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03-01-1995

 

Proposizione -33, dice: Immagina che qualcuno indichi un vaso e dica: -Guarda quel magnifico azzurro!- la forma non ha importanza -Oppure: Guarda quella forma meravigliosa! -il colore è indifferente- Non c’è dubbio che nell’assecondare questi due inviti farai, in ciascun caso, qualcosa di differente. Ma fai sempre la stessa cosa quando dirigi l’attenzione sul colore? Immagina diversi casi. Ne accennerò qualcuno: Questo azzurro è uguale a quello? Vedi una differenza? - Mescoli i colori e dici:

-L’azzurro di questo cielo è difficile da ottenere.

-Il tempo si mette al bello, già si rivede l’azzurro del cielo.

-Guarda com’è diverso l’effetto di questi due azzurri!

-Vedi quel libro azzurro là? Portalo qui!

-Questo segnale luminoso azzurro significa...

-Come si chiama questo azzurro? - è indaco?

Talvolta concentriamo l’attenzione sul colore escludendo con la mano i lineamenti della forma; o evitando di dirigere lo sguardo sui lineamenti della cosa; o fissando l’oggetto e tentando di ricordare dove si è già visto quel colore.

-38: È ben vero che spesso, ad esempio nella definizione ostensiva, indichiamo il nominato pronunciando il nome. Ed è anche vero che, ad esempio nella definizione ostensiva, pronunciamo la parola “questo” additando una cosa. E spesso la parola “questo” e un nome occupano lo stesso posto nel contesto della proposizione. Ma caratteristica del nome è appunto il fatto che esso viene definito con l’espressione ostensiva: “Questo è N” (o: “Questo si chiama “N”). Ma definiamo anche: “Questo si chiama “questo”, “questa cosa si chiama “questa cosa”? Tutto ciò è connesso alla concezione del denominare come, per così dire, di un processo occulto. Il denominare appare come una strana connessione di una parola con un oggetto.- E questo strano collegamento ha effettivamente luogo quando il filosofo, per scoprire che cos’è la relazione tra nome e nominato, fissa un oggetto posto davanti a sé e ripete innumerevoli volte un nome, o anche la parola “questo”. I problemi filosofici sorgono infatti quando il linguaggio fa vacanza. E qui possiamo veramente figurarci il denominare come un singolare atto spirituale, quasi un battesimo di un oggetto. E possiamo anche (per dir così) dire all’oggetto la parola “questo”, rivolgerci a lui con essa - uno strano uso di questa parola che senza dubbio ricorre soltanto quando si fa filosofia.

Nel brano che Vi ho citato prima di questo, interviene qualcosa di singolare, nel primo dice che, o meglio pone una difficoltà rispetto all’indicare qualcosa, lì l’esempio del colore azzurro, in tutti quei casi indico esattamente la stessa cosa? Pur indicando, pronunciando lo stesso significante “azzurro”, nei casi detti prima cosa nomino quando nomino? Perché dice: nomino l’azzurro. Ma lui giustamente si chiede: è la stessa cosa? Intendo la stessa cosa quando dico, prendi quel libro azzurro, guarda l’azzurro di quel cielo, oppure questo azzurro è diverso da questo, intendo la stessa cosa? Che cosa nomino esattamente? È come se questo significante azzurro non raggiungesse mai il nome, se con nome intendiamo ciò che nomina qualcosa, perché questo qualcosa che deve essere nominato è ciascuna volta differente. Va oltre nel passo che abbiamo letto, noi diciamo: questo è azzurro, per esempio, allora si chiede ma “questo” che mette tra virgolette, ma “questo” che cos’è? Ancora una volta dice che è come se il linguaggio facesse vacanza, nel senso che non c’è qualche cosa di adeguato a nominare, cosa che abbiamo vista anche in altre circostanze muovendo da altre questioni, ciò che gli antichi, Sesto Empirico in prima istanza, chiamava il tropo del diallele, o regressio ad infinitum: io ho davanti qualche cosa, lo nomino e nominandolo lo dissolvo. Avviene qualche cosa del genere, nominandolo dissolvo la possibilità, che immaginavo, di nominarlo. Nominarlo quindi identificarlo, isolarlo, fermarlo, come fa il prete quando battezza: io ti nomino Luciano. Allora da quel momento si chiamerà così però, direbbe Wittgenstein, cosa hai nominato in questo modo? Questo, questa cosa, questa persona, “questo” dunque, come se stesse a indicare il posto che rimane vuoto, rimane vuoto ma non per difetto del nominatore, ma perché, dice, il linguaggio fa vacanza. C’è qualche cosa dunque nella struttura del linguaggio, tale per cui c’è un intoppo, un intoppo per cui non riesco a nominare qualcosa. Un curioso intoppo, perché anche la stessa struttura, se da una parte mi impedisce di nominare alcunché, nel senso in cui dicevo prima e cioè di isolare, di individuare, allo stesso tempo, apparentemente, mi consente di farlo: come dire, mi indica che posso farlo ma nell’istante stesso in cui ci provo lo sottrae. È una curiosa struttura, perché fa questo il linguaggio?

-43: Per una grande classe di casi anche se non per tutti i casi in cui ce ne serviamo, la parola “significato” si può definire così: Il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio.

Dunque il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio, ecco allora, io dico che questa cosa è azzurra, per riprendere il suo esempio, qui il significato di azzurro non corrisponde propriamente a nulla in quanto tale, non ha alcun referente, non c’è un azzurro da qualche parte come vorrebbero gli idealisti, non c’è l’azzurrità, anche se non è così semplice, ma c’è l’uso che in quel momento sto facendo di quel significante. Cosa comporta questo? Comporta due cose almeno di cui possiamo dire, la prima è questa, e cioè che ciascuna volta che interviene un elemento, un significante, questo è degno di essere ascoltato in quanto potrebbe significare, potremmo dirla così, non allontanandoci troppo da Wittgenstein, potrebbe significare qualunque cosa, qualunque cosa ma sta alla persona che la pronuncia in quel momento dire o illustrare l’uso che sta facendo di questo significante, se così non fosse la psicanalisi non potrebbe esistere. Non potrebbe esistere ma si tratterebbe soltanto, come per gli psichiatri, di correggere un cattivo adattamento, cioè di un errore: una persona commette un errore, cioè chiama una cosa non con il suo nome oppure non attribuisce il significato corretto e quindi va corretta. Dunque se è ciascuna volta l’uso di un termine che ne definisce il significato, allora quando una persona parla, attenendoci a Wittgenstein, come posso sapere di che cosa esattamente sta parlando? Potrei saperlo con precisione se potessi attribuire a ciascun significante un solo significato, allora, facendo un’operazione molto rapida di traduzione saprei in ciascun istante di che cosa esattamente sta parlando, come per altro spesso si suppone che avvenga. Wittgenstein dice che non è affatto così. Cosa determina l’uso? Qui anche Wittgenstein ha qualche problema, perché potrebbe essere l’uso stesso a determinare il significato, cioè non tanto il fatto che lo usi ma che intervenga nell’uso, nell’utilizzo, come dire: il discorso che sto facendo utilizza un certo significante. Perché quel significante anziché un altro? Adesso, prima di affrontare questa questione che è piuttosto complessa possiamo dire questo, che a questo punto il significato acquista una sua dignità, abbiamo per moltissimo tempo poste delle obiezioni intorno alla nozione di significato, ma significato in una accezione particolare e cioè ideologica, quella che vuole, dicevamo, che a ciascun significante si debba fare corrispondere un significato, e che anzi questo sia naturale, o meglio ancora nel corso naturale delle cose. Ecco dunque, qui il significato posto come l’uso non è altro che questo: in che modo sto usando questo significante? Cosa sto dicendo? A cosa mi riferisco? Parlo del registratore, per rifare l’esempio di Wittgenstein, c’è l’eventualità che quando io dico che questo registratore è nero, oppure quando dico che questo registratore è rotto oppure accendo il registratore oppure ancora, spegnete tutti i registratori...dicevo dell’eventualità che questo significante “registratore”, comparendo ciascuna volta in una combinatoria differente, abbia un significato differente. Ora il linguista direbbe che si, certo il significato è differente, ma non cambia il referente, il referente è sempre questo aggeggio, però altri potrebbero obiettare che occorre una buona dose di fede per poterlo dire con tanta certezza, una fede incrollabile nell’identità a sé dell’essere. Se questa identità vacilla, allora ecco che il referente si traduce in quello che prima indicavamo come il nominato, ciò che nomino, e continuo a dire che nominando il registratore questo “registratore” non nomina alcunché. È qui l’intoppo, e anche la difficoltà in effetti, la difficoltà nell’accogliere qualcosa che può risultare assolutamente semplice e assolutamente inaccettabile. Perché semplice? Perché per la struttura logica del linguaggio in cui ci troviamo, posso dire che questo è questo, ma non posso provarlo. Non posso farlo in alcun modo, come diceva Wittgenstein (l’altra volta leggevamo il suo scritto Della Certezza), perché sapere qualche cosa è tale (cioè la grammatica del linguaggio in cui ci troviamo) se e soltanto se posso giustificare questo sapere, se no non significa niente, non posso parlare di “sapere”. Ora, dunque, se devo giustificarlo, cioè devo dare prove di questo sapere, allora devo invocare un accordo per cui ci fermiamo e accogliamo una certa definizione se no, di fatto, non posso arrestare in nessun modo la ricerca e dunque non posso stabilire, non posso attribuire al sapere la connotazione per cui esiste il sapere, per cui posso parlare di sapere. Tant’è, che dico che so che questo è un registratore e non che immagino che sia un registratore, o ritengo che sia un registratore, o credo che sia un registratore, e dicevamo qualcosa di più: sta nel gioco che si gioca accettare questa regola per cui dico che so che è un registratore, e non che “credo che sia un registratore”. A meno che ci sia qualcosa per cui dubitare che possa esserlo, un registratore. Nulla me lo fa dubitare come se dovessi, in base a questo gioco che giochiamo, dire che so che è un registratore, perché in un certo senso questo è ciò che ci si aspetta da chi gioca questo gioco. Allo stesso modo ci si aspetta da chi gioca a scacchi che non decida all’improvviso che il pedone si mangi la regina, perché gli piace così. Non può più giocare questo gioco, ma fa un altro gioco. Se allora dico: non so se questo è un registratore, non avendo nessun motivo per dubitarne, allora io non faccio più il gioco linguistico in cui mi trovo, e se non faccio più questo, allora effettivamente non c’è più nessun motivo per dire che questo è un registratore o, come dice Wittgenstein, questa è la mia mano. Perché dovrei dirlo, come lo so? Nulla al mondo mi garantirà che questa è la mia mano, e tutti i motivi che posso addurre per provarlo non sono meno certi di questo enunciato che dice che questa è la mia mano. Ecco allora che si delinea una questione di un certo rilievo, questa sorta di...chiamiamolo inganno, provvisoriamente, per cui il linguaggio mi induce, per il suo stesso gioco, a dire, per esempio, che so che questo è azzurro, so che questa è la mia mano, che è la stessa cosa, impedendomi d’altra parte di potere stabilire come lo so o di stabilire il sapere nel modo tale in cui il linguaggio stesso lo definisce, per cui dice che il sapere è una cosa assolutamente certa, se io so una cosa non posso dubitarne. Non posso dubitare di chiamarmi Luciano Faioni, salvo dubitare di qualunque cosa. Dunque il sapere ha questa prerogativa, che per giocare questo gioco devo accogliere il sapere in questo senso, e allo stesso tempo mi dice che qualunque elemento, per potere essere definito, deciso, deve sottostare, e il sapere in prima istanza, a una serie di prove di cui l’ultima è quella che garantisce tutte le precedenti, ma allo stesso tempo mi dice che l’ultima non c’è. Un ben curioso gioco questo. Un gioco che fornisce delle regole per giocare, ma non dà assolutamente nessuna indicazione circa queste regole, le mostra, tutto lì. Vuoi sapere perché queste regole? Trovale, provaci. Vuoi sapere del sapere? O qualunque altra cosa? Dice il linguaggio: fallo, ti troverai di fronte all’infinito, senza avere nessuna possibilità di arrestarti da nessuna parte. Ora sta in questo ciò che volevo dire prima, se io non so nulla di tutto ciò, qual è l’effetto, dove mi porta questo non accorgermi di tutto ciò? A considerare l’inganno del linguaggio, anziché strutturale, come se fosse il frutto o di una mala formulazione del discorso, o di un infingimento da parte altrui, che appositamente mi vuole indurre in inganno, perché le parole non mentono. Come i numeri che, come diceva Kronecker, sono dati da dio, e si sa che dio non può mentire e pertanto, quando parlo, so quello che dico. Quando una persona dice una cosa, allora intende questo a meno che non finga, a meno che non si sia male espressa, è questo che intende dire. Necessariamente. E dunque io non posso che regolarmi di conseguenza rispetto a ciò che ha esattamente voluto dire. Questo avviene continuamente, ma una persona può anche fingere, in un certo senso, può supporre di fingere ma, altro è se io mi trovo nelle condizioni di potere considerare che ciò che una persona dice non ha un referente, ma sta giocando un certo gioco di cui io posso intendere qualche cosa, cioè delle regole che lo muovono, ma non si riferisce propriamente a un referente, anche se il gioco che sta giocando glielo fa credere. E io, d’altra parte, per potere continuare a giocare con lui devo in un certo senso accogliere questa finzione. Se una persona mi dice che ieri è stata a trovare un tale, e non ho motivo di pensare che mi stia ingannando, sono indotto a credere che questa persona sia andata a trovare quel tale. Dunque, è come se in questo caso io attribuissi effettivamente un referente a ciò che sta dicendo. Che esista quel tale, intanto, da cui questo tizio è andato, ieri, alla tale ora, in tal modo. Ciascuno chiaramente è indotto a pensare una cosa del genere, e cioè che sia avvenuto questo fatto, che un amico sia andato a trovare quel tale. Perché se questo non fosse avvenuto, allora direi che l’amico mi ha ingannato. Per quale motivo adesso non ci interessa. Dunque, come dicevo prima, sono indotto a pensare che esista un referente, e cioè che sia avvenuto il fatto di cui mi si parla. Ed è molto difficile pensare altrimenti da così, pensare altrimenti non significa dire che non è vero che è andato a trovare quel tale, dire che è vero o non è vero, rispetto a questo è esattamente la stessa cosa. Proviamo a porla in questo modo, che cosa mi sta dicendo, dicendomi che è andato a trovare quel tale? Qualunque cosa. Può anche essere andato a trovarlo per potermelo dire, per esempio, o dirmi che è andato a trovarlo per raccontarmi una cosa che immagina che a me faccia piacere o che debba interessarmi, oppure semplicemente per avviare un discorso. Intendo dire questo, che l’accento, nella conversazione, può non cadere affatto sull’essere andato a trovare quel tale, e allora se io immagino che questo fatto sia avvenuto realmente, io, in questo caso, che cosa sto dicendo? Prima ci siamo chiesti che cosa si sta dicendo lui, adesso mi chiedo che cosa mi sto dicendo io, dicendomi che effettivamente è avvenuto questo. O per farla più breve, che cosa sto dicendo quando dico che qualcosa è accaduta? O per farla più semplice ancora, che le cose stanno così come io dico? Il più delle volte non si tratta di mettere in discussione qualcosa che non ha nessun senso mettere in discussione, cioè dire che allora è la stessa cosa che sia andato o non sia andato a trovare quel tale, non è in questi termini, né che sia vero né che sia falso, nemmeno questo, dunque cosa sto dicendo quando dico che le cose stanno così? Quando dico che questo è un registratore sto intanto “facendo” qualcosa, non sono io che lo faccio, ma mi sto trovando in un gioco, dove intervengono degli elementi, questo è ciò che possiamo dire in prima istanza, che altro dire? Intanto questo, che questo gioco in cui mi sto trovando ha delle regole tali per cui parlando qui con voi, so che questo è un registratore, che è la stessa cosa che dire: io so come stanno le cose. Cioè io so che se il tale mi dice che ieri è stato a trovare un certo tizio, allora quel tale è stato a trovare quel certo tizio. Cosa vuol dire che lo so? Sono queste le questioni che si pone Wittgenstein, e altri insieme con lui, ma visto che stiamo leggendo Wittgenstein, ci atteniamo a lui. Occorre distinguere, qui c’è una menzogna che è strutturale dicevamo, per cui ciascuna volta il significante non si riferisce mai a qualche cosa ma è sempre preso in uno spostamento, dice una cosa al posto dell’altra, come la metonimia. In questo senso c’è una menzogna. Altro è la supposizione o l’idea di potere, stando una regola in un certo modo, barare. Cos’è barare? Barare è questo: stabilito che le cose significhino una certa cosa, insinuare un altro eventuale significato facendo credere che sia quello il vero significato. Ma per fare tutte queste operazioni è necessario credere tutta questa serie di cose, per cui si può anche fingere di mentire. Arriva il nemico e mi chiede: dove sono scappati i tuoi amici? E io dico: di là. Fingendo di mentire. Ah si? Dice. Di là? E noi andiamo dall’altra parte. E invece no, erano proprio andati di là. In questo caso ho finto di mentire, immaginando che gli altri suppongano che io stia mentendo, quindi fingo di mentire, come il gioco del pari o dispari.

- Intervento: Esempio di Freud a Cracovia.

Certo, finge di mentire, ma allora in quel caso mente o dice la verità se dice che va a Cracovia? Perché mente e dice la verità simultaneamente, dipende dal criterio che utilizziamo per stabilire la verità di un enunciato, se con la verità di un enunciato indichiamo semplicemente il fatto che dice di andare a Cracovia, e va effettivamente a Cracovia, allora è la verità, ha detto il vero però, dicendo che va a Cracovia di fatto sta mentendo. Allora dunque la questione si fa complessa, dal momento che occorre tenere conto che si tratta di un gioco, quindi di una struttura particolare dove, di fatto, io sono simultaneamente nella necessità di credere e di non credere, esattamente come quello che dice che va a Cracovia. Per cui una persona mi dice che ieri ha incontrato un certo tale, io sono indotto a credere che esista quel certo tale, che quel tizio abbia fatta questa operazione di andarlo a trovare, ma d’altra parte tutto ciò non può sostenersi su niente, allora torno a formulare la questione, cosa diciamo propriamente quando diciamo di sapere qualcosa? Questione che si fa sempre più ardua, apparentemente senza via di uscita. È come se fossi, come nell’esempio di prima, costretto simultaneamente a dire la verità e a mentire. Dicendo che so che ieri un tizio è stato a trovare il tale, sono costretto simultaneamente a dire la verità e a mentire nell’accezione più comune del termine. Dico la verità perché, effettivamente, lo so e non ne dubito affatto, sono sicurissimo, convintissimo, e mento perché non ho assolutamente nulla su cui possa appoggiarmi per sostenere una cosa del genere. E allora come faccio a dire che lo so, se il sapere necessita di prove, di qualcosa che lo provi, perché se no non è “sapere”? Vedete in che inghippo ci siamo trovati? Come se ciascuna volta la struttura fosse quella del paradosso, cioè io so che una cosa è vera se e soltanto se non lo so. Se e soltanto se in quanto è questo non sapere che mi consente di dire che lo so, se no non potrei neanche dire che lo so, non si porrebbe neanche la questione, tutto sarebbe immediato, cioè non mediato dalla parola. Ma non è nemmeno pensabile una cosa del genere, ciascuno non può pensare come sarebbe pensare senza la parola.

- Intervento: Einstein diceva che pensava senza pensiero.

Dirlo è un conto... di fatto non è possibile pensare senza segni...

- Intervento:...

I numeri sono sempre segni. Quando si parla di parole, di linguaggio, si intende

- Intervento:...

Siccome Einstein non riusciva in matematica ne ha inventata un’altra. È così che occorre fare. Quando c’è una difficoltà questo occorre fare. Già lo stesso pensare a un pensiero fuori del linguaggio o fuori da un sistema segnico è paradossale. L’idea di pensare una cosa del genere comporta un’organizzazione, una struttura.

-49... col denominare una cosa non si è fatto ancora nulla. Essa non ha nemmeno un nome, tranne che nel giuoco. Questo, tra l’altro Frege intendeva dicendo: soltanto nel contesto della proposizione una parola ha significato...

-54 Pensiamo in quali casi diciamo che un gioco viene giocato secondo una determinata regola. La regola può essere un ausilio nell’insegnamento del gioco. È comunicata allo scolaro, che viene esercitato ad applicarla. Oppure è uno strumento del gioco stesso. Oppure ancora: una regola non trova impiego né nell’addestramento né nel gioco stesso e non è neppure depositata in un elenco di regole. S’impara il gioco osservando come altri giocano. Ma noi diciamo che si gioca seguendo questa o quell’altra regola, perché un osservatore può ricavare queste regole dalla pratica del gioco, come una legge naturale a cui si conformano le mosse del gioco. Ma in che modo l’osservatore distingue, in questo caso, tra un errore dei giocatori e una mossa corretta? Per distinguere ci sono, nel comportamento dei giocatori, certe caratteristiche. Pensa al comportamento caratteristico di colui che corregge un lapsus linguæ. Potremmo accorgerci che qualcuno fa una cosa del genere anche se non conoscessimo la sua lingua.

-55 “Ciò che i nomi del linguaggio designano dev’essere indistruttibile: infatti si deve potere descrivere anche la situazione in cui tutto ciò che è distruttibile è distrutto. E in questa descrizione ci saranno parole; e ciò che ad esse corrisponde non può essere distrutto, perché altrimenti le parole non avrebbero significato”. Non posso segar via il ramo sul quale sono seduto. Naturalmente si potrebbe subito obiettare che la stessa descrizione deve sottrarsi alla distruzione. Ma ciò che corrisponde alle parole della descrizione, e che dunque non può essere distrutto se la descrizione è vera, è ciò che dà alle parole il loro significato, ciò senza di cui le parole non avrebbero alcun significato. Tuttavia quest’uomo è in un certo senso ciò che corrisponde al suo nome. Ma è distruttibile; e il suo nome non perde il suo significato quando il portatore cessa di esistere. Ciò che corrisponde al nome, e senza il quale il nome non avrebbe alcun significato, è, ad esempio, un paradigma che nel gioco linguistico viene usato in connessione col nome.

-57 “Una cosa rossa può venire distrutta, ma il rosso non può venire distrutto, e pertanto il significato della parola “rosso” è indipendente dall’esistenza di una cosa rossa” Certo, non ha alcun senso il dire che il colore rosso (il colore non il pigmento) viene lacerato o frantumato. Ma non diciamo “ il rosso svanisce”? E non aggrapparti al fatto che possiamo evocarlo agli occhi della mente anche se non c’è più niente di rosso ! Come se tu volessi dire che ci sarebbe pur sempre una reazione chimica che produrrebbe una fiamma rossa. Infatti, come fai a dirlo se non sei più in grado di ricordarti il colore? Se dimentichiamo qual è il colore che ha questo nome, il nome perde il suo significato per noi; vale a dire, con quel nome non possiamo più giocare un determinato gioco linguistico. E allora la situazione è paragonabile a quella in cui il paradigma, che era uno strumento del nostro linguaggio, è andato perduto.

-58 Chiamerò nome, soltanto ciò che non può stare nella combinazione “x esiste”. E così non si può dire: “il rosso esiste”, perché se non ci fosse il rosso, non se ne potrebbe affatto parlare. Più correttamente, se si intende che l’enunciato che dice che “x esiste” dice la stessa cosa che “x” ha significato, allora questa non è una proposizione che tratta di x, ma una proposizione intorno al nostro uso linguistico, cioè intorno all’uso della parola x.

Ecco la questione centrale in tutto ciò. Non è lontano da quello che dicevamo tempo fa rispetto alla nozione di esistenza...

- Intervento: nei Fondamenti Della Matematica dice che questa cosa è fuori dal tempo)

No lui obietta a questa affermazione...

- Intervento: ma il tempo non esiste in quanto tale?

Cosa vuol dire che qualcosa esiste? L’abbiamo appena detto, rileggo: 58 Chiamerò nome soltanto ciò che non può stare nella combinazione “x esiste”. E così non si può dire: “il rosso esiste”, perché se non ci fosse il rosso, non se ne potrebbe affatto parlare. Più correttamente se si intende che “x esiste” dice la stessa cosa che “x” ha significato, allora questa non è una proposizione che tratta di x, ma una proposizione intorno al nostro uso linguistico, cioè intorno all’uso della parola x.

- Intervento: Lei diceva, isolare, trovare il referente nel linguaggio, mentre per significato, trovare il suo uso nel linguaggio, non potremmo invertire queste due...il significato non è proprio questo isolare, individuare?

Perché dovrebbe essere questo?

- Intervento: mentre il nominare è qualcosa che avviene nel linguaggio, quindi un uso del linguaggio.

- Intervento: Quando Lei dice che parla del linguaggio, questo linguaggio come interviene?

- Intervento: interviene sempre con dei termini.

Allora spiega dei termini, o spiega il linguaggio?

- Intervento: spiego il linguaggio, occorre spiegare che cos’è il linguaggio per poterne sapere di queste regole.

Ma questo significante linguaggio per lei ha un significato o non ne ha nessuno?

- Intervento: deve avere un significato è questo che sto dicendo. Deve avere un significato ben isolato, altrimenti non ne posso parlare, il significato come necessario per poter parlare.

Significato come uso di cui stavamo dicendo adesso, proprio in quest’ultimo aforisma quando, come dice qui, “x esiste” non è una proposizione intorno a x, è importante questo ma, dice lui, è una proposizione intorno all’uso di una x, cosa vuol dire questo? Vuol dire che io mi trovo ad affermare l’uso in cui io mi trovo. Di un certo termine ne so qualcosa allora, non prima, a quel punto posso riflettere su come è intervenuto quell’elemento, dire che x esiste, se non è una proposizione che afferma l’esistenza di x, ma dice soltanto che l’utilizza in un certo modo, dicendo che esiste, questo ancora non vuol dire niente, allora x in quanto tale non c’è, non è isolato propriamente, come non lo è un significante. Ora, rispetto alla nozione di significato, qui abbiamo in qualche modo accostato, o ci siamo avvicinati, alla definizione che da Wittgenstein, definendo il significato come l’uso che interviene...

- Intervento: quando dico lì c’è un albero, che ci sia o no, c’è l’idea di albero, in quello che dico, isolato in questo senso, che è significato in qualche modo.

Si, è ciò che sto dicendo e cioè, dicendosi, un elemento acquisisce un significato per via dell’uso di questo elemento. Come uso x, in questo caso? Dicendo che esiste, molto semplicemente. Quindi non è un’affermazione apodittica: esiste, c’è. C’è, nel senso che gli è attribuita questa esistenza, questo esserci, qualche cosa al di fuori della parola, è soltanto un’indicazione rispetto a come viene utilizzato un elemento in quel momento, nulla più di questo.

- Intervento:...

Adesso la questione della verità non è che si ponga ancora nei termini di verità o falsità anche se, per esempio, è posta in termini apodittici, comporta che questo “x esiste” debba essere vero, necessariamente. Un’affermazione come questa, “x esiste” comporta che sia sottoposta a un criterio verofunzionale, cioè o è falsa o è vera, è vera quando x esiste effettivamente, come diceva Tarski rispetto alla neve. L’enunciato, ricordate? Che afferma che la neve è bianca è vero se e soltanto se la neve è bianca. Ecco, ma la questione di cui stiamo dicendo è questa: che cosa sto dicendo quando affermo qualunque cosa, “x esiste” o qualunque altra cosa? Posso riflettere intorno al modo in cui questi elementi si stanno usando in ciò che dico, perché se questi elementi fossero stabiliti, allora la domanda sarebbe superflua, che cosa sto dicendo? Sto dicendo quello che dico, nel senso che le cose che dico dicono questo, cioè si riferiscono a questo, necessariamente, quindi non c’è possibilità di inganno, è l’idea che ha poi incuriosito molti, una ricerca di una caratteristica universale, di un linguaggio universale in definitiva, fino alla formulazione della logica matematica, cioè di un linguaggio dove non c’è possibilità di errore, o di equivoco, perché ciascun elemento vuol dire esattamente questo e non può volere dire altro. Operazione che non può riuscire, ma che nota l’esistenza di una sorta di fede che comunque l’enunciato “x esiste”, possa essere l’enunciato intorno alla x, possa dire qualcosa intorno alla x. Il che non è propriamente, in quanto l’idea continua ad essere questa, che dire “x esiste” comporta che x ci sia, come un quid, necessariamente. Ciò che sta dicendo Wittgenstein è invece che un’affermazione, qualunque essa sia, non si riferisce a ciò che afferma in quanto tale, o non ha questo come oggetto ma semplicemente illustra in che modo qualche cosa la si sta usando. Però a questo punto occorre riflettere su questo qualche cosa, di questo qualche cosa ci occuperemo venerdì prossimo, perché è proprio su questo che lui prosegue, su questo “qualche cosa”...

- Intervento: Lei diceva che se nomino qualche cosa devo avere l’idea di qualche cosa.

La questione degli universali, e questa idea da dove viene se non da x? Allora x preesiste all’idea, ma lei come riconosce questa x se già non ha l’idea di una x? E questa idea di una x da dove viene se non c’è già stata una x, ma questa x da dove viene se...eccetera? Si è una disputa curiosa perché in effetti, a tutt’oggi, questiona molti ed è lungi dall’essere risolta. Una volta avevo promesso di dissolvere questa disputa sugli universali, poi non l’ho fatto, dovremmo farlo un giorno, cioè intendere come di fatto siano elementi imprescindibili, che non soltanto non si escludano a vicenda ma non può esserci l’uno senza l’altro simultaneamente. Ne parleremo. Allora proseguiamo martedì con le ricerche filosofiche.