INDIETRO

 

 

 

Mercoledì 6 giugno1995

 

 

Duemilacinquecento anni fa, Gorgia, eleate, che stava in Sicilia, nella Magna Grecia, disse così:

Nulla è, se qualcosa fosse non sarebbe conoscibile, se fosse conoscibile non sarebbe comunicabile.

Questo nulla è tiene conto del fatto che “ciò che è” è propriamente il logos, la pa­rola. Nulla è fuori della parola.

Ciò che abbiamo detto recentemente, intorno al produrre proposizioni, e cioè che queste non possono negarsi salvo negare la possibilità stessa di negare o di affermare alcunché, è un’altra formulazione della stessa proposizione: nulla è fuori della parola.

Cosa vuol dire questo? Vuol dire e dice una cosa di straordinaria importanza, cioè che qualunque cosa possa farsi, non farsi, dirsi o non dirsi, tutto ciò avviene nella parola. Non c’è vita fuori della parola, non c’è niente fuori della parola.

Questo ci induce a affermare che, se non ci fossero i parlanti, il mondo non sa­rebbe mai esistito. Può suonare paradossale, tuttavia è sufficiente riflettere su questo, che esistere intanto comporta che questa esistenza sia tale per qualcuno, cioè che qualcosa sia segno di qualche cos’altro per qualcuno. Se nulla è segno per nessuno, cosa significa a questo punto che qualcosa esiste? Assolutamente niente.

È un passaggio dal pensiero metafisico al pensiero non metafisico quello che occorre compiere. Il pensiero metafisico dice che il mondo esisterebbe comunque anche senza i parlanti e che le cose esistono al di fuori della parola.

Ma fuori della parola posso dire tutto ciò? Evidentemente no. E allora ci tro­viamo nuovamente di fronte alla necessità di stabilire che cosa è vero o che cos’è il vero.

È una questione fondamentale dal momento che affermare che il mondo esiste anche senza i parlanti questa proposizione asserisce di sé che è vera. Per la meta­fisica questa asserzione è vera. Dunque, siamo costretti a riflettere intorno a que­sto: che cos’è il vero? E, allora, adesso lo diciamo.

“È vero ciò che è tale indipendentemente da ciò che se ne dice e da chi ne dice ma è vero per sé”.

Proviamo a confutare questa proposizione che afferma che qualcosa è vero “di per sé”.

Se qualcosa è vero di per sé, è vero indipendentemente dalla parola, è vero fuori della parola. Ma per stabilire che qualcosa è vero, occorre che io lo provi oppure no? Questo naturalmente rispetto a un pensare che si vuole fondato o che cerca di fondarsi, di darsi un fondamento. Allora deve dimostrarsi, altrimenti rientra nell’ambito della credenza. Questo non ha nessuna validità obiettiva, come dice la metafisica. Perché abbia una validità obiettiva occorre che sia provabile. Solo a questa condizione posso dire che una certa proposizione asserisce il vero.

Come si prova che qualcosa è vero?

Naturalmente per fare queste operazioni occorre che io abbia già necessariamente un criterio del vero. E chi me lo ha fornito? Da dove viene? Occorre che qualche cosa sia intervenuta per persuadermi che un certo criterio di vero sia vero. Quindi, in questo senso occorre un vero che certifichi un vero.

Avete immediatamente qui una misura di ciò che potrebbe accadere in questa regressio ad infinitum lungo una ricerca di un criterio del vero, un criterio per sta­bilire a quali condizioni io possa affermare che qualcosa è vero. Oppure, imma­gino che sia innato negli umani. Supponiamo che sia innato. Se io non sapessi nulla di questo vero, il vero sarebbe qualcosa di cui non ho alcun accesso. Occorre dunque che ne sappia qualcosa. Come lo so? Lo so attraverso un sistema, una struttura, cioè attraverso il linguaggio.

Questo linguaggio è qualche cosa che consente al vero di manifestarsi in quanto tale oppure è il linguaggio che lo produce?

Per l’innatismo il linguaggio è soltanto ciò che mi consente di esibire questo preesistente. Dunque, il linguaggio, le parole come mezzo per esprimere ciò che natu­ralmente so. Ci troviamo qui di fronte a un problema simile a quello precedente. Esprimere ciò che naturalmente so: come lo so? Attraverso il linguaggio. Qualunque cosa io voglia affermare o dire necessariamente la affermo e la dico attraverso il linguaggio. Posso sapere qualcosa senza una struttura che mi con­sente di sapere? No, senza una struttura, potremmo dire semiotica, per cui qual­cosa è segno per me di qualche altra cosa, per me che pertanto mi costituisco a mia volta come segno.

Nulla è, dicevamo, fuori della parola. Nulla è in quanto non posso sapere nulla fuori della parola, nemmeno di essere fuori della parola. Nemmeno questo posso sapere.

I segni sono nel linguaggio. Il linguaggio è costituito da segni. Chiedersi chi ha dato il linguaggio, è qui una questione complessa. Per il momento ci stiamo in­terrogando su una semplice constatazione, il prendere atto dell’esistenza del lin­guaggio e l’impossibilità di uscirne. Chiederci chi abbia costruito, inventato il lin­guaggio è una questione che si può porre proprio perché il linguaggio esiste, per­ché si dà. Ma non siamo ancora a questo punto. Siamo alla semplicissima consi­derazione che ci dice che non c’è uscita dal linguaggio.

Detto questo, di cosa si occupa la sofistica?

Si occupa di cogliere esattamente e di costruire tutto ciò che può costruirsi, inventarsi e giocarsi, tenendo conto unicamente delle regole che costituiscono il linguaggio. Qualunque altra asserzione è provvisoriamente accantonata come non necessaria, non deducibile dalle regole del linguaggio e quindi dell’ordine della credenza, della superstizione. Cosa possiamo trarre unicamente dalle regole del linguaggio?

Dicevamo che i parlanti parlano. I parlanti parlano e non possono non farlo. Questa è la questione centrale. Se potessero non farlo, potrebbero situarsi, almeno per un istante, fuori della parola.

Il dire che i parlanti parlano e non possono non farlo dice una cosa sorprendente. Tra l’altro è un altro modo di formulare ciò che dicevamo prima, cioè che non c’è uscita dalla parola. Perché non possono non farlo, perché i parlanti non possono non parlare?

È una questione di una semplicità sconcertante. Non possono non farlo in quanto parlanti, cioè in quanto dicenti qualche cosa. Proprio parlando non pos­sono dire di non parlare. Possono tacere, ma questo tacere in che senso non è fuori della parola? In questo senso, per porsi fuori della parola occorrerebbe che nulla fosse più segno di nulla. Dunque, in questo caso anche il tacere non sarebbe più nulla, assolutamente nulla. Pertanto, non potrei nemmeno pensare di tacere.

C’è qualche cosa in tutto ciò che rende conto di qualche cosa di piuttosto bizzarro, intanto apre la strada a queste argomentazioni note come sofismi. Del sofisma potremmo dire questo, che è l’avvertire, il cogliere il gioco della parola, che è nella parola e della parola, senza altro riferimento che questo, il gioco della pa­rola.

Dicevamo del vero, dell’idea che possa darsi il vero fuori della parola.

Tenendo conto di ciò che abbiamo detto, se fosse fuori della parola, non sarebbe vero, nemmeno falso, ma assolutamente nulla, il nulla totale, assoluto e irrever­sibile, di cui non è possibile dire, di cui non è possibile pensare alcunché. In que­sto senso si può leggere il divieto di Parmenide. Cosa dice Parmenide? Che il non essere non è, su questa strada vi esorto a non proseguire. In questo senso, che ciò che non è, vale a dire ciò che è fuori della parola, non possiamo nemmeno dire che è nulla, perché già ne diciamo qualcosa. È questo che vietò Platone. Dicendo che il non essere è, già ne dico qualcosa e quindi è qualcosa. Ma la questione va presa in termini assolutamente radicali, in modo preciso.

Dunque, stiamo dicendo di qualcosa di cui in nessun modo è possibile dire. Tuttavia, ne stiamo dicendo, ma cosa ne stiamo dicendo? Stiamo dicendo qual­cosa che appartiene comunque alla parola.

Tutto ciò appena per accennare a come, in quali termini escludo che qualcosa possa darsi fuori della parola, strutturalmente.

Heidegger lo aveva colto con molta precisione. I sofisti lo avevano colto prima di lui. Una volta che la parola si instaura non c’è possibilità di ritorno. È un pro­cesso irreversibile.

Stiamo ancora riflettendo intorno a strutture piuttosto astratte. Mano a mano intenderemo, soprattutto negli incontri del mercoledì, come tutto ciò possa prati­carsi in ciascun atto, come poi di fatto ciascuno incontri queste questioni, alle volte evitandole, immaginando che debba esserci qualche cosa fuori della parola.

Ora, chiunque pensa che le cose esistano anche se fossero fuori della parola, esisterebbero comunque. Dicevamo prima che questa è propriamente la formulazione della metafisica o anche del pensiero religioso, di qualunque pensiero che ritenga di sé di essere fondato fuori della parola.

Diciamo in termini un po’ animistici: non ci sarebbe nulla di cui io potrei dire di accorgermi. Che cos’è l’accorgersi? Pongo la questione, dicevo, in termini animi­stici, nel senso che si immagina in qualche modo che comunque ciò che è inse­rito in struttura linguistica, cioè semiotica, esista altrettanto bene fuori da questa struttura.

Generalmente, si attribuisce la nascita della parola, nascita della parola intesa qui come la parola che riflette su se stessa, con i Greci, con i presocratici. Prima c’e­rano i lirici, c’era Omero. Rispetto a prima ancora non ci sono testimonianze at­tendibili. Noi possiamo considerare le cose così come le incontriamo, a noi inte­ressa il linguaggio in cui ci troviamo. Di ciò che fosse il linguaggio tre milioni di anni fa possiamo dire tutto ciò che vogliamo.

La questione da dove venga il linguaggio è una questione che non ha nessuna soluzione.

Non c’è nulla fuori della parola nel senso che fuori della parola non c’è nulla che possa essere qualcosa, cioè non si pone il questo e il quello. Non ponendosi que­sto, non ponendosi cioè la possibilità di un rinvio, mi trovo in un’impossibilità. Posso anche dire di avere una sensazione. Supponiamo che io abbia una sensa­zione: non posso dirne nulla, non posso nemmeno dire che ho una sensazione.

E qui torniamo alla questione di prima. Se di qualcosa non posso dirne nulla, non posso saperne nulla, di questo qualche cosa, cosa diciamo che è?

Non c’è modo di sapere da dove viene il linguaggio. C’è l’eventualità che anche se per assurdo lo sapessimo, questo non cambierebbe nulla, nel senso che in ogni caso ciò di cui si tratta per ciascuno è il confronto con qualcosa che lo fa esistere.

 

È una questione che non potremmo nemmeno porci o che potremmo porci così come possiamo porci le domande intorno all’esistenza. Rispetto a questo pos­siamo dire qualunque cosa ma ciò che a noi interessa comunque è che ne di­ciamo. Ci importa intendere quali sono gli effetti di questa considerazione, cioè che comunque ne diciamo.

È una domanda che posta così non può dirci nulla. Non può dirci nulla né illu­minarci in nessun modo.

Per cui possiamo dire che è avvenuto così, oppure è avvenuto in un altro modo oppure fare qualunque altra congettura.

Noi stiamo dicendo questo, che se di qualcosa io non so nulla, non ho la possibi­lità di saperne nulla, nel senso che, non potendone sapere, questo sapere è sapere di niente. Anzi, non è nemmeno più sapere perché se è sapere di niente non è nemmeno sapere.

E allora che ne è, per esempio, di una sensazione di cui non posso sapere nulla?

Diciamo che non si pone neppure la questione se esista oppure no, perché non può porsi di fatto la questione in nessun modo. Non potrebbe porsi la questione dell’esistenza o della non esistenza, né della sua percepibilità o della non percepibilità.

Questo è ciò che dicevo prima rispetto al criterio di esistenza delle cose: le cose esistono in quanto esistono per qualcuno per cui esistono, cioè qualcuno che dice “esiste”. Si tratta, allora, di provare a pensare chiaramente in modo differente. Il detto di Parmenide per cui di ciò che non è, di fatto non posso dirne nulla. Non posso dirne perché, se non c’è la parola, non c’è proprio, né posso neanche chie­dermi se c’è oppure non c’è.

Ciò che gli umani hanno pensato, almeno da Platone in poi perché i presocratici andavano più cauti al riguardo, è la necessità di stabilire un qualche cosa che ci sia assolutamente, indipendentemente dal dirne. Ed è ciò che tenta Platone nel dialogo Il Sofista quando si pone di fronte alla questione per cui se qualcosa non è non posso farne niente, non posso trattarlo in nessun modo, perché non so nemmeno che esiste, perché se so che almeno esiste questo è già qualche cosa, è già in qualche modo accolto. Altrimenti non posso nemmeno pormi la do­manda.

È questo che ha scombussolato Platone e a cui ha tentato di dare una risposta, come sapete, costruendo l’idea dell’alterità, qualcosa che non è né l’essere né il non essere ma qualcosa che è a metà, una sorta di via di mezzo.

 

“Vedo che sono differenti”. Come lo so?

Dalla forma? Occorre già avere una nozione di forma, un concetto di forma. Occorre che questa nozione di forma in qualche modo esista per me.

Cosa mi fa dire che due cose sono diverse? Cosa stiamo dicendo quando diciamo che due cose sono diverse?

Ciò che si tratta di mettere in gioco qui sono proprio le asserzioni più semplici, più banali, più ovvie, più scontate, tutto ciò che a nessuno passerebbe mai in mente di discutere, di mettere in gioco. Per questo riprenderemo anche molte cose di Wittgenstein che su questo di fatto si è molto soffermato.

Questa differenza è insita nelle cose oppure no?

Questa differenza è tale per qualcuno.

La questione che pone la metafisica è questa: questa differenza è tale che esiste anche se non c’è nessuno? La metafisica dice di sì, questa differenza comunque permane. E perché dice di sì? Perché si accorge, per esempio nella metafisica scolastica, Tommaso è moto attento su questo, che se questa differenza non fosse nelle cose ma soltanto in chi le vede, allora, questa differenza non è più nelle cose ma in colui per cui esiste questa differenza. Questione importantissima per­ché a questo punto ha delle implicazioni che a primo acchito possono sfuggire. Dunque, tale differenza è tale per qualcuno, il quale ha già questa nozione di dif­ferenza o in sé oppure l’ha acquisita...

Poniamo la questione in questi termini: cosa vuol dire propriamente notare qualche cosa di diverso?

Non è forse vero che qualunque animale distingua un suo simile da un altro? Lo distingue e distingue anche ciò che può mangiare da ciò che non può mangiare. E così distingue ciò che può bere da ciò che non può bere. Quindi, se ha sete si rivolgerà a un rivo d’acqua e non a un masso di cemento. Eppure, è fuori della parola, però distingue. Dunque, la distinzione è fuori della parola.

Adesso facciamo la parte avversa. Dice bene quello di prima a affermare questo, ma non tiene conto di un elemento, che ciò che avviene in questo caso, ad esem­pio per un insetto, qualunque cosa avvenga non è una differenza, non è una di­stinzione. Perché la distinzione, la differenza è un concetto che gli umani cono­scono e a cui gli umani possono attingere attraverso un sistema, una struttura di raffronto fra le cose. Senza questa struttura non possono parlare.

(CAMBIO CASSETTA)

Non può porsi il cane la questione se può o non può bere, non può affermare nulla. E allora per gli umani il cane beve alla fonte, per un altro cane no. Sta qui la differenza.

E allora o gli umani, attraverso il linguaggio, possono cogliere la struttura dell’universo perché il linguaggio è uno strumento che consente loro di esprimere unicamente i fatti, le cose come stanno, oppure no. Oppure le cose come stanno non possono dirsi. In questo senso non esistono, esiste ciò che io ne dico. Ciò che attiene fuori della parola, non essendo dicibile, non è pensabile e in alcun modo può domandarsene alcunché.

E, allora, ecco possiamo fare l’esempio del sasso che cade: che io parli oppure no il sasso continua a cadere. Ma il sasso cade?

Possiamo avvalerci anche di alcune argomentazioni di un certo interesse, come quelle di Sini per esempio. Noi non possiamo dire che il sasso cade se non potessimo inserire questo evento fuori dalla parola.

Le affermazioni intorno per esempio alla deriva dei continenti sono afferma­zioni che hanno la stessa struttura di quella per cui “il sasso cade”. Vale a dire, sono proposizioni che dicono della natura delle cose, di quella che i greci chia­mavano physis, anche se la physis per loro non era esattamente ciò che è diven­tato in seguito. Anche per Aristotele, tutto sommato, non era così, cioè una ne­cessità necessitante, cioè qualche cosa che esiste comunque. Da lì è sorta la no­zione di esistenza che non c’era prima di Aristotele e di Platone. Non c’era con i Sofisti, così come non c’era in Gorgia o nello stesso Protagora. Nulla poteva dirsi esistente fuori della parola, fuori di ciò che ne è per l’uomo, in definitiva per chi ne parla.

Se io dico che “il sasso cade”, dico di un evento di cui io sto parlando, di cui so qualcosa.

 

Che cos’è il vero? Ho posto all’inizio la questione di stabilire quale fosse il criterio per stabilire che qualche cosa è vero. È una questione importante perché questo criterio è ciò che ci consente di stabilire che questo è vero e questo no.

Da dove lo traiamo questo criterio? Rispetto alla deriva dei continenti da dove traiamo questo criterio? Qual è il criterio utilizzato? Occorre pure stabilire prima di affermare che una cosa sia il vero oppure no.

Anche in fisica si è posta, forse per una prossimità maggiore con la matematica, questo problema: stabilire non tanto che cos’è il vero quanto il criterio del vero che si dimostra vero.

Ciò che si indica comunemente è un criterio di verità connesso più alla veritas latina che all’alètheia greca, homoiosis, come dire alla correttezza dell’enunciato: l’enunciato è corretto se e soltanto se corrisponde alla cosa, quello che per i medioevali era l’adæquatio rei et intellectus, l’adeguamento della parola alla cosa.

Torniamo sempre alla questione centrale: il vero come ciò che è degno del nostro assenso. Quindi, la verità come adeguamento della parola alla cosa costituisce una definizione di verità che può risultare discutibile.

Anche della “cosa in sé”, che cosa ne so? Come ne so? Chi mi fornisce la garanzia che ciò che vedo è la cosa in sé?

 

Stiamo riflettendo in termini il più possibile precisi rispetto a un qualunque evento, sia esso un fatto linguistico, sia esso un fatto fisico, come quello per cui un sasso cade, dove, chiedendoci proprio ragione di questa affermazione, ci tro­viamo di fronte a questioni non semplici. La questione è riconducibile tutto sommato a quella che si poneva Wittgenstein, cioè che cosa sto dicendo affer­mando questo, dove “questo” può essere qualunque cosa. Se affermo che un sasso cade, che cosa sto facendo affermando questo, che cosa è in gioco, quale gioco sto giocando, più che quale realtà sto illustrando, sto manifestando. Che esista, per esempio, una realtà extralinguistica si può pensarlo.

Noi ci sforziamo perché ciascuna cosa che stiamo dicendo tenga conto di questo. Il nostro sforzo va in questa direzione. Quando dicevamo che costruendo un si­stema di pensiero che tiene conto unicamente di ciò che non può non affermarsi salvo negare la possibilità stessa di negare o affermare qualunque cosa, dicevamo questo, cioè porci di fronte non ciò che è creduto o ciò che è credibile, ma sempli­cemente ci stiamo chiedendo che cosa stiamo dicendo affermando una qualun­que cosa.

Che cosa è il credere? Credere è immaginare, pensare o più ancora attribuire a ciò che si dice una corrispondenza, una realtà che sia fuori da ciò stesso che si sta dicendo.

Pertanto, se noi diciamo che ci atteniamo a questo criterio, non lo crediamo per­ché se non ci attenessimo a questo criterio noi non potremmo dire di credere op­pure no. Non potremmo nemmeno dire di seguire un criterio. In questo senso, dicevo formulare proposizioni così particolari, particolari che non possono in nessun modo negarsi. Per il momento ci atteniamo solo a questo. Senza tenere conto di ciò che comunemente è creduto o non è creduto. Siamo ancora al di qua dal potere considerare queste questioni.

 Semplicemente, proviamo a confrontarci con le proposizioni. In questo senso, chiedendoci che cosa stiamo dicendo per esempio dicendo che esiste qualcosa al di fuori della parola e se, ciò che stiamo dicendo, risponde in qualche modo a una struttura del linguaggio, se cioè tiene conto unicamente di questa struttura op­pure no, oppure inserisce altri elementi.

È chiaro che ciò cui mi attengo propriamente sono criteri molto semplici, il prin­cipio di non contraddizione, il principio del terzo escluso, mentre abbiamo avan­zato qualche perplessità rispetto al principio di identità che è molto difficile da trattare. Però, semplicemente, ci siamo attenuti al fatto che qualcosa non può si­multaneamente affermarsi e negarsi.

Ci atteniamo soltanto a quei criteri che ci consentono di parlare.

 

Noi diciamo che c’è della metafisica in Aristotele per esempio quando lui si trova per esempio nella necessità di attribuire l’esistenza di un motore immoto per giustificare l’atto, in definitiva l’atto di parola, come evento, cioè qualche cosa che deve muovere senza essere mosso. Poi, questo è stato preso e utilizzato come elemento extralinguistico, da cui la “cosa in sé”, la “sostanza”. Però, sono stati più i Padri della Chiesa che non Aristotele a utilizzare questo come garanzia, la so­stanza delle cose che come tale garantisce la parola, che le cose sono così.

Aristotele ha formalizzato questi principi, ma in effetti sono più antichi. Già con Parmenide c’è il principio del terzo escluso, che impedisce di affermare questo, che se il principio del terzo escluso non esiste il principio del terzo escluso esiste. Cioè, qualche cosa che impedisce alla parola di proseguire.

 

Posso parlare se ciascun significante fosse simultaneamente se stesso e il suo contrario? Potrei parlare?

 

La regola grammaticale è qualcosa di più di una convenzione, ché se fosse una convenzione ci si potrebbe accordare differentemente. Ma il fatto stesso di poterci accordare differentemente comporta la necessità che ciascun termine sia quello e nessun altro.

Non è possibile dire simultaneamente una cosa e un’altra. Ciascun elemento può porsi, proprio grammaticalmente, come escludente il suo contrario mentre sto parlando.

Prendiamo questa formulazione “ciascun elemento deve escludere il suo contra­rio”. Perché questa formulazione sia comprensibile è necessario che funzioni questo principio, altrimenti non potrebbe in nessun modo essere comprensibile.

Ciascun elemento deve escludere necessariamente il suo contrario. Perché io possa formulare questa proposizione già devo applicare questa regola grammati­cale e quindi ciascun elemento deve escludere il suo contrario necessariamente, proprio perché sia possibile formulare questa proposizione.

In questo senso dicevo che è qualcosa di più di una semplice convenzione. Anche la strutturazione di una qualunque convenzione non può prescindere da questo criterio di cui è fatto il linguaggio. È certamente un criterio lontano da quello morale. È una regola grammaticale.

Ora, si tratta di costruire proposizioni che tengano conto unicamente di questo, escludendo tutto il resto. In questo senso, parlavo di proposizioni che non pos­sono negarsi salvo negare la possibilità stessa di negare qualunque cosa.

Provi a negare la proposizione che afferma che i parlanti parlano.

Non è possibile negarla salvo affermare ciò stesso che dovrebbe essere negato. Ancor di più nel caso di questa proposizione, in quanto si utilizza ciò stesso che deve essere negato.