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13 giugno 1995

 

APPUNTI

 

 

Confrontarsi con la parola, con i suoi effetti.

Lo psicanalista è un effetto del sofista.

Il sofista può consentire a altri di avviare un itinerario intellettuale fornendo gli strumenti, i mezzi. Consente di accorgersi delle “condizioni” per cui possono esserci acciacchi, malanni, malesseri, cioè cosa occorra che creda per essere malinconico.

Tutto ciò che accade è per via di una struttura di linguaggio e, pertanto, non può non tenersi conto di questo perché è tutto ciò che riguarda ciascuno.

Ciò intorno a cui si affannano gli umani sono per lo più le loro superstizioni, le loro credenze (che l’uno ha ragione, che l’altro ha torto, che il bene è questo, che il male è quest’altro, ecc.).

Ci sono delle condizioni perché questo possa avvenire: le condizioni per credere.

Eristica: arte per provare e confutare qualunque cosa.

Qualunque cosa può essere confutata per via della struttura del linguaggio, per via della sua polisemia”.

Aristotele: nel Perì Ermenéias dice che c’è una polisemia nel linguaggio da cui occorre guardarsi laddove è usata da quei funamboli della parola che sono i Sofisti. Non tanto per il contenuto quanto per la forma, perché si accorge che utilizzando la stessa forma è possibile compiere dei disastri.

Aristotele si accorge come, utilizzando la polisemia, fosse possibile affermare e negare qualunque cosa, perché ciascun elemento offre un tale ventaglio di significati da poter essere utilizzato in qualunque modo.

Vedi Levis immutatio.

 

Non c’è alcun modo di arginare l’operazione dei Sofisti.

In un agone eristico ha la meglio chi sa utilizzare con maggiore efficacia, con maggiore rapidità le varianti che offre il linguaggio.

Anche nella filosofia della scienza oggi c’è chi sostiene che il vero non è altro che ciò che viene sostenuto con maggiore abilità.

Non c’è altro criterio: ciò che dico è vero sino a quando qualcuno non lo confuta.

Ma se il vero è tale soltanto perché qualcuno più abile riesce a provarlo? Che razza di vero è? Quali garanzie offre? Nessuna.

Ma quali garanzie offre qualunque altro criterio?

 

Ci sono tre elementi inscindibili dell’esperienza:

1) riflettere in termini teorici su cosa può trarsi da considerazioni intorno a tutto ciò che può dirsi rispetto al linguaggio;

2) pratica: ciò che facevano i Sofisti nelle piazze, l’agone eristico. Confrontarsi con le proprie acquisizioni, metterle alla prova, cimentandosi con le difficoltà;

3) analisi: confrontare tutto ciò rispetto a ciò che si crede senza accorgersi.

 

Di ciò che si dice dobbiamo stabilire ciò di cui non possiamo non tenere conto per proseguire a parlare e non ciò che possiamo o sappiamo dimostrare.

Ciò che non può essere negato è ciò che necessariamente deve essere accolto.

Non ci interessa ciò che può essere dimostrato perché è la dimostrazione che non può essere dimostrata, per cui non sappiamo cosa farcene di una cosa del genere. Non è possibile dimostrare che la dimostrazione dimostri qualcosa. Dimostra soltanto la correttezza di un metodo.

Attenersi a ciò che non può essere negato indica la presenza di strutture linguistiche che sono tali da consentire di proseguire a parlare o che senza le quali non sarebbe possibile parlare.

 

Gli umani parlano, i parlanti parlano.

È la proposizione che ci consente a riflettere intorno a moltissimi aspetti del sapere, del cosiddetto scibile umano, per esempio la logica, la semiotica.

Dire che “gli umani parlano” è come dire che gli umani sono segno.

C’è parola senza che ci sia segno?

Per Peirce non ha senso che la parola sia senza segno. Così anche per de Saussure.

Gli umani parlano, quindi sono segno di qualcosa per qualcuno.

Paradossalmente, occorre un altro umano perché un tale possa dirsi umano, nel senso che questo sia segno per qualcuno il quale a sua volta sia segno.

Un segno comporta tre elementi: un interprete, un interpretante e un interpretato.

Possiamo negare questa affermazione, che un parlante esiste solo se esiste un altro parlante?

Se così non fosse cosa avverrebbe? Come potrebbe darsi una lingua se non ci fossero almeno due parlanti?

Il due introduce la differenza.

Derrida dice che ciascuno parlando si incontra con la propria voce. La propria voce fa tutt’uno con ciò che dice.

Tuttavia, è perché c’è un ritorno, nel senso di un “differire”, inteso anche come spostare, che può accorgersi del fatto che sta parlando. Altrimenti, questo evento sarebbe talmente presente a se stesso da esaurire lì la sua presenza.

Il due della differenza è ciò che risponde alla domanda “come so che sto parlando, anziché non saperlo affatto?”.

Derrida ci dice che se non ci fosse questa differenza l’atto del dire, in quanto presente a sé, si esaurirebbe lì nel suo atto e non sarebbe in nessun modo presente altrimenti. Per sapere che sto parlando, c’è già un differire, altrimenti la cosa svanirebbe mentre avviene.

In questo differire, di fatto ci sono io che parlo e io che mi accorgo di parlare.

Senza questo differire non potrei accorgermi che sto parlando.

Ciò che chiamiamo “accorgersi” non è altro che l’avere di fronte. Se l’ho di fronte è già diviso.

L’accorgersi è il constatare, il verificare qualche cosa. Il constatare, il verificare qualche cosa è un atto tale che ciò che io constato ha una presenza che può differirsi anziché esaurirsi in se stessa. Si differisce in quanto sposta e si differisce in quanto mostra una differenza.

Derrida pone così, in questo atto del dire, per esempio. Nel dire io mi accorgo di ciò che dico perché in questo ritorno non c’è l’identico ma, dice lui, lo stesso.

Cosa intende? Una cosa molto semplice. Mi accorgo che è lo stesso ma in nessun modo posso stabilire che è identico. So che è lo stesso ma non posso dimostrarlo. Ma se non posso dimostrarlo che tipo di sapere è?

È il tipo di sapere più comune, quello quotidiano. Ma qual è il tipo di sapere che io posso provare? Nessuno.

Io mi accorgo che sto parlando perché mi trovo di fronte al mio stesso dire per via di questa differenza.

Possiamo accogliere questa posizione di Derrida?

Possiamo incominciare a metterla alla prova.

Una domanda che occorre porsi è “a quali condizioni posso sapere qualche cosa?”.

A quali condizioni, però, posso anche chiedermi questa cosa?

La presenza. I latini dicevano l’ecceità, la stessità. La presenza dice che questo è questo e così qualunque altra cosa. Come posso affermare questo? Come posso affermare qualunque cosa?

Se sono parlante sono necessariamente parlante di qualche cosa.

Ciò che possiamo obiettare a Derrida è questo: come parlante come sa di essere tale?

Potremmo rispondere a Derrida è che se non lo sapesse non sarebbe parlante.