire che qualunque altro è una variante, una metalessi.

- Intervento:...

Si può provare sia che esista identità sia che non esista identità.

- Intervento:...

No, non fuori dalla parola, in questo senso l’immagina non come procedura linguistica, e quindi come qualcosa che esiste di per sé, e allora si immagina che l’identità debba essere qualcosa di preciso, ma possiamo provare il principio di identità? No, non si può perché possiamo provarlo come confutarlo. Per potere parlare di identità occorre che qualcosa sia identico a sé, se no, se tutto è semovente, non posso parlarne in nessun modo. D’altra parte come posso attestare l’identità? Su che cosa? Su quale criterio? Dicevo, dunque, come posso dire che varia il significato, perché in un caso il padre teme che il figlio aspetti la morte, che gli tagli la gola nottetempo, mentre il figlio dice che non l’aspetta, cioè che non desidera questo evento. Sono quindi accezioni di questo significante totalmente differenti, opposte in questo caso, e il significante è lo stesso. E allora come posso stabilire un significato? Abbiamo anche detto che il significato non è altro che l’uso che la proposizione in cui l’elemento è inserito fa di questo elemento. Chi ha letto le mie proposizioni sa tutto ciò perfettamente, chi non le ha lette ancora, no. Ma questo uso da chi è fornito? Wittgenstein risponderebbe: dal linguaggio. Certo, non potrebbe essere altrimenti, ma cosa mi da il linguaggio esattamente? Fornisce i significati? Non è propriamente un vocabolario, è un sistema di procedure, tant’è che il linguaggio non mi dice esattamente qual è il significato di un termine, lo stesso linguaggio offre un ventaglio di significati, tra loro anche talvolta contraddittori. E allora che facciamo? Adesso vi spiego. Si, perché il linguaggio, essendo un sistema di procedure Vi dice soltanto che è necessario che ci sia un significato ma non quale. Lo stesso utilizzo di un termine come significante prevede che esista un significato, proprio perché significante. L’uno e l’altro si distinguono primariamente perché l’uno è un participio presente e l’altro passato. Se esiste il significante necessariamente esiste il significato, ma questa non è una legge divina, non è nulla di tutto ciò, è soltanto una procedura, ciò di cui è fatto il linguaggio e attraverso cui funziona, direbbe l’informatico che è l’hard disk del linguaggio. Se non esistessero le procedure non ci sarebbe il linguaggio, non potremmo nemmeno chiederci se esista il linguaggio. Allora dunque queste procedure dicono che cosa? Che esiste un significato, cioè che esiste qualche cosa rispetto al quale io posso fare delle variazioni, ma quale significato propriamente non me lo dice, però mi consente di dilettarmi a piacere, in effetti nell’aneddoto che Vi ho raccontato, quello di Proculeio, entrambi, sia il padre sia il figlio conoscevano la grammatica e la sintassi molto bene, eppure non si capivano, diciamola così, eppure non si sono intesi, perché ciascuno evidentemente da un senso differente, pur sapendo qual è il significato. Se noi avessimo consultato entrambi, ciascuno di loro ci avrebbe dato una buona definizione di aspettare eppure...Ora cosa ci induce a riflettere su tutto questo? Che parlando avvengono cose stranissime, molte persone fanno discussioni lunghissime utilizzando significanti di cui non sanno assolutamente nulla, come è possibile?

- Intervento:...

Questo non toglie che non sia una questione di un certo interesse. In effetti è possibile non sapere il significato di un significante, ma occorre saperne l’uso, tant’è che lo sa usare quel significante, lo usa a proposito il più delle volte, come dire che sa che questo significante è appropriato a una certa proposizione e non a un’altra. Stiamo dicendo questo, che è possibile conoscere l’uso di un termine senza conoscerne il significato. Però abbiamo detto che il significato è il suo uso. Già, e in effetti si può parlare come giustamente si è detto, come avviene quasi normalmente, e fare lunghissimi discorsi, ma se qualcuno fermasse e chiedesse esattamente cosa si intende con un significante o con un altro, questa persona sarebbe in difficoltà a dire che cos’è esattamente. Dunque lo usa senza sapere cosa significa e cosa fa facendo questo? Mette in atto delle procedure. Conoscere le procedure, conoscere l’uso è conoscere le procedure, non il significato, ma conoscere il significato è conoscere le procedure, ma non viceversa. Sono le procedure che consentono di potere costruire le proposizioni che sono il significato di altro, come dire che un certo significante so come usarlo, ma non so esattamente cosa vuol dire. Per esempio un significante come vituperio, so come usarlo ma posso non sapere esattamente cosa vuol dire, può accadere. Dove siamo arrivati con tutto questo? Siamo arrivati a una considerazione di un certo interesse, cioè a quella che distingue l’uso dal significato. Per potere parlare occorre che conosca l’uso delle procedure, in questo siamo abbastanza paralleli con Wittgenstein, ma posso anche non conoscere i significati. Cioè sto dicendo questo, che il linguaggio può funzionare anche senza significato. Tant’è che la logica matematica, per esempio, ha tentato per anni di costruire un linguaggio che fosse fatto solo di procedure senza significati, la logica formale fa questo. Cosa avviene parlando e quindi mettendo in atto procedure senza conoscere il significato? Teoricamente nulla. Come leggere una serie di simboli della logica matematica senza saperne l’uso. (x) f(x), (per tutte le x, f di x) che cosa significa tutto questo? Non dice assolutamente niente. Cosa avviene parlando a questo punto? È una questione interessante. Cosa faccio dicendo stringhe di significanti di cui non so il significato? Badate bene, la cosa la stiamo ponendo in termini radicali: ignoro il significato non per ignoranza, ma perché non posso dire di sapere il significato in nessun modo. Abbiamo già detto prima, utilizzo procedure ma non posso sapere i significati dei termini che intervengono in queste procedure. Allora che cosa faccio dicendo queste proposizioni? Abbiamo distinto l’uso dal significato, e abbiamo detto anche che il significato procede dall’uso, e che non posso sapere il significato, e abbiamo anche detto che so che c’è un significato ma che non so quale, ma che deve esserci, cioè che c’è una procedura che obbliga a pensare che ci sia ma non posso sapere quale, nel senso che non posso saperlo in modo tale da potermi arrestare su quel significato. Potremmo dirla così: è necessario che ci sia, ma non è affatto necessario il che cosa sia. Esattamente ciò che dicevamo rispetto all’implicazione, chi era presente si ricorderà: ciò che è necessario è che se dico allora dico qualcosa, ma non il che cosa, questo è assolutamente arbitrario, o aleatorio. Allora dunque l’antanaclasi apre una questione immensa, cioè tutta la questione del significato, e cioè di che cosa si parli parlando di significato. Finora tutto sommato abbiamo soltanto detto che sappiamo che c’è ma non sappiamo cos’è, e con questo non abbiamo detto moltissimo. Ma cosa comporta che io sappia che c’è? So che c’è cosa esattamente? Occorre cominciare a riflettere in termini precisi sulle questioni, cioè che cosa so esattamente dicendo che so che c’è un significato? Cosa dico dicendo che so? Di nuovo, c’è qualcosa che io posso attribuire al sapere di cui non posso non dire se voglio proseguire a parlare? Dunque del sapere cosa non posso non dire quando dico che so qualcosa? Che qualcosa mi si sta ponendo in ciò che dico, questo so: esattamente ciò che dico, non il suo significato, badate bene, ma ciò che dico e...

- Intervento:...

... conosco il significato, certo. Si, perché a quali condizioni io conoscerei il significato se potessi? Perché se con significato intendiamo una traduzione di un significante in un altro che debba renderne conto pari pari, allora in questo caso non potrò saperlo mai, però dicevo prima che ho fornito un’altra nozione di significato, e cioè il significato di un elemento non è altro che la proposizione in cui questo elemento è inserito. E allora essendo la proposizione in cui il significante è inserito, ciò che so effettivamente non è un rinvio da un significante a un altro significante, propriamente, ma ciò che sto facendo dicendo quel significante, questo è il suo significato. Tuttavia torniamo alla questione iniziale, per potere utilizzare un significante occorre che io già sappia qual è il significato per poterlo utilizzare e quindi per poterlo inserire in una combinatoria, però abbiamo detto anche che non lo so affatto, non è un problema da niente, tuttavia la questione forse è molto più semplice di quanto potrebbe sembrare: so che deve darsi un significato e lo so perché ciò che dico è comunque inserito in una proposizione che mi dice che cosa sto facendo dicendo quello che dico. Quando il padre si lamenta del figlio che aspetta la sua morte, lui sta facendo qualcosa con questo: sta temendo che il figlio possa ucciderlo. Quindi è questo che lui intende, questo dunque è il significato di “aspettare”, ma per potere utilizzare questo significante...

- Intervento:...

proprio per costruire una proposizione, perché ha usato aspettare e non pipistrello, perché ha detto aspettare anziché pipistrello? Sembra una domanda stupida ma è molto difficile rispondere.

- Intervento:...

È proprio questa la questione, cioè lo stesso significante...

- Intervento:...

certo ma la proposizione in cui è inserito fornisce il significato.

- Intervento:...

Ho già fatto un’obiezione e una contro obiezione a tutto questo perché abbiamo, si, detto che in questo caso aspettare ha un significato che è dato dall’uso che stanno facendo il padre e poi il figlio, per cui è questo che stabilisce il significato, ma è pur vero che utilizzano il significante “aspettare” e non un altro, perché? La prima cosa che verrebbe da dire è perché ha un significato che è quello che in quel momento risponde a ciò che intendono dire, tant’è che il padre dice: “aspetta”, non “mangia”. Si lamenta che il figlio aspetti la sua morte, non che il figlio mangi la sua morte o voli la sua morte o obliteri la sua morte o deragli la sua morte, perché ha utilizzato il significante “aspettare”? È qui che la questione ci interroga in modo più forte perché, si, noi diciamo, è vero, il significato è dato dalla proposizione in cui è inserito, tuttavia si è dato quel significante e non un altro.

- Intervento: la differenza fra aspettare e attendere.

Ci sono le varie sfumature, la retorica gioca moltissimo su questo, però noi adesso consideriamo in termini estremi e allora dobbiamo ammettere necessariamente, per potere proseguire, che il significante abbia un significato. Perché se no non possiamo andare avanti? Perché se noi avessimo in questo caso un termine che dice “aspetta” o qualunque sinonimo, allora non potremmo dire che è una proposizione, un bell’inghippo...

- Intervento:...

Si certo, oppure un personaggio di cui si ha poca stima, già e allora come dobbiamo affrontare la questione? In qualche modo l’abbiamo approcciata parlando della paura, non so se ricordate, io posso dire di avere paura senza averne, sono tranquillissimo, ma dico “ho tanta paura”, ma non la provo questa paura, e allora ci chiedevamo qualcosa di molto simile e allora distinguevamo tra l’uso che faccio di questo significante, cioè effettivamente che cosa faccio dicendo questo e una procedura ma, badate bene, torniamo un passo indietro, potrei usare questi, chiamiamoli pure vocaboli, se non si desse per ciascuno di questi un significato? Sarebbe come se mi trovassi di fronte a un vocabolario di aramaico e mi si dicesse di costruire proposizioni in quella lingua che io ignoro totalmente. Che cosa farei? Nulla, cioè non potrei servirmene in nessun modo, non potrei costruire nessuna proposizione, non farei assolutamente niente. Dunque devo dire che è necessario che esistano dei vocaboli e che questi vocaboli abbiano un significato? Considerate questo, in qualche modo la risposta è già data, l’uso, cioè la procedura per l’utilizzo del linguaggio, mi dice che posso utilizzare dei vocaboli in quanto sono provvisti di significato. Che cosa vuol dire questo? So che ciascun elemento ha necessariamente un rinvio ma quale? È come se ci fosse un rinvio ad altri significanti che mi consentono di parlare col prossimo, però questo in seconda battuta, mi consentono di accorgermi del linguaggio perché a questo punto sembra una questione molto complessa e che allude a qualcosa che abbiamo detta prima, e cioè cosa faccio quando parlo senza sapere esattamente cosa sto dicendo e, dicevamo, faccio niente cioè non si produce nulla ma non che non si produce nulla nel senso che non provo sensazioni, emozioni, perché mi arrabbio, faccio un sacco di cose. Ma adesso non è tanto questa la questione, quanto considerare che prima abbiamo detto che è possibile utilizzare il linguaggio senza conoscere il significato, ma che cosa intendiamo con questo? Forse occorre correggere questa proposizione, diciamola così, molto provvisoriamente: farlo funzionare senza con questo utilizzarlo. Faccio l’esempio di prima, io posso parlare di vituperio sapendo utilizzare questo significante ma senza sapere che cosa significhi esattamente, posso utilizzarlo in quanto lo inserisco nella proposizione in cui c’entra, magari posso dire che il risotto è un vituperio, che potrebbe anche dirsi facendo un certo giro retorico, però chiunque di fronte a una formulazione del genere intuirebbe che la persona non apprezza moltissimo il risotto. Quindi avviene una cosa sorprendente, e cioè che in qualche modo si intendono senza conoscere l’uso o più propriamente il significato dei significanti che stanno utilizzando. Ora in tutto questo c’è un aspetto di un certo rilievo, vale a dire che sapendo utilizzare questo significante, pur non conoscendone il significato, constato di trovarmi all’interno di una struttura che utilizzo, dunque una struttura che è lì e attraverso la quale parlo, faccio, dico, penso, esisto. Tuttavia questa struttura, queste procedure, sono tali per cui è come se fossi costretto a pensare che esista un significato, cioè che esista un rinvio necessario da un significante a un altro, cioè che una certa cosa voglia dire esattamente questo. Questo lo so e non posso non saperlo perché se non fosse così in un certo senso non potrei parlare.

- Intervento: Consapevolezza che esista un significato e poi consapevolezza che esista un rinvio.

Certo, e cioè che a una parola ne segua un’altra perché se sto dicendo, sto dicendo qualcosa.

- Intervento: L’invariante non è il significato.

No certo, è soltanto un esempio, è soltanto una regola che mi costringe, se parlo di invariante, a parlare di variante o se parlo di prima a parlare di dopo, a parlare nel senso che lo do per acquisito se no, se dico dopo e non c’è un prima che cosa significa dopo, assolutamente niente e allora di nuovo ci siamo trovati in un punto in cui, come spesso ci è accaduto, ci troviamo di fronte a qualcosa che necessariamente dobbiamo ammettere per potere parlare e allo stesso tempo in nessun modo possiamo ammettere.

- Intervento:...

Non ho risposto affatto, c’è anche l’eventualità che non abbiamo elementi sufficienti per rispondere in modo preciso, però ci stiamo avvicinando dicendo che, e questo è il quesito che stiamo ponendo, per potere parlare occorre che esista un termine, che esista un significato, perché in caso contrario le parole sono niente, non posso utilizzarle né inserirle da nessuna parte, e d’altra parte non possiamo ammettere che non abbiano un significato e d’altra parte ancora non possiamo neanche ammettere che ne abbiano uno. Quale? Chi l’ha stabilito? Da dove viene? E perché? Tuttavia abbiamo detto che l’identità è una procedura linguistica che dice soltanto che ciò che dico è ciò che dico, né più né meno, però qui la questione è più difficile perché sembra quasi inevitabile il rinvio, posta la questione in questi termini, a una sorta di convenzione, si usa un certo termine perché è una convenzione. Cioè un sistema convenzionale di segni, che tutto sommato è la tesi più accreditata, però cosa vuol dire un sistema convenzionale? Che è una convenzione stabilita per quale motivo? Chi ha convenuta una cosa del genere? Riflettiamo bene: che cosa mi sto chiedendo chiedendomi se un significante ha un significato? E soprattutto con che cosa me lo sto chiedendo?

- Intervento: con il linguaggio.

Esattamente. E quindi per potere formulare questa proposizione io sto già usando dei significati, che lo voglia oppure no, che mi piaccia oppure no, allora ci troviamo ancora di fronte alla condizione tale per cui, per dire che cos’è un significato io devo dire già, o meglio devo già sapere che cos’è un significato perché lo sto utilizzando per spiegare che cos’è il significato. Cosa sto facendo in tutto ciò? Cosa direbbero i latini? Una petitio principii, una petizione di principio che è proibita dalla retorica, considerata un’argomentazione di nessuna portata, è un’argomentazione che non può sostenersi perché equivale a dire che è così perché è così, cioè non posso utilizzare per spiegare qualcosa lo stesso termine che devo spiegare, sarebbe come dire: che cos’è il significato? Il significato è il significato. Possiamo dire che è una convenzione? Possiamo dire che è qualunque cosa, possiamo anche dire che ce l’ha dato dio il linguaggio, come voleva Tommaso, Santo anche per questo motivo, o qualunque altra cosa o il suo contrario. Ma non sarà forse una di quelle domande come quella che Wittgenstein enunciava, domanda che non posso pormi perché mi troverei inevitabilmente in una petizione di principio o regresso all’infinito? C’è qualcosa di cui possiamo dire del significato: l’uso che le procedure fanno di sé. Niente più di questo.

- Intervento: Chiarimento intorno alla proposizione 1.31.

“1.31 Se i connettivi delle proposizioni sono varianti risulta arduo supporre che il calcolo dei predicati, così come quello proposizionale attuati dalla logica formale, possano condurre a risultati di cui possa pensarsi qualche attendibilità che non sia, come nel calcolo numerico, una semplice rilevazione dell’uso corretto di regole inferenziali o di procedure. Un gioco.”

Si perché il connettivo rinvia necessariamente da A a B, cioè se A allora B necessariamente, oppure questo connettivo, il ferro di cavallo, la freccia o quello che si preferisce, non connette necessariamente. Non connette necessariamente in quanto dice soltanto questo che il passaggio da A a B risulterebbe necessario soltanto se questo connettivo fosse un’invariante, ma essendo una variante cosa accade? Che l’implicazione “se A allora B” rimane assolutamente gratuita, non è necessaria. Vedete che c’è uno scivolamento perché la non necessità riguarda il significato, però io forse l’ho detto da qualche parte. Ecco è 1.29 che spiega tutto: “1.29 Nell’implicazione “A -> A”, ciò che è necessario è unicamente il connettivo, che dice soltanto che se c’è l’antecedente allora c’è il conseguente. Cioè, ancora, “che io dica” implica necessariamente che dica qualcosa.”

Ma quando parla di encatalisi del connettivo, parla evidentemente di trasformare un elemento, che si suppone sincretico di qualche cosa di assolutamente immobile, semanticamente ambiguo, cioè vuol dire una cosa e un’altra.

- Intervento:...

Potremmo dire che il significato è un’invariante ma il suo significato è una variante.

- Intervento: Vuole dire ma non dice, è posto fuori dalla parola cioè l’invariante è posta fuori dalla parola, forse questo è un po’ l’inghippo, cioè che l’invariante è comunque nella parola.

Esattamente proprio così. Bene. Ci vediamo la settimana prossima, così vi spiego come divenire Sofisti...