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8/11/1995

 

C’era una questione cui ho accennato venerdì scorso alla conferenza, verso la fine. Una questione che riguarda il principio del terzo escluso e il credere. Adesso vi faccio un esempio, voi avete presente grosso modo come funziona un calcolatore, e sapete che esistono dei virus. Di virus ce ne sono di vari tipi, anche questo che è qui nella sede ne aveva uno, una volta. Cosa fanno questi virus? Prevalentemente alterano, ma soprattutto bloccano dei programmi. Cosa vuol dire che bloccano dei programmi? Che impediscono delle connessioni. Il programma è una serie di sequenze, di procedure, dunque impedisce delle procedure, come esattamente questo avvenga poco ci interessa ora. Dunque impedisce una procedura, impedisce una successione, una connessione, cioè un certo elemento non è più in connessione con un altro per cui blocca il programma. Perché questo esempio? Come interviene ciò che si crede? E come si pone rispetto a questo ciò che andiamo dicendo ultimamente? Prendete per esempio queste proposizioni che ho scritte. Lungo queste proposizioni avviene un procedimento (potrebbe avvenire) tale che un certo tipo di connessioni vengono illustrate come, diciamola così, come direbbero i logici, come “non sensi”, sprovviste di senso. Sprovviste di senso in quanto il senso che si vorrebbe loro attribuire non è decidibile, né è possibile stabilirlo. Allora cosa dicevo venerdì? Questo, che il principio di non contraddizione impedisce propriamente che possa darsi simultaneamente l’affermazione e la negazione di un elemento. La procedura linguistica impedisce di fare questo, perché, ammesso che potesse farsi, non direbbe assolutamente niente. Cioè nega qualcosa, ma per poterlo negare deve affermarlo. Ora ci siamo avvalsi a questo scopo della questione da cui siamo partiti, e cioè da questa forma paradossale, negare, per esempio, che sto parlando, non posso negarlo se non parlo. Ecco dunque la formulazione del paradosso che dice, per esempio: non sto parlando. Quindi nega qualcosa, ma negandola è costretto a fare necessariamente, se lo vuole negare, ciò stesso che nega di fare. Ora considerate qualcosa che credo, o posso credere. Cosa è questa cosa che credo, qualunque essa sia? È una cosa che dice di sé che è assolutamente vera, se lo credo so che è così, ma al tempo stesso utilizza, per potere affermarsi, una procedura di verifica che è quella antichissima dell’adæquatio rei et intellectus, dell’adeguamento dell’intelletto alla cosa, cioè io penso una cosa e questo che penso è adeguato alla cosa. E quindi è costretta, per potere affermarsi, ad accogliere questo criterio di verifica, non posso affermare che qualcosa è vera se non ho nessun criterio per poterlo provare, se la stessa nozione di prova non è sostenibile, allora dicendo che una cosa è vera, non sto dicendo nulla; dunque per potere dirsi, questa cosa che credo, da per implicita l’esistenza di un procedimento di prova, qualunque esso sia. La struttura del discorso occidentale in cui ciascuno si trova, vieta invece esattamente il controllo di questa procedura, vieta di stabilire o di accertare di che cosa è fatta questa procedura di verifica della prova o del controllo della verifica della prova. Perché lo vieta? Lo vieta per una questione semplicissima, di cui abbiamo detto molte volte, lo vieta perché è come se cercasse, per potere appoggiarsi su qualcosa di fermo, almeno un elemento considerato fuori dalla parola, perché solo a questa condizione qualcosa può essere isolata, quindi può funzionare come garanzia, come certezza, come prova inconfutabile. Tuttavia, se io mi azzardo a cercare anche un solo elemento fuori dalla parola mi trovo, come abbiamo constatato in ciascuna occasione, di fronte o alla regressio ad infinitum oppure alla petitio principii, cioè o inseguirò all’infinito l’origine dell’origine o la causa della causa, oppure semplicemente la affermerò dicendo che è così perché è così, ma non potendo in nessun modo dare nessun altra garanzia. E allora dicendo che credo x, qualunque essa sia, dico che x è vera, e dico simultaneamente che vero non significa assolutamente nulla. Perché non significa nulla? Perché per significare qualcosa, questo vero che dico, deve poter essere provato, deve potere essere certificato, per la struttura stessa del discorso che mi fa dire che credo x perché x è vera, in altri termini, affermo che una cosa è vera, ma affermando questo non affermo assolutamente niente. Ciò che dicevamo venerdì in effetti va in questa direzione: credere qualcosa, qualunque cosa sia, potremmo dire “credo x” o “credo p”, che è la stessa cosa che scelga come oggetto della credenza un individuo o una proposizione, “credo x” dunque, è la forma stessa del paradosso. Paradosso in quanto viola il principio di non contraddizione che mi impedisce, se intendo dire qualche cosa, di affermare una cosa e il suo contrario. E dicendo che credo x, faccio esattamente questo, affermo una cosa e il suo contrario. Affermo l’esistenza di un principio di verità a cui mi appello e, allo stesso tempo, non posso non affermare che questo principio di verità non c’è. Non c’è utilizzando queste stesse regole e procedure che mi consentono di dire che una certa cosa è vera. Ecco allora, torniamo all’esempio di prima, quello del computer, del virus che blocca il programma e cioè impedisce delle connessioni, delle procedure. Provate a considerare la questione in questi termini, l’affermare quanto abbiamo detto rispetto alla credenza, il credere x, consideratelo come un programma, programma tale per cui ciascuna volta, quando si verifica un certo elemento y, sono rinviato immediatamente a x. Cosa vuol dire questo? Che ciascuna volta in cui si verifica un certo elemento, questo ha un significato tale per cui viene rinviato a x che lo certifica. Immaginate che questa operazione sia impedita, impedita in questo modo: se io credo x, e quindi so che x è vero, allora immediatamente so che per potere affermare che è vero devo potere disporre di un criterio, e a questo punto so immediatamente che questo criterio deve essere verificato da un altro criterio, il quale a sua volta deve necessariamente essere verificato da un altro criterio, il quale a sua volta ecc. quindi che cosa so? So che questa affermazione è nulla, non dice nulla, cioè non può essere accreditata così come il discorso che sto facendo vorrebbe, questo non posso farlo, non posso stabilire un criterio di verità, e dunque ciò che sto facendo è altro, non è questo. Allora in questo modo questa connessione è impedita. Allora credo x, ma immediatamente, sempre seguendo questo esempio, il virus blocca tale connessione: credo x, quindi x è vera, ma credo x e quindi...e quindi niente, quindi credo x, e rimane “credo x”. Perché questa altra proposizione, che afferma che x è vera, e impedita, non può più farsi, il programma, come dicevamo prima, è bloccato. È bloccato dal considerare che, dicendo che credo x e quindi x è vera, questo “quindi x è vera”, non può darsi, perché non significa più nulla. X è vera rispetto a che? Chi la certifica e chi certificherà ciò che la certifica? Queste sono procedure linguistiche, ma abbiamo constatato che fuori da queste non possiamo uscire, solo di queste possiamo avvalerci. Ora si può dire di credere x, y, tutto quello che pare, ma si rimane esattamente con ciò che si è detto, che in nessun modo può essere garantito da altro fuori di ciò che sta dicendo. Un altro modo per approcciare la questione della responsabilità. Se io dico che x, e che credo x, e so che questa x è necessariamente vera, allora non sto facendo altro che testimoniare un supposto dato di fatto, ma se credo x, e non ho nessun rinvio a nessuna proposizione che possa garantirmi questa “x è vera”, mi ritrovo con il mio “credo x”. E allora? E adesso che facciamo? Credo x, e va bene. Va bene nel senso che possiamo prendere atto di questo, ma non c’è nulla che mi sottragga dalla responsabilità di affrontare ciò che credo, in nessun modo perché, di nuovo, questo programma dovrebbe invece consentirmi di essere soltanto spettatore di ciò che considero, oppure si suppone che quello che immagino si ponga come se fosse un dato di fatto. Questo non può più attuarsi, non è più percorribile, non può più farsi. Ciò che ho cercato di fare scrivendo queste proposizioni è qualcosa del genere, che ci sia riuscito oppure no questo è un altro discorso, ciononostante è una traccia, un avvio, un percorso che può andare in questa direzione, che può costituire una struttura, può inserire (fin dall’inizio parlavo proprio di questo) elementi tali per cui questa connessione non possa più farsi. Se questa connessione non può più farsi, allora non è che cessi di credere questa cosa e sia prontissimo a credere qualunque altra, non posso più credere. Posso dirlo che credo x, ma mi troverò sempre necessariamente di fronte a questa proposizione che afferma se stessa, e quindi è con questa che mi confronterò. Perché affermo x? Cosa mi comporta? Cosa implica? Dove conduce? Quale direzione sta ponendo ciò che dico? Quali altre questioni evoca? Questo e altro ancora posso domandarmi, ma non posso in nessun modo sbarazzarmene pensando che credo x, semplicemente perché x è vera, sono sempre di fronte a ciò che dico. È come un’asserzione che, come dicevamo, continua a interrogare, mentre se io credo x e quindi x è vera, questa non mi interroga più, è così e tanto basta. Se questa connessione, questo passo è interdetto, non è più possibile credere. Allora questa operazione non riesce più. Questione questa non da poco, perché in effetti ne va di ciò che ciascuno prevalentemente pensa, e soprattutto del modo in cui pensa, la struttura del discorso in cui si trova, per cui esiste. E quindi direi che mette in gioco l’essenziale con cui ciascuno si trova continuamente e quotidianamente a fare i conti. Cioè con ciò che crede, e ciò che crede non è cosa da poco, come dicevamo è ciò per cui si muove, per cui fa o non fa, per cui si conduce ad un certo modo anziché in un altro. Facevamo un esempio, se fossi un integralista islamico, mi comporterei in un certo modo, assolutamente differente da un libertino parigino. Una questione straordinaria che mi è stata suggerita nei termini, così come li espongo adesso, da un fatto recentissimo. Il ragazzo che ha sparato a Rabin a bruciapelo, ha sparato perché dio glielo ha ordinato: dio è con me oppure dio è con noi, come dicevano i nazisti, curioso che la stessa formulazione sia usata da un ebreo, ironia della sorte. Dunque dio me lo ha ordinato. Adesso vi pongo un bel quesito: quando io affermo che credo x, affermo anche, sempre e necessariamente, che lo sappia oppure no, che lo affermo perché dio me lo ha ordinato? Bella questione, cosa stiamo dicendo con questo? Stiamo dicendo questo, facciamo qualche passo indietro: io credo x, quindi x è vera. Nulla al mondo, e neanche fuori, può garantire quello che dico, a meno che, lo sappia oppure no, lo voglia oppure no, reinstauri un qualcosa che da solo possa garantire questa mia affermazione. Qualcosa che è sempre necessariamente vero, che è indubitabile e fuori dalla parola, cioè non è soggetto alle procedure linguistiche, se no sarebbe o una procedura linguistica o un effetto di una procedura linguistica e, come tale, non ponibile in nessun modo come garanzia e, a questo punto, ci chiederemmo che cosa garantisca questa procedura, quindi deve essere qualche cosa del quale possiamo dire, o del quale non possiamo chiederci che cosa lo garantisca. E allora, se io affermo che x, affermo x e aggiungo anche che x è vera, cosa sto dicendo esattamente? E se lo accolgo, anche come paradosso, allora sono impedito a procedere a credere questo, perché lo accolgo appunto come una formulazione paradossale, un non senso, se invece non lo accolgo come paradosso, allora se io affermo che x esiste, posso farlo soltanto se dio me lo ha ordinato. Se e soltanto se dio me lo ordina, allora posso farlo, esattamente come ha ordinato a quel ragazzo di sparare tre pallottole nella pancia del signor Rabin. Dunque stiamo aggiungendo un elemento non marginale in tutto ciò che abbiamo detto ultimamente, e cioè io posso credere x, posso credere che x è vera, se e soltanto se me lo ha ordinato dio, solo a questa condizione posso affermare x, e dire che x è vera. E a quel punto cosa succede? Succede, come avviene sempre in questi casi, che una qualunque obiezione scateni una guerra di religione, una guerra santa, perché non accolgo che ciò che sto affermando è una formulazione paradossale e quindi non sostenibile, quindi soltanto un’espressione linguistica. Questa certamente produce delle cose, ma queste cose non hanno nessuna garanzia fuori dalla parola e quindi devono essere confrontate con altre parole, che è ciò che avviene esattamente nel corso che stiamo facendo, se non si da tutto questo, allora io posso affermare x, dicevamo, se e soltanto se dio me lo ha ordinato, cioè se io immagino che esista una garanzia assoluta, fuori dalla parola, che come tale può dire che qualcosa esiste senza essere sottoposto né sottoponibile a nessuna procedura, a nessun criterio linguistico, se no appunto....

-Intervento: l’intervento di questo elemento, cioè dio...

C’era scritta, fuori di una chiesa, a caratteri cubitali, proprio fatta dal sacrestano questa frase: “Dio ti vuole parlare, da uomo a uomo”. Già il fatto che se una è una donna... poi “come uomo”? O è dio o è uomo. Dobbiamo dire che allora in quel momento non è più dio? Se non è più dio, è fallibile, se invece è sempre dio, allora non è uomo. Un bel problema teologico, non so come se la sia cavata il sacrestano.

-Intervento: Questo “credo x”, non è giustificabile, l’affermazione “credo x”, presuppone questo elemento? Non solo interviene a posteriori a giustificare...cioè, io credo questo, perché comunque questo elemento è già dato.

Si, fa parte del programma di procedure che mi consentono di affermare una cosa del genere, però non è che sia presente nel pensiero, è presente la possibilità, diciamola così. Cioè le procedure del discorso in cui mi trovo lo consentono. Poi posso accorgermene, certo, ma il più delle volte non ci si accorge assolutamente di nulla.

-Intervento: Dio me lo ha ordinato interviene a giustificare, come elemento estremo.

Si, oltre a questo possiamo anche affermare quest’altro, sempre attenendoci al criterio che ci sta muovendo e cioè dire soltanto ciò che non possiamo non dire: se io affermo che una cosa è questa, e non posso in nessun modo provarlo, attenendomi alle stesse procedure che me lo hanno fatto dire, allora necessariamente, per dire questo devo immaginare un altro elemento, dio, non c’è altra possibilità...

-Intervento: Funziona come il “ça parle” di Lacan... c’è qualcosa che parla, ma c’è qualcosa che ordina in questo caso.

Certamente che se dio me lo ordina...infatti quel ragazzo non si ritiene responsabile, in un certo senso, anzi sembra che abbia rimproverato severamente i giudici che lo stavano interrogando dicendo loro che non conoscono la Bibbia, perché la Bibbia ordina che se qualcuno tradisce o vende le terre di Israele deve essere ucciso. Siccome Rabin stava facendo questo al suo paese, quindi doveva essere ucciso. E così ha fatto.

-Intervento: Questo “credo x”, presuppone dio?

Si, certo, è una questione che va affrontata, su cui occorre riflettere.

-Intervento: Dio è come se intervenisse a rinviare ciò che sta dicendo, perché non c’è arresto in qualche modo. Il fatto che venga presupposta...

È come se dicesse: non si arresti a ciò che dico, ma si arresti a ciò che voglio significare, cioè al referente di ciò che dico.

-Intervento: Diventa la possibilità di poter ridire.

Si, certo, si, perché la cosa in sé è sempre la stessa.

-Intervento: In questo caso come garante?

La questione è interessante, se questa sia una presupposizione...

-Intervento: Può riprendere quello che Lei diceva all’inizio, se io credo vero...

Come faccio, se c’è una questione precisa... Da dove siamo partiti? Dall’esempio del computer, qualche cosa che impedisce una connessione, una connessione che può essere quella tra, “credo x” e “x è vera”, (quindi x è vera, se lo credo so che è così). Cosa sto dicendo, dicendo che so che è così? Ora in che modo impedisce? Il modo è quello, dicevamo già venerdì, che vieta il negare che sto negando qualcosa nel momento stesso in cui lo nego, così per esempio la frase che dicevo prima afferma che non sto parlando, ma per poterlo affermare devo dirlo e quindi nego ciò che di fatto sto facendo. Questo l’impedisce in quanto non porta da nessuna parte, nel senso che è come se arrestasse un percorso, come se chiedessi a qualcuno: per andare a Roma vado di qui o vado di là? E l’altro rispondesse: deve andare di qua e di là. Allora resto fermo, infatti dicevano che il principio di non contraddizione impedisce l’arresto del discorso, che il discorso non abbia nessuna direzione. Impedisce l’arresto del discorso, è una procedura che dice che ciò che arresta il discorso non può farsi. Ora il credere qualche cosa, dicevamo che ha una struttura tale per cui funziona esattamente, questo impedimento che impedisce di credere qualcosa, così come il principio del terzo escluso impedisce che possa affermarsi una cosa e negarla simultaneamente, perché questo? Perché dicendo che credo x, dico che x è vera, e come posso dire che x è vera? Devo avere un criterio secondo il quale io posso dire che qualcosa è vera, che qualcosa può essere vera, se no non posso dire che x è vera, non significherebbe nulla. E quindi dire che x è vera è affermare che una cosa è vera, ma al tempo stesso in questo stesso discorso impedisce, per la sua struttura, di provare che qualcosa è vera, quindi certificarlo, e allora dire che credo x, o che x è vera di fatto non significa nulla, assolutamente nulla, perché sto affermando una cosa che la stessa procedura del linguaggio mi vieta di affermare. E cioè di stabilire che qualcosa è vera, ma non posso dire che x è vera se non ho stabilito che cos’è il vero.

-Intervento: Su cosa si basano questi criteri?

Le cose in cui ciascuno crede? Questa è una bella domanda, non è facile rispondere, però alcune cose sono state dette e altre possono dirsi, in effetti tutto ciò ha una funzione, mira con assoluta precisione in una direzione, che è quella di sbarazzarsi dalla responsabilità di ciò che si dice. Che apparentemente può avere dei vantaggi, apparentemente, l’unico vantaggio, dicevamo forse venerdì scorso, se vogliamo proprio portarla alle estreme conseguenze, è quello di non sentirsi soli. Non ce ne sono molti altri, non sentirsi soli vale a dire che si accredita e si partecipa di una struttura molto antica, che è condivisa, quindi ciascuno pensa che sia così, se anch’io penso così allora penso come tutti.

-Intervento: Non si basa sull’istruzione, sull’educazione?

Questo è nel discorso comune. Queste sono quelle strutture istituzionali che hanno la funzione di mantenere lo status quo. Cioè le cose come stanno, la scuola ha primariamente questa funzione, di mantenere la possibilità che qualcosa sia credibile, di mantenere la convinzione che qualcosa sia credibile, poi viene fatto questo inserendo qua e là delle informazioni, ma le informazioni che si acquisiscono a scuola potrebbero acquisirsi in pochissimo tempo e con molto minore sforzo, l’addestramento di cui si tratta è un altro, lo disse poco tempo fa il vostro presidente Scalfaro, oppure la vostra “ex ministra” Iervolino Rosa, disse che la scuola è soprattutto scuola di vita. Scuola di vita, ma deve insegnare che cosa? I valori, quindi deve insegnare a credere. Scalfaro disse: il peggiore crimine è quello contro la verità. Questo è il vostro presidente...Dunque la scuola in effetti ha la funzione di insegnare a vivere secondo i criteri e i modi stabiliti dalle istituzioni, e cioè da ciò che è creduto dai più, in definitiva dal discorso religioso o da quello scientifico se preferite, sono la stessa cosa...

-Intervento: Il disagio...

Cercano di gestire questo disagio, e allora per esempio la chiesa si è occupata della gestione della sessualità. Si è appropriata della sessualità facendone un argomento che può trattarsi soltanto entro certi limiti, entro certi modi. Tant’è che praticamente vieta a tutt’oggi ogni rapporto sessuale che non abbia scopo procreativo, quindi un controllo assoluto. Ma al di là di questo importa anche perché questo possa funzionare, e cioè che le persone credano, se la chiesa o il governo o qualunque altra istituzione dice delle cose e nessuno ci crede, è un problema, quindi la prima cosa da farsi è che sia mantenuta, consolidata e resa inevitabile la necessità che qualcosa sia creduta vera. Cioè che credere non sia non solo possibile, ma inevitabile, necessario. La gente non crede più, magari, e invece...

Intervento: Apatico...

Apatico, senza sofferenza. Ma il pathos non è proprio la sensibilità, la sensibilità è l’estesia, l’apatia è l’assenza di sofferenza, così come l’atarassia è l’assenza di turbamento, l’aponia è l’assenza di dolore, l’afasia l’assenza di parole...

-Intervento:...

No, tant’è che le cose che andavo scrivendo qui, come dicevo all’inizio attraverso questo esempio, dovrebbero condurre propriamente a impedire non tanto di credere questa o quella cosa, ma di credere, di rendere impossibile il credere qualunque cosa, proprio la struttura del discorso che consente di credere è ciò che consente di credere, dicevamo la volta scorsa e chi ci ha condotti nel discorso, ciò che consente di credere è soltanto questo, che dio me lo ordini, null’altro che questo.

-Intervento: sui significanti guerra e pace e quindi amore e odio.

Perché quindi amore e odio? Come è avvenuto questo passaggio? Contrapposti si, invece giustapposti sono un ossimoro: è una figura retorica che consiste appunto nella giustapposizione di due termini considerati antonimi, cioè opposti tra loro (ghiaccio/ caldo).

-Intervento: il vero e il falso sono un ossimoro?

No, sono contrapposti, non sono un ossimoro, sono una contrapposizione, un’antitesi.

-Intervento: Differenza fra due cose contrapposte e giustapposte?

Giustapposte indica che sono contigue e non c’è nessun elemento che segnali una contrapposizione fra loro, cioè come se fossero riferite esattamente alla stessa cosa, quindi bianco e nero, una cosa non può essere bianca e nera simultaneamente, e se invece noi diciamo bianco o nero questo non è un ossimoro, perché li teniamo contrapposti...

-Intervento:...

Si, l’ossimoro come figura retorica produce un effetto nel giustapporre termini che generalmente sono considerati contrapposti, contrari fra loro, ma dicendoli contrari fra loro non si produce un ossimoro, non c’è nessun effetto retorico. Se io dico per esempio un criterio vero o falso, non è un ossimoro perché rimangono contrapposti, se invece dicessi: questa cosa che ho detta è vera/falsa, allora farei un ossimoro, perché indicherei questi due elementi come simultanei e giustapposti tra loro, non più come contrapposti quindi, presi nella simultaneità, indicano una cosa e il suo contrario. L’ossimoro consiste nell’attribuire a un sostantivo un attributo semanticamente opposto...

-Intervento:...

Si contraddittorio. Il principio di non contraddizione proibisce di costruire affermazioni contraddittorie per i motivi che ho detti prima, e cioè che affermandola direi due cose assieme. Ora la questione, così come la poniamo noi è in termini molto più radicali, perché non posso dire simultaneamente due cose per esempio ma una sola, non posso dire due cose contemporaneamente, e dicendo una cosa ho detta quella e non un’altra e non posso dire libro e posacenere simultaneamente, ci posso provare, ma non c’è proprio la possibilità di dirlo. Libro, posacenere, per dire queste due cose devo dirle in due momenti differenti, posso dirle nello stesso istante? Non posso farlo, non nello stesso istante. Prima dicevamo contrapposte, poi giustapposte e adesso sovrapposte...Stiamo affrontando questo, ciò che ciascuno si trova a fare senza accorgersene, continuamente nell’arco della giornata, anche per le cose più irrilevanti, dalle cose più sorprendenti a quelle più banali, è come se stabilisse non soltanto ciò che è connesso a ciò che crede in quel momento, ma determinante per il modo in cui pensa, il modo in cui si muove, per tutto ciò che in definitiva è quel tizio, che è esattamente quello che crede. (Intervento... ciò a cui si crede) Si è questa la questione perché come posso intervenire se credo che è così e so che è così, che cosa mi resta da interrogare? È così ed è così. Questo è questo. Se invece una struttura mi impedisce di affermare che questo è questo, nel senso che mi dice che affermare questo non significa niente, allora si, che esistono le condizioni perché possa interrogare questa affermazione, se no è come se dicessi: io non c’entro, la cosa è così e io posso soltanto dirla, non posso fare altro, e invece in quest’altra guisa io lo affermo, ma affermandolo qualcosa mi impedisce di stabilire che è così perché è così, e dunque mi ritrovo con ciò che ho detto, e quindi con che cosa comporta, che cosa mette in gioco, cosa implica, e tutta una grande quantità di cose che altrimenti sarebbe inaccessibile, perché ho soltanto detto come stanno le cose e quindi non c’è altro da aggiungere. Le cose stanno così, che cosa interrogo, se è così perché è così? Una verità sub specie æternitate. Dunque, se un elemento fosse fuori dalla parola io non potrei nulla con questo elemento, sarebbe identico a sé, sarebbe un non piccolo problema se fosse fuori dalla parola, come potrei conoscerlo?

Intervento:…

intanto occorre accorgersi che è qualcosa che credo anziché essere la realtà, cosa che non va così da sé. Semplicemente tenendo conto che la realtà in quanto tale non esiste. Abbiamo fatto una rassegna di tutte le affermazioni di un certo interesse degli ultimi tremila anni e le abbiamo confutate, ma come esercizio, giusto per accorgerci che di fatto nulla è sostenibile in quanto tale (Intervento...) Si perché rispetto a una cosa che credo, ad un certo punto interviene qualche cosa che mi dice che non è così, io non posso più credere -Intervento: Lei dice interrogare quel che si crede, ciò che si crede interviene già come risposta a un’interrogazione, si tratta di interrogare ciò che si crede ma per avvertire qual è l’interrogazione.

Per “ristabilire” potremmo dirla così, tra virgolette, per ristabilire, per ripristinare la domanda, che sarebbe ciò che Heidegger chiama l’interesse (ciò che si crede interviene come un modo per arrestare il rinvio della domanda, quindi l’adeguamento per esempio, ciò che si crede è qualche cosa che, rispetto alla domanda, si pone come adeguamento, come risposta e che ha bisogno di tutte queste procedure per potersi sostenere, allora a questo punto si tratta di interrogare ciò che si crede per accogliere quella che è la domanda, quindi ripristinare...è chiaro adesso, bene.) Se si instaura questo percorso è chiaro che la formulazione “credo x”, si pone sotto forma di interrogazione, credo x quindi cosa faccio con questo? È chiaro che possono intervenire altre credenze, però ciascuna volta è facile accorgersi quando interviene, e ci si accorge immediatamente perché si considera che qualcosa è così, cioè nel dire che questo è così, già lì c’è qualcosa...

-Intervento...

... entrambe le cose perché in effetti si tratta di instaurare una sorta di procedura anziché interrogare tutta una serie di cose per arrivare alla fine...come quando si apprende a calcolare, una volta che si sa come si moltiplicano i numeri tra loro non si tratta di moltiplicarli tutti per saperli moltiplicare, imparata una procedura si fa così, non è che ci si debba mettere lì a considerarli tutti...