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14/2/1995

 

Dice Wittgenstein, proposizione 87: ma allora come può una spiegazione aiutarmi a comprendere se non è la spiegazione ultima? Allora la spiegazione non è proprio mai finita; io dunque continuo a non capire e non capirò mai che cosa egli intende! Quasi che una spiegazione, quando non è sostenuta da un’altra, resti, per così dire, sospesa nel vuoto. Invece una spiegazione può bensì poggiare su un’altra spiegazione già data, ma nessuna spiegazione ha bisogno di un’altra - a meno che non ne abbiamo bisogno noi, per evitare un fraintendimento. Un ideale- Prosegue Wittgenstein Proposizione 88: Un ideale di precisione non è prestabilito; non sappiamo come dobbiamo concepirlo - a meno che non sia tu stesso a stabilire che cosa debba essere chiamato così. Ma ti riuscirà difficile dare una determinazione del genere; una determinazione che ti soddisfi.

Ecco qui c’è, in nuce, tutto ciò che stiamo dicendo ultimamente, che non ci sia spiegazione ultima, questo è stato detto milioni di volte e non soltanto noi, tuttavia che fare di questa proposizione? Wittgenstein, ci dice che ad un certo punto viene accolta, uno può anche sostenere la spiegazione di un altro, se non ha inteso bene per esempio, ma quest’altro non costituisce per nulla il supporto o la causa di ciò che andiamo cercando, è una connessione, qualcosa che si dice a fianco. L’ideale, lui dice, non sappiamo nemmeno come dobbiamo concepirlo, quindi non sappiamo come dovere concepire in effetti una spiegazione che come vorrebbe farci credere questo significante. E allora si tratta di questo in prima istanza, rispetto a ciò che andiamo facendo, di porre delle condizioni perché ciascuno che si trovi a riflettere, a elaborare delle cose intorno a ciò che lo riguarda, che può essere una questione che incontra rispetto a un termine, non possa in nessun modo fermarsi, come dire che soltanto a questa condizione può fermarsi, proprio quando non può più fermarsi in nessun modo. Solo allora è libero di accogliere ciò che si è detto, senza cercare necessariamente un supporto, un sostegno a ciò che ha detto, che appunto spieghi. Che io spieghi qualcosa o faccia un discorso intorno a questa cosa, se so che questo discorso intorno a quell’elemento non è affatto l’ultimo discorso ma posso proseguirlo all’infinito, non ho più la necessità di trovare una garanzia, un supporto, qualcosa che giustifichi ciò che ho detto, solo ciò che ho detto può essere accolto come qualcosa che io ho detto, cioè con assoluta responsabilità, anziché immaginare che ciò che ho detto, il discorso che ho tenuto, costituisca una sorta di richiamo alla realtà per cui la spiegazione di questa cosa è la realtà o richiama la realtà. Se è così e chiaro che non ho da essere assolutamente responsabile di ciò che ho detto, perché io sono soltanto portavoce, per così dire, della realtà. Dunque trovarsi nelle condizioni di non potere più in nessun modo fermarsi, rispetto a una spiegazione o a qualunque cosa, a questo punto è impossibile fermarsi, in una sorta di libertà assoluta e quindi di responsabilità assoluta rispetto a ciò che ho detto. Ecco, qui c’è alla fine della proposizione 108, quello che è centrale in tutta la elaborazione di Wittgenstein: La domanda “Che cos’è, propriamente, una parola?” è analoga alla domanda: “Che cos’è un pezzo degli scacchi?-- Il significato di una qualunque cosa non ha nessun altro senso, che quello di chiedere in che modo viene utilizzato. Uno dice che senso ha l’alfiere nel gioco degli scacchi? Oppure che senso ha l’alfiere in quanto tale, nessuno, assolutamente nessuno, ne ha nel gioco degli scacchi, perché l’alfiere nel gioco del tressette non c’entra niente, come in qualunque altro gioco, ecco allora la necessità di sapere (per intendere che cosa una persona sta dicendo) qual è il gioco che sta giocando, cosa sta intendendo con questo? Qualunque cosa dica, voi potete porre la questione riguardo a qualunque cosa, in particolare naturalmente in una conversazione analitica, dove è in gioco proprio questo, il che cosa si intende, vale a dire qual è la questione che si sta ponendo o, se preferite, che cosa si sta dicendo in ciò che si dice. Come dire, ieri ho fatto questa cosa oppure Tizio, Caio mi ha fatto questa cosa, oppure ho pensato questa cosa, va bene e allora? Cosa sto dicendo con questo? Ciò che abbiamo detto prima ci sbarazza dalla necessità di cercare di capire che cosa ho detto esattamente nel senso della spiegazione, - dice questo perché ha voluto dire quest’altro - come se le sue parole fossero traducibili attraverso un codice, no, semplicemente di che cosa si tratta in quello che si sta dicendo, qual è la questione che si sta ponendo, cosa sta accadendo mentre si dice questo. Per esempio x potrebbe dire, il tizio mi ha fatto questa cosa e allora ecco cercare di convincere che non è così, oppure che è una sua fantasia, che non aveva nessuna intenzione di farla, sono tutte fesserie che non significano assolutamente niente, dire che è una sua fantasia, potrebbe essere altrimenti? Per cui non è questa la questione, ma quale gioco sta giocando dicendo questo? Dicevo rispetto a qualunque proposizione, ma in particolare rispetto a ciò che si dice in una conversazione analitica.

Proposizione 120: ...si dice ciò che importa non è la parola ma il suo significato; e nel dirlo si pensa al significato come a una cosa dello stesso tipo della parola, anche se distinta da essa. Qui la parola, là il significato. Il denaro e la vacca che si può comperare con esso. (Ma per un altro verso: il denaro ha la sua utilità).

Proposizione 121: Si potrebbe pensare: se la filosofia parla dell’uso della parola “filosofia”, deve esserci una filosofia di secondo grado. Ma non è affatto così; il caso corrisponde piuttosto a quello dell’ortografia, la quale deve occuparsi anche della parola “ortografia”, ma non per questo è una parola di secondo grado.

Dire che non c’è una parola di secondo grado è come dire che non c’è metalinguaggio in quanto ideologia, cioè non c’è la possibilità di parlare sulla parola, come se questo parlare sulla parola potesse illustrare la parola di cui si tratta, ciò che avviene non è una parola di second’ordine, metalinguistica. Non c’è uscita dal linguaggio o, detto in altri termini, se io parlo di qualche cosa, il discorso che faccio non è una cosa differente che quindi dall’esterno può definire, delimitare o cogliere ciò di cui si tratta. Potremmo dirla così: ciò di cui si tratta si riscontra proprio nelle parole, non c’è prima. In questo caso non c’è possibile metalinguaggio, in questa accezione sicuramente ma soprattutto non c’è la possibilità di isolare il - ciò di cui si tratta -, questo qualcosa non è isolabile dalla parola, come dire che continua a insistere in ciò che ne dico ma insistendo in ciò che ne dico resta inafferrabile. Sto parlando di qualche cosa e non mi accorgo che questo qualcosa si stia dicendo in ciò che dico, questo avviene perlopiù parlando, quando una persona per esempio cerca di descrivere o isolare, in alcuni casi, qualcosa che ritiene un problema o un sintomo, ciò di cui perlopiù non avverte la portata è che ciò che tenta di descrivere, di fatto sta funzionando nella sua descrizione, avvertire questo è sbarazzarsi della necessità di descrivere, immaginando che la descrizione possa, come dicevo prima, isolare questo qualche cosa e quindi renderlo altro, come diceva Wittgenstein: qui la parola là il significato; quindi ciò che dico e lì, il sintomo o ciò di cui sto parlando, senza accorgermi che ciò di cui sto parlando è in ciò di cui sto parlando o in ciò che sto dicendo, non è altrove, pensare che sia altrove è fonte di innumerevoli intoppi.

Proposizione 122: una delle fonti principali della nostra incomprensione è il fatto che non vediamo chiaramente l’uso delle nostre parole. La nostra grammatica manca di perspicuità. - La rappresentazione perspicua rende possibile la comprensione, che consiste appunto nel fatto che noi “vediamo connessioni”. Di qui l’importanza del trovare e dell’inventare membri intermedi. Il concetto di rappresentazione perspicua ha per noi un significato fondamentale. Designa la nostra forma rappresentativa, il modo in cui vediamo le cose. (È, questa, una visione del mondo?)

Ecco, il fatto che non vediamo chiaramente l’uso delle nostre parole. È interessante questo, ciascuno si trova a dire delle cose e quindi a “usare” in un certo senso delle parole, senza vederne chiaramente l’uso, vale a dire senza accorgersi, come dicevamo prima, di qual è il gioco che si sta giocando mentre si chiacchiera di qualche cosa. Cos’è questo vedere “connessioni”? Lui già mette tra virgolette. “La nostra grammatica manca di perspicuità” come dire che non è dato nella grammatica la o meglio ancora la grammatica in quanto tale non rende l’uso delle parole, non le mostra ma ciò che mostra è il reperire queste connessioni...

- Intervento:... quindi individuare il gioco linguistico?

Il gioco linguistico, sì certo... (...) ecco la questione Monica: “il principio di rappresentazione perspicua ha per noi un significato fondamentale. Designa la nostra forma rappresentativa, il modo in cui vediamo le cose”. Ora lui si chiede se questo è la visione del mondo, è una domanda che si pone non un’affermazione, come dire....

- Intervento...

La “visione del mondo” qui sarebbe la connessione necessaria tra i vari elementi, necessaria ma qui in accezione particolare, cioè in accezione ontologica, come dire che deve essere necessariamente così, perché le cose stanno così. Allora ecco queste connessioni diventano necessarie in quanto rappresentano lo stato delle cose.

- Intervento: questa connessione necessaria non vale ad accorgersi del gioco linguistico che si sta giocando...

Accade questo, che le connessioni sono gli elementi che connettendo, appunto, un elemento con un altro, consentono di articolare il discorso, senza connessioni non è possibile articolare alcunché, non sarebbe possibile nemmeno parlare senza connessioni. Queste connessioni dunque per Wittgenstein sono ciò che consentono di cogliere in atto il gioco linguistico perché, dice lui, vado a rileggere: la rappresentazione perspicua rende possibile la comprensione, che consiste appunto nel fatto che noi vediamo “connessioni”. Il concetto di rappresentazione perspicua... noi così vediamo le cose.- Poi è chiaro che lui riflettendo sul come si struttura il gioco avverte che questo gioco può strutturarsi anche come visione del mondo, ma si struttura come visione del mondo a condizione che, come dicevo prima, queste connessioni vengano colte come necessarie tra un elemento e un altro, ciò che ci diceva prima, per cui risulterebbe la spiegazione ultima, se questa è la connessione necessaria non ce ne possono essere altre, ma come ci indicava, bisogna tenere conto man mano di quello che dice, la spiegazione ultima non può darsi, come dire che queste connessioni non sono mai quelle ultime, allora sono connessioni contingenti, cioè in questo momento avviene questo. Questo non significa affatto che le cose debbano necessariamente essere sempre così, cioè che siano una descrizione di uno stato di cose, come la visione del mondo, come dire il che mondo è fatto così oppure che io sono fatto così, è un’altra visione del mondo, come se appunto le connessioni che sono avvenute fossero la rappresentazione di uno stato di cose anziché una rappresentazione perspicua, cioè la rappresentazione di ciò che in quel momento io ho inteso o più propriamente di ciò che si è posto per me in quel momento. Senza necessità rispetto al mondo esterno cioè senza nessuna necessità di verità, quindi deve essere così, più chiaro adesso?

- Intervento:... però io cosa me ne faccio di una connessione contingente?

Cosa se ne fa di una connessione necessaria?...

- Intervento...

Facciamo un esempio, anzi facciamo l’ipotesi di una persona che tema di essere continuamente esclusa da qualche cosa, allora ecco che coglie nell’atteggiamento di qualcuno uno sguardo e si trovi a fare una connessione tra questo sguardo e la necessità dell’esclusione, cioè se questa persona mi guarda così allora mi esclude, ora questa connessione, questo se... allora, questa implicazione, può considerarsi necessaria cioè è così, oppure contingente, cioè io ho detto questo: che se mi guarda così allora sono escluso, ma a questo punto mi confronto con ciò che ho detto, perché in quanto tale non significa assolutamente niente, allora nel primo caso la cosa si arresta lì, nel secondo caso ho l’eventualità di chiedermi, per dirla con Wittgenstein, che gioco sto giocando?

- Intervento: tuttavia...non è necessario e quindi?

Quindi non è necessario che io creda che sia così...

- Intervento: e allora?

Ecco, in questo caso non ho da credere necessariamente a questo e cioè ciò che io penso corrisponda a come stanno le cose. Io penso una cosa, ma questo non significa affatto che il mondo sia così e cioè che se questa persona guarda in quel modo, da questo non discende necessariamente l’essere esclusi.

- Intervento: ma come accorgersi del gioco che si fa?

Per esempio con la mobilità di una funzione che interviene, in questo caso la necessità di sentirsi esclusi, per esempio, per tutta una serie di cose, che in questo primo caso sarebbe totalmente esclusa...

- Intervento:...

Ma il gioco è quello linguistico in cui si trova e i connettivi sono aspetti, o meglio, una delle regole del gioco, i connettivi, quelli logici per esempio, la “&” congiunzione, la “V” disgiunzione, la “É“ implicazione...

- Intervento:...

Ciò di cui stiamo discutendo non è il che cosa si debba fare di fronte a una certa cosa, ma come è possibile riflettere dove c’è un pensiero o dove si incontra un pensiero. Un pensiero lo si incontra continuamente, di qualunque tipo sia, e allora come ci si pone nei confronti di questo pensiero? Bisognerebbe interrogarlo ma per interrogarlo occorre questa mobilità di cui si parlava prima, che comporta la non necessità di queste connessioni...

- Intervento:...

In questo caso ho preferito parlare di gioco per sottolineare la mobilità di ciò che avviene parlando. Il motivo, si può anche parlare di motivo, ma dando a questo significante un’accezione meno rigida di quella che si attribuisce, cioè il motivo come la causa, come ciò cui è riconducibile, invece in questo caso essendo un gioco non è riconducibile a niente, è una serie di regole che funzionano mentre parlo, ma promuove altre cose.

- Intervento: ...la visione del mondo è un’idea che opera, riconducibile al fantasma...

Sì, chiaro, fantasma qui come ciò che opera in ciò che si dice.

- Intervento: perché le connessioni, cos’è che si connette? C’è una logica...

Sì, ecco, come sapete nell’elaborazione di Verdiglione l’idea è l’operatore, è ciò che connette propriamente, questione che ha ripresa dalla logica, i connettivi logici poi ha... come dire che l’idea, l’operatore, cioè il connettivo è l’idea che operando in ciò che dico non è dicibile, non può dirsi, non può dirsi l’idea, mentre l’ideologia si pone come il discorso sull’idea. Quindi è un’idea che non so di avere di cui posso accorgermi dicendo ma che non ho propriamente, non ho in quanto non la possiedo, non la posso gestire, contrariamente invece a ciascuna ideologia che suppone di potere gestire l’idea, anzi di rappresentarla, di idealizzarla, l’idea sarebbe per l’azione secondo la mitologia più...

- Intervento:...

Di tutto ciò che lo rende, che lo pone in atto, potremmo dire che lo rende “possibile” mettendo fra virgolette questo possibile, tutto ciò che consente di parlare...

- Intervento:...

Significare le cose è possibile perché ci sono delle regole che consentono di farlo, e allora lei può pensare anche di significare, ma significare di per sé è un significante e come tale può portare anche degli effetti di senso, ora il luogo comune attribuisce a questo significante un accezione particolare, che è la facoltà di ricondurre un elemento ad un altro necessariamente, questo è significare, nell’accezione comune.

- Intervento: quindi anche di fare connessioni.

O anche per terminarle, perché quando un significato è determinato in modo definitivo, la connessione rimane bloccata ferma, necessaria è quella. Proposizione 138: Ma allora il significato che comprendo non può convenire al senso della proposizione che comprendo? O il significato di una parola convenire al significato di un’altra? - Certo, se il significato è l’uso che facciamo della parola, non ha alcun senso parlare di tale convenire. Però comprendiamo il significato di una parola, quando la ascoltiamo o la pronunciamo; lo afferriamo di colpo e ciò che afferriamo è certamente qualcosa di diverso dall’“uso”, che ha un’estensione nel tempo! - Cioè ha un significato stabilito. Ecco qui da una nozione di significato che risulta come dire più sfumata, ciascuno comprende, lui lo mette in corsivo, è una parola che viene detta pronunciata quindi è un significante ma cosa comprende esattamente? Perché le “afferriamo di colpo” ma che cosa esattamente afferriamo di colpo? Afferriamo un senso, un effetto di senso, che dice qualcosa di diverso da un “uso” che lui chiama estensione nel tempo, come dire che l’uso in quel momento contingente non necessario,...

- Intervento: sul necessario e contingente.

Sì, ciò di cui stiamo discutendo è questo, che cosa fa si che questa connessione sia creduta necessaria. Per cui se per esempio una persona può, ascoltando delle cose che Monica dice o fa, supporre che Monica sia fatta in un certo modo e pensare di sapere che Monica è così, come dire che le connessioni che sono intervenute rispetto a ciò che ha sentito, che l’hanno condotta a una certa conclusione sono ritenute necessarie, cioè è così. Noi ci stiamo interrogando su come avviene questo fenomeno bizzarro. È importantissimo...

- Intervento: attraverso le connessioni ci si accorge della contingenza, della non necessità?

Sì.

- Intervento: sì, sì attraverso le connessioni io mi domando come mai io voglio sentirmi esclusa?

È una domanda che posso farmi.

- Intervento: E allora? Ma io posso farmi centocinquantamila domande e non ancorarmi alla connessione necessaria.

No, non può farne centocinquantamila, perché è quella che è in gioco.

- Intervento: perché proprio quella domanda?

Perché è questo che è in gioco in quel momento, cioè il fatto che qualcuno crede che se è avvenuto questo allora sono escluso. È di questo che si tratta.

- Intervento: Sì, ma perché allora “io” voglio essere esclusa?

Non è che si formuli così la domanda, però si può giungere a formularla in questi termini laddove, anziché fermarsi a questa constatazione necessaria del “è così”, può invece cominciare a pensare che potrebbe non essere necessariamente così.

- Intervento: Allora se devo farmi una domanda sarà: sono io che voglio essere esclusa?

Sì, avviene perché è saltata una serie di passaggi, perché a questo punto se si pone la questione in questi termini allora la questione è questa: l’esclusione come mi riguarda? Se questa connessione non è necessaria allora sono io che devo fare i conti con questa questione dell’esclusione. Come mi riguarda l’esclusione? Cos’è per me l’esclusione? Come avviene che io immagini effettivamente di essere esclusa? In quale gioco è inserito questo elemento “esclusione”? Ora formulando le questione in questi termini c’è l’eventualità...

- Intervento...

Sì perché sto inserendo qui tutti i passaggi, ecco allora, come dire che se questa questione insiste, allora è possibile che questa questione abbia una funzione economica nel discorso, come dire che sia lì, mettiamola così in modo un po’ rozzo, per uno scopo. E perché mai dovrebbe trovarsi lì questa questione? Questa questione dell’esclusione? Perché è lì, perché insiste? Cioè in altri termini, per dirla con Freud, qual è il tornaconto dell’insistere rispetto a questa questione? Ecco che allora può formularsi l’eventualità che ci sia una sorta di ricerca dell’esclusione, tant’è che la trova dappertutto, anche laddove non c’è.(...) Sì, non è che lavora a tempo pieno (esatto!) anche se in alcuni casi può avvenire che a tempo pieno si dedichi a questa operazione, però generalmente è distratto anche da qualche altra cosa, per cui se uno non pensa a questo è perché è distratto, ma appena cessa di esserlo i suoi pensieri convergono lì. Ecco allora. -Debbo “sapere” se comprendo una parola? Non accade anche che immagini di capire una parola (non altrimenti da quando mi immagino di aver capito un tipo di calcolo) e poi mi accorga che non l’avevo capita? (“Credevo di sapere che cosa significa movimento relativo e assoluto, ma ora vedo che non lo so”).-

Questo è curioso, riflettere su come avviene in effetti di immaginare, di pensare, di credere di sapere qualche cosa e poi non lo si sa, ma allora cosa si sapeva? È una domanda interessante questa che si pone Wittgenstein, come dire: non è forse questo, in questo caso si crede qualche cosa che poi ci si accorge di non sapere, il fatto che si creda soltanto, che debba esistere una connessione necessaria e poi, per esempio, non reperire questa connessione, si crede che questa connessione sia necessaria, che debba esserci, ma non si trova. Ciò che avviene in questa circostanza è la stessa cosa di ciò che si diceva rispetto ad Agostino quando dice: so che cosa è il tempo se nessuno me lo chiede, ma se qualcuno me lo chiede non lo so più. Come dire che finché nessuno lo chiede, finché non deve mostrare questa serie di connessioni è sicuro che ci siano, queste connessioni, ma quando deve esibirle non le trova e allora lui non lo sa più, come direbbe Wittgenstein, non può farsi nessuna rappresentazione perspicua della cosa e dunque non si la comprende.

Proposizione 156:... la parola “leggere” viene applicata diversamente secondo che parliamo di principiante e di un lettore esperto.- Ora, naturalmente, si vorrebbe dire che ciò che avviene nel lettore esperto e nel principiante, quando pronunciano la parola, non può essere la stessa cosa. E se non c’è nessuna differenza in ciò di cui sono consapevoli, dovrà essercene qualcuna nelle operazioni inconsapevoli del loro spirito, o anche nel loro cervello. -Si vorrebbe dunque dire: Qui ci sono, comunque, due meccanismi differenti! E ciò che in essi avviene deve distinguere il leggere dal non leggere. - Ma questi meccanismi sono soltanto ipotesi, modelli per spiegare, riassumere, ciò che osservi. Dunque due persone, una esperta nella lettura e una no, quando leggono una parola, questa parola è la stessa oppure no? Parrebbe di sì, ma sì perché? Perché dovrebbe essere la stessa? Questo è l’esempio che fa lui ma rendendolo in modo più “perspicuo”, intelligibile, dicendo così che la stessa parola pronunciata da un’altra persona ha un altro uso, un uso diverso, è cioè inserita in un altro gioco, e pertanto ha letteralmente un significato differente, anche se qui per esempio due persone leggono la stessa cosa, in un brano, questa parola è la stessa? Sono esempi buffi quelli che fa lui, ma potremmo renderlo in modo più perspicuo, intelligibile, dicendo che le stesse parole pronunciate da un’altra persona hanno un altro uso linguistico, cioè inserite in un altro gioco, e pertanto hanno letteralmente, come dicevo prima, un significato differente, anche se, per esempio, due persone leggono la stessa cosa, leggono un brano, questa parola è la stessa? Una capisce e l’altra no? E per dirla in modo più eclatante, direbbero i francesi, una formula matematica per un matematico è una cosa chiarissima, carica di significato, per un altro, non matematico, non dice assolutamente niente, eppure hanno letto entrambe la stessa cosa. Ma come dicevo è molto più interessante accorgendosi di come ciascuna volta una parola, un elemento, un significante, può essere ripetuto dalla stessa persona, ciascuna volta, milioni di volte, ciascuna volta in modo differente e ciascuna volta non riesce a riconoscerlo, tant’è che per esempio, prendiamo la questione dell’esclusione, se io immagino di essere escluso, quando dico di essere escluso, ciascuna volta questo significante ha una portata differente ed è questa differenza che mi impedisce di fermare una scena in modo definitivo. Per cui ciascuna volta è come se fosse la volta precedente, ma sempre però con una differenza, non è mai la stessa cosa, riproducendo, cercando i vari elementi, reperendo degli elementi in modo tale da ricostruire questa scena, ma non riuscendovi mai, come dire che questo significante ha un altro uso ciascuna volta ed è come se non lo riconoscessi, e allora per riconoscerlo devo circondarlo di un’altra serie di elementi che ritengo conosciuti, familiari, tuttavia anche questi elementi si mostrano differenti e dunque la scena non è riconoscibile e allora che succede a questo punto? Succede questo, che non riconoscendolo o mi do un gran da fare ad aggiungere elementi in modo da renderla riconoscibile, senza peraltro riuscirci (come dire cercando di convincermi aggiungendo elementi), oppure posso fare un’altra operazione, cioè accogliere questa differenza, anziché cercare di eliminarla. Accogliere la differenza comporta che la scena in cui mi trovo è assolutamente inedita ed è funzionale a qualche cosa che è costruita in quel momento o altrimenti, di nuovo: cosa sto dicendo quando dico che sono escluso?

- Intervento: ...il lamento è che non c’è differenza....ciò che si ripete è inedito...

Sì, ciò che si ripete non è mai stato.

- Intervento:... il rimarcare l’assenza di differenza: è sempre tutto uguale. Avvertire la domanda sull’elemento che fa la differenza.

Torniamo alla questione di prima della connessione necessaria, perché dire che è sempre tutto uguale è come dire che è così, ma come sappiamo che è così? A una condizione, e cioè di avere isolato, di avere immobilizzato qualche cosa nella supposizione che le connessioni che ci hanno condotti a questo siano necessarie, per cui non può essere altrimenti che così...

Una volta stabilite come identiche a sé può costituire una pietra miliare, quindi cominciare di lì.

Manca di qualcosa? Manca di nulla. (...) Non c’è nessuna questione. Qual è la questione? Sapere cos’è la mancanza?

- Intervento:... se si ripete qualcosa è perché se si ripete non è chiusa la questione, c’è qualcosa che ti manca...

Perché dice che manca? Anziché essere, per esempio, in sovrappiù?

- Intervento: se si ripete manca.

Forse perché c’è un’eccedenza che non si riconosce, piuttosto che una mancanza.

La prossima volta affrontiamo la questione della derivazione che è fondamentale. Cosa si intende quando si dice che qualcosa deriva da un’altra, su questo Wittgenstein ne dice delle belle, anzi dà il meglio di sé.