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2/11/1995

 

Proposizione 8.22 della Seconda Sofistica: “Non è del tutto escluso che abbiamo forniti degli elementi e degli strumenti per potere cessare di credere, così come avevamo accennato già nell’introduzione di questa ricerca, se così sarà stato, allora avremmo ottenuto un risultato straordinario, se così non sarà stato, non importa. Sarà stato comunque straordinario l’avere considerate le cose che si sono considerate e quindi l’averle poste nella parola. Poiché non si è trattato in effetti di compiere un atto di cui potere dire che sia stato utile per qualcosa o per qualcuno. L’idea che possa darsi qualcosa di meglio non ci interessa, non sappiamo che cosa è meglio, non sappiamo da che cosa salvarci e neppure in quale direzione procedere. Stiamo procedendo, questo solo possiamo dire, e stiamo procedendo avvalendoci di un criterio che non è né migliore né peggiore di qualunque altro, è soltanto non negabile dalle regole e dalle procedure linguistiche, quelle stesse che ci hanno consentito di fare queste considerazioni”.

8.23 Ma è praticabile quanto siamo andati dicendo? Tutto ciò che è stato pensato negli ultimi tremila anni non va in questa direzione, non considera quasi nulla di tutto questo, essendosi stabilito sulla certezza che la parola fosse arbitraria e che non lo fosse ciò che la parola indica, e chiamando questo la realtà delle cose. Eppure si dà qualcosa di non arbitrario, e cioè il fatto che sto parlando, questo mi si impone, che lo voglia oppure no. Si è trattato di considerare questo fino alle estreme conseguenze, cioè non dando nulla per acquisito, nulla al di fuori di ciò che si dice e che non può non dirsi, se si parla.

8.24 Ciò che abbiamo chiamato Seconda Sofistica è il praticare quanto abbiamo detto fino a qui, e cioè il non potere non tenere conto, in ciascun atto di parola, che non è pensabile alcun altro elemento fuori dalla parola, per potere muoversi, pensare e fare. Praticare questo vale a incontrare nella parola ciò per cui e in cui esisto. E considerare che qualunque altro modo possa pensare, questo mi ricondurrà sempre alle parole con cui lo sto dicendo, e quindi pensando.

8.25 La Seconda Sofistica è l’atto di parola nelle sue estreme conseguenze, cioè l’atto di parola in quanto gesto attraverso cui qualunque cosa esiste. Sofista è chi accoglie la parola e tutto ciò che questo comporta, vale a dire l’acquisire quanto la parola instaura e produce dicendosi, non potendo non considerare che ciò che la parola produce sono altre parole, e che queste altre parole non possono produrre se non altre parole e così di seguito, sempre cogliendo in tutto questo l’aspetto estremo, cioè la non mediabilità dell’atto di parola, il suo accadere, tanto imprevedibile quanto inarrestabile, non derivabile né significabile fuori dalle sue stesse procedure. Questo comporta che se voglio sapere quello che dico, quello che sta accadendo mentre dico, devo necessariamente proseguire a dire, aggiungendo altre parole, poiché soltanto queste produrranno il significato di ciò che dico, diranno che cosa sto dicendo. Non cercandone quindi il significato altrove, se non in ciò che dico, avrò sempre, inevitabilmente, in ciò che sto dicendo la sola risposta possibile a qualsiasi domanda possa porsi nel discorso in cui mi trovo. Non essendo la risposta altro che il rinvio di ciò che sto dicendo a ciò che si dirà. Questo non significa che creda la risposta, dice soltanto che l’accolgo come elemento linguistico, che mi interroga ulteriormente, che mi costringe a proseguire. In questo senso abbiamo detto che la parola non termina, non è un’asserzione ontologica ma la constatazione della struttura della parola che accolgo come tale, cioè in quanto atto di parola.

8.26 Portando il discorso scientifico, che è oggi il discorso occidentale alle sue estreme conseguenze, questo si dissolve, si dissolve necessariamente, ma questa dissoluzione non è un gran guaio, anzi, c’è l’eventualità che questa dissoluzione comporti la possibilità di potere accorgersi di ciò che si fa parlando, e cioè accogliere la responsabilità di ciò che si dice. Se racconto qualcosa o dico qualcosa o esprimo un giudizio, qualunque esso sia, allora posso pensare che le cose che dico rappresentino uno stato di fatto che è fuori dalle cose che dico, evidentemente, le mie parole saranno allora soltanto segni delle cose, cioè mostreranno le cose. L’esistenza delle cose in quanto tali è sempre stata necessaria per garantire che la parola non vaghi sospesa nel nulla. Che cos’è “la cosa”? Ciascuna riflessione intorno alla cosa ha data questa per acquisita, come fuori dalla parola. Cosa intendo dicendo fuori dalla parola? Intendo dire questo, che la parola non la modifica, non la trasforma, può dirla, può enunciarla, può dirla bene, può dirla male ma non può toglierla, perché esiste di per sé. Ciò che inincominciamo a considerare è l’eventualità che non sia affatto così, e cioè non tanto che la cosa non esista fuori dalla parola, non soltanto questo, ma che fuori dalla parola non potrei neppure chiedermi se esista oppure no, la questione non potrebbe porsi in nessun modo. E allora? Posso dire che esiste lo stesso? E come, e con che cosa? Cosa sto dicendo a questo punto dicendo che esiste? L’esistenza esiste di per sé oppure no? Cosa dico dicendo che qualcosa esiste?

8.27 Stiamo sempre più delineando la questione del sofista. Se tutto questo conduce, o può condurre all’impossibilità strutturale di credere, allora in questo senso si tratta di un percorso senza ritorno, cioè non ci saranno più né si daranno più le condizioni perché sia possibile credere una qualunque cosa o il suo contrario. Che non ci siano più queste condizioni non è cosa da poco, perché indica non tanto che non crederò più a questo o a quest’altro, ma non potrò credere. Perché tornare indietro varrebbe qui la possibilità di credere qualcosa, ma come posso credere qualche cosa se colgo, quindi constato immediatamente e inevitabilmente che questa cosa non è provabile, non può dirsi né darsi come vera, e quindi rimane assolutamente opinabile. È qualcosa che dico, che posso accogliere, che posso considerare, che posso intendere, posso ascoltare, posso svolgere, interrogare, ma non credere.

8.28 Abbiamo affermato che qualcosa non può dirsi ma che tuttavia si dice, cosa dobbiamo intendere con questo? Evidentemente, dicendo che non può dirsi, diciamo qualcosa che riguarda l’impossibilità di poterlo affermare come fuori dalla parola, e in effetti, non posso affermare di credere vera qualcosa in quanto per potere affermarla vera devo potere esibire un criterio di verifica, cosa che non posso fare per i motivi esposti più sopra, e pertanto questo “non posso”, riguarda l’impossibilità di stabilire ciò che la mia affermazione di verità dà, necessariamente, per stabilito. In altri termini, per potere dire di qualcosa che è vera, devo possedere un criterio che mi consenta di dire che è vera, altrimenti dire che è vera non significherebbe assolutamente nulla, mentre se dico che è vera intendo dire qualcosa, e esattamente che ciò che sto dicendo è sostenuto da un criterio che mi consente di affermare che ciò che affermo è vero, ma questo criterio che viene dato implicitamente, e che mi consente di potere affermare questo, non esiste, nel senso che per mezzo delle stesse procedure per cui affermo che la tale cosa è vera, cioè quelle che mi dicono che se dico che una cosa è vera allora posso anche provarlo, non posso provare alcunché, poiché mi trovo di fronte al regresso all’infinito che mi impedisce di soddisfare proprio quei requisiti che dovrebbero sostenere la mia affermazione di verità di ciò che credo.

8.29 Allora, affermare ciò che non posso affermare vale a formulare la forma del paradosso, cioè una affermazione che afferma di sé di non potere affermarsi, che dice di sé di non potere dirsi. Affermo l’esistenza di un principio di verità a cui mi appello, e allo stesso tempo, inevitabilmente, non posso non affermare che questo principio di verità non c’è. Non c’è utilizzando queste stesse regole e procedure che mi consentono di dire che una certa cosa è vera. Posso pronunciarla evidentemente, ma pronunciandola enuncio la forma del paradosso, che mi dice che ciò che sto affermando non può affermarsi, ma che tuttavia si dice, e pertanto ciò che sto dicendo non può essere sostenuto per via di quegli stessi criteri e di quelle stesse procedure che mi consentono di potere dire che qualche cosa può essere stabilita. Affermando questo allora compio un’operazione retorica, inserisco una variante rispetto all’invariante che, in questo caso, mi dice che ciò che sto affermando non è affermabile per quelle stesse procedure per cui posso utilizzare il termine “affermare”. Una variante quindi che produrrà effetti di senso e altre figure retoriche, che aggiungeranno altri elementi a ciò che dico e che mi consentiranno di procedere. Abbiamo considerato in precedenza che cosa accade considerando ciò che si dice come figura retorica anziché un dato di fatto o una verità, più o meno provvisoria la si voglia considerare, perché per quanto la si consideri provvisoria, proprio questo fatto mi costringe ad ammettere l’esistenza di una che non lo sia affatto, e rispetto a cui quella sarebbe provvisoria. Ci stiamo imbattendo continuamente, lungo queste considerazioni, nella struttura di cui stiamo parlando e che ci riporta incessantemente a tenere conto delle procedure che ci consentono di parlare, parlando. Dicevamo all’inizio che questa ricerca procede esattamente così come dice di procedere mostrando, in atto, la praticabilità di questo procedere che si esibisce dicendosi. Allo stesso modo potremmo considerare che quanto abbiamo detto instauri la non possibilità di credere di potere uscire dalla struttura del linguaggio, poiché ciascuna credenza crede, in definitiva, di potere uscire dal linguaggio, afferma questo, si afferma cioè come un paradosso che dice di sé di fare ciò che, per potere fare deve necessariamente non potere fare, e cioè uscire dal linguaggio, dalla parola. Questione curiosa questa, poiché ci mostra che ciò che si dice è sempre, necessariamente un atto linguistico, qualunque cosa dica o faccia questa sarà sempre una costruzione della parola, né potrà essere, in alcun modo, altro.

Ciò che ho inteso dire è esattamente questo, la possibilità che ciascuno “occorre” che incontri, occorre tra virgolette, non è una prescrizione né un obbligo, è un suggerimento a provare anche a considerare, a pensare in questo modo. Che ciò che dico, seguendo questo percorso che ho compiuto, in nessun modo può attestarsi a qualcosa e quindi credersi, non potendo attestarsi a nulla, accade che qualunque cosa io mi trovi di fronte, costruita dalle mie parole in quel momento, non termina, e soprattutto non può terminare. Da qui la domanda che insiste, il “e quindi?” di fronte a qualunque attestazione, a qualunque credenza, qualunque certezza, le cose sono così: si, le cose sono così, come le cose che sto dicendo hanno prodotto, indubbiamente, ciascuna volta. Io dico certe cose e dicendole queste cose costruiscono, costruiscono storie, costruiscono case, palazzi, costruiscono vicende, ma ciascuna volta se mi attesto a questo, allora la costruzione è pensata come assolutamente reale, e se non proseguo a dire non ho nessun elemento, nessuno strumento per potere pensare che non lo sia. Quindi lo crederò, necessariamente e inevitabilmente. Ma ecco, qualcosa impedisce l’attestarsi a ciò che dico. Se, per esempio, mi trovo a dire delle cose con qualcuno e con questo qualcuno mi trovo a chiacchierare amabilmente, poi a un certo punto, il discorso che si va facendo inserisce degli elementi, elementi che hanno a che fare con qualcosa che mi rattrista, che mi angoscia, che mi spaventa, allora che cosa è successo? Succede con questi termini che intervengono, si costruisce mano a mano una scena, una scena per esempio di paura, o di angoscia, quello che volete. Queste parole hanno costruita una tale scena che è come se mi ci trovassi dentro letteralmente, cioè fosse reale, e lo è, ma lo è fino al momento in cui questa scena, incontrando un rinvio attraverso la domanda “e quindi?”, non trova l’occasione di portarsi alle estreme conseguenze interrogando i termini che l’hanno costruita, e se occorre a uno a uno. Se occorre. Se non occorre magari è sufficiente reperire una struttura, cioè reperire la non necessarietà di questa scena che si è costruita. E allora a un certo punto, senza sapere né come né perché, mi trovo preso in un marasma e posso anche stare malissimo, esattamente come starei se questa scena fosse reale. Ma come dicevo prima lo è in effetti. Cosa distingue questa scena che ho prodotta, da un altra in cui posso essermi trovato, in altre circostanze più o meno simili e che comunque hanno prodotta una sensazione, un contraccolpo, cosa le distingue? La sensazione è la stessa, posso avere forse meno agganci, però questi li trovo se li voglio trovare, trovo qualunque cosa. Se uno vuole trovare delle giustificazioni ne trova quante ne vuole, non c’è problema, oppure conferme ad un suo sospetto. Ciascuno di voi può trovarne a decine, migliaia, forse anche di più, naturalmente a migliaia anche nel senso opposto, poi all’infinito. Dunque questa scena che costruisco come è pensabile? Come è costruibile? Innanzitutto occorre pensare la questione non in termini terapeutici, intendo dire questo, che per chi si trova nella posizione, chiamiamola così, del sofista, che questa persona costruisca questa scena e quindi stia malissimo oppure no è, per un certo verso, assolutamente indifferente, nel senso che non compatisce, cioè non soffre insieme con questa persona, per fortuna sia del sofista sia dell’altra persona, soprattutto dell’altra persona, perché se soffrisse insieme, allora si porrebbe in una posizione in cui accredita tutto ciò che quella persona ha costruito, come se si trattasse di qualcosa di inevitabile. Quando uno compatisce qualcuno, cioè soffre insieme con lui? Quando immagina che la sua situazione sia inevitabile, se uno vede quell’altro che si dà le martellate sulle dita, non patisce, può pensare che sia matto, ma non è che soffra con lui, generalmente non avviene. Dunque la condizione è di pensare che ciò che l’altra persona sta incontrando sia necessaria, cioè non possa non essere altrimenti che così. Ma colui che si trova nella posizione del sofista, sa perfettamente che non è così, sa che ciò che sta accadendo è una produzione, è una stringa di significanti, di fronte alla quale si pone come di fronte a qualunque altra stringa di significanti che producono del senso, ma un senso che di volta in volta è tale rispetto alla proposizione o alle proposizioni in cui è inserito, cioè l’uso che di questi termini si sta facendo. Se questa persona costruisce una scena che l’angoscia, allora sta facendo un uso di questi termini che intervengono nel suo discorso, che mi è estraneo, comunque mi è estraneo. Posso accorgermi dell’uso che sta facendo, posso sapere che questo uso non è necessario, ma non tanto perché cessi di stare male, questo può risultare marginale, ma semplicemente perché si accorga di quello sta facendo, che poi stia male oppure no non è questa la questione, cesserà di stare male semplicemente come effetto, è inevitabile che cessi di fare questo, ma non è questo l’obiettivo, mai. E non è una posizione, come taluni potrebbero pensare, cinica o insensibile, esattamente il contrario, il sofista non è cinico né insensibile. Perché questo? Perché di fatto fa la sola cosa che possa porre le condizioni perché quest’altra persona cessi di stare male, senza di per sé né volere né non volere che cessi di stare male. Sa che non è questa la questione, forse sa anche molte cose di più. Sa della prossimità di ciò che si intende con lo stare male con la sofferenza e l’erotismo, della prossimità fra la costruzione di una scena che angoscia, che spaventa, che terrorizza e l’eccitazione che questo comporta, e moltissime altre cose, perché le sa? Perché non può non saperle. Le sa, perché non essendo distratto da questi aspetti può, molto semplicemente, ascoltare ciò che accade, la struttura del discorso, la sua struttura sintattica, grammaticale, come si svolge, su quali elementi viene posto l’accento, che cosa insiste, che cosa ritorna. Può avere con estrema facilità tutto ciò a disposizione, e saperlo e sapere anche che l’altra persona non può saperlo, proprio perché distratta, distratta da ciò che si sta costruendo, da ciò che non può non costruire, da ciò, in altri termini, che la sta attraendo in modo irresistibile. Questa irresistibilità dettata da un modo, diciamola pure così, da un modo di pensare, dalla struttura del pensiero, struttura di pensiero tale per cui apparentemente tutto fila liscio, salvo quando viene evocato un certo significante, una certa successione di significanti, a questo punto è come con il computer, si apre un file e parte il programma e non c’è modo di fermarlo, perché è come, per usare un’allegoria, fosse programmato solo in un certo modo, cioè di fronte a una certa stringa di significanti è come se non potesse pensare altro che quello che pensa, cioè che necessariamente è così. Parlo ad un certo punto, nella Seconda Sofistica, a proposito di Cantor, del transfinito, dicendo che può accadere che di fronte a un elemento soltanto un altro si imponga, quello e nessun altro. E quella è come una sorta di pass word per accedere, l’unica possibile, per accedere alla scena che viene costruita, che è una scena di grandissima eccitazione. Tant’è che questa scena, che è di grande sofferenza, o di eccitazione, come preferite, è la stessa cosa, perché esercita una così forte attrazione? Che cosa c’è in questa scena? È qualcosa a cui possiamo rispondere avvalendoci della struttura che siamo andati mano a mano considerando, perché ciò che avviene è qualcosa di molto prossimo a una struttura sintattica, come dire che non è che non si dia la possibilità che altro possa aggiungersi ad una certa stringa di significanti, la questione è differente, è che non deve aggiungersi. Se voi interpellate la persona in quel momento particolare, riscontrate che è assolutamente inaccessibile, come se fosse sorda a qualunque altra cosa possa giungere da qualche cosa che è fuori da quella scena. Inaccessibile proprio in quanto tutto ciò che sta avvenendo non deve essere distolto, non deve essere distratto, tant’è che così accade, ma come porre a quel punto le condizioni perché possa inserirsi un elemento. Non è possibile, semplicemente. Non è possibile perché questa scena è irrinunciabile e quindi inaccessibile a tutto ciò che potrebbe disattivarla, diciamo così, e allora? E allora la questione va affrontata altrimenti, va affrontata analizzando e riflettendo non tanto su questa scena che di per sé può essere anche molto chiara. Ciò che ci ostacola, in un certo senso, è l’impossibilità di compiere atti di fede, perché se noi potessimo fare questo, sarebbe tutto molto più semplice, più semplice in quanto ad un certo punto crederei che le cose stanno in un certo modo e quindi stando in quel certo modo credo che non posso più stare male. Come accade in ciascuna cosiddetta scuola di psicanalisi, naturalmente è solo spostare la questione. Ciò che invece ci consente di fare un passo straordinario è iniziare a riflettere sulla struttura del discorso che stiamo facendo, perché che creda questa scena o qualunque altra non cambia un granché. Che creda in questa scena o che creda nella madonna che piange, per quanto riguarda il sofista è esattamente la stessa cosa, indica soltanto che si dà una struttura di pensiero che rende possibile il credere qualcosa, solo questo, è soltanto rispetto a questo che interviene. Non rispetto a ciò in cui uno crede, che è assolutamente indifferente, importa che esistono delle condizioni tali per cui sia possibile credere e su queste interviene, su queste lavora, per così dire. Come può avvenire questo? Come può avvenire che qualcuno vari, trasformi il modo in cui pensa? Apparentemente impedendogli di pensare nel modo in cui correntemente pensa, però non è sufficiente. Non è sufficiente anche se è il primo passo, in effetti è ciò che io mi trovo a fare, è l’unica cosa che faccio in una seduta, non è che faccia altro, anche quando taccio intervengo. Ecco, il modo in cui intervengo si va modificando rispetto a quanto avveniva all’inizio, quando alcune persone mi hanno conosciuto...e come si va modificando? Esattamente in questo, nel considerare con sempre maggiore attenzione le connessioni logico sintattiche del discorso, ma non facendo l’analisi logico grammaticale, non necessariamente, se non in termini parodistici, quanto e soprattutto nel riprendere un elemento così come è creduto, e inserendo questo elemento in altre strutture, non perché quella struttura in cui la inserisco sia migliore o peggiore dell’altra, è soltanto un primo modo per accennare all’eventualità dell’esistenza di un altro rinvio. Perché quando qualcosa non è più credibile, nel senso che non c’è più la possibilità di credere? Quando, evidentemente, facendo l’esempio di prima, una certa scena cessa di attrarmi. La difficoltà che si incontra nel fare in modo che cessi di attrarre è notevole, per via dell’eccitamento che produce. Non è la scena in quanto tale, ma l’eccitamento che l’accompagna, è questo a cui non si rinuncia, questo è esattamente ciò che si enuncia con lo stare male. Perché questo è così importante, perché questo eccitamento è così importante? L’unico motivo per cui non si rinuncia è che fornisce l’unico motivo, l’unica certificazione della propria esistenza. Né più, né meno. Considerate questo, adesso vi faccio un discorso che è molto poco rigoroso, però prendetelo così, come una allegoria: come vivono gli umani perlopiù, di cosa è fatta la loro esistenza, cosa cercano? Cercano qualcosa che riempia la loro vita, qualcosa che dia un significato all’esistenza, qualcosa che consenta di dire: ecco io servo a questo. La mia funzione nella società, nel mondo, nell’universo è questa. Che è esattamente ciò che fornisce la religione, un significato alle cose, un motivo delle cose, il significato ultimo, quindi dà a ciascuno una sua finalità. In questo senso perché cosa vivono gli umani? Per la grazia e la gloria di dio. Ora, questa soluzione non da tutti è accolta, e allora molti cercano altre cose ma che hanno la stessa struttura, qualcosa cioè che dia un senso all’esistenza. Quando uno sta malissimo, per qualunque motivo questo sia, immagina che il suo stare male sia qualcosa di importante oppure un’idiozia? È una questione. Può anche dire fra sé e sé che è una stupidaggine, esattamente come può dire fra sé e sé: ma guarda che stupido. E allo stesso modo, quando altri glielo fanno notare, non è affatto contento, perché non ritiene affatto di essere uno stupido, né che il suo malessere sia cosa da poco. Essendo cosa importantissima, può all’occorrenza riempire la sua vita, dare un senso alla sua vita, fornire cioè qualche cosa tale, e di una certa importanza, che lo fa muovere, per cui ecco, mi muovo per questo motivo, perché è accaduto questo e io sto malissimo e quindi devo correre ai ripari e quindi fare questo, questo e quest’altro...non posso non farlo, devo fare tutta una quantità di cose che mi impediscono di stare bene. Qualcuno, ingenuamente e incautamente potrebbe dire: ma prima stavi benissimo, perché hai fatto qualcosa per cui dopo sei stato male, per cui dopo sperare di tornare a stare bene? Allora qualcuno diceva, ancora ingenuamente: perché ti dai tanto da fare a stare bene, quando hai fatto prima qualcosa che ti ha fatto stare male per potere dopo tornare a stare bene se stavi già bene prima? Tutta questa serie di operazioni parrebbe apparentemente assolutamente, diciamola così, economicamente svantaggiosa. Un economista non avrebbe dubbi sulla sua dispendiosità...allora dunque dicevamo che economicamente questa operazione è assolutamente svantaggiosa, eppure viene fatta con una metodicità, con una precisione, con una determinazione e un impegno straordinari. Perché mai? Fatica di Sisifo, dicevano gli antichi, perché fu condannato dagli dei, per avere attentato al loro sapere, a spingere un enorme macigno in cima a un monte, arrivato in cima al monte lo rotolava giù dall’altra parte e allora lui riprendeva il macigno e lo riportava su, e così via. Da qui il modo di dire “fatica di Sisifo”, una fatica immane e assolutamente inutile. Eppure non è inutile, perché come abbiamo visto, Freud parlava di tornaconto, avrebbe detto così Freud. Ma il tornaconto qual è? Quello di avere un qualche cosa che costituisce, che fornisce un motivo validissimo per fare, perché non è che si sia consapevoli del tornaconto, che tutto questo si è messo in atto al solo scopo di avere qualche cosa da fare, adesso è detta così, molto rozzamente, ma la si accoglie come una cosa terribile che è capitata tra capo e collo, chissà per quale motivo? Forse per avere offeso qualche dio, forse...ma sia come sia, ciò che a noi interessa è intendere che ciò che avviene, e cioè “lo stare male”, ha una funzione, una funzione irrinunciabile ed è per questo che le persone non cessano di stare male. Cesserebbero da sé se non esistesse questo tornaconto, non avrebbero nessun motivo, uno non si dà la famosa zappa sui piedi senza un buon motivo, non lo fa perché non gli gioverebbe a nulla, e invece in questo caso c’è un giovamento, e il giovamento consiste nell’avere un buon motivo per vivere, tutto sommato. Ma allora ciò che abbiamo elaborato in questi mesi cosa ci dice a questo riguardo? Un piccolo accenno è stato fatto qualche tempo fa, a proposito della noia, non ricordo se qui o in libreria. Perché è quando interviene la noia, oppure quando interviene il timore della noia che si fanno pensieri che creano problemi, proprio quando tutto va bene, allora spesso interviene la noia, cioè nulla domanda, nulla questiona, nulla costringe a fare, a muoversi, ad agitarsi, a preoccuparsi, ad angosciarsi, e allora cosa si fa? Una volta una persona mi disse, in una seduta, mi chiese anzi: ma se non sto più male, che cosa faccio? Già. Trova un altro modo per stare male. Così accade che in moltissimi casi si incontri un problema, un disagio, di fronte all’eventualità di non avere nulla da fare, nulla che incomba, nulla che si sia costretti a fare, per qualunque motivo, che “dia da fare” per così dire. Allora ecco, fa questo, questo e quest’altro, ma non è soltanto un interesse per queste attività che muove, ma il timore dell’eventualità che nulla muova, che nulla dia da fare, che nulla costringa a fare, perché se non c’è nulla da fare che succede, che rimane lì, e allora pensa. Vi siete mai domandati come avvenga che a chi ha nulla da fare spesso i pensieri vadano a cose brutte. Cosa sono le cose brutte? Quelle che fanno stare male, i pensieri che avviliscono, che intristiscono, che angosciano che, insomma, fanno tutte queste cose che danno un senso. Perché? Perché se sto male, sto male per qualche motivo e quindi esiste un motivo che mi fa stare male. Almeno il male si occupa di me. Se volete proprio dirla in modo orribile. Eppure, eppure c’è almeno qualche cosa per cui io debba fare, debba muovermi, debba pensare. Sofista, invece, è chi non ha più nulla né da fare né da pensare. Allora che fa? Si trova evidentemente a pensare, come ciascuno, pensa, che lo voglia o no, che lo sappia oppure no, incontra questi pensieri, interroga questi pensieri, chiede a questi pensieri che altro hanno da dire. Chiede a questi pensieri di cosa sono fatti, chiede a questi pensieri di dire altro del gioco, non si aspetta nulla da questi pensieri, nessuna risposta nessuna certezza, nulla che possa aiutarlo a nulla, gioca per così dire, ma non è proprio che giochi, è che si trova ad accogliere il gioco del discorso che va facendo; si trova, non ha di meglio da fare. Non perché sia sprovveduto, ma perché qualunque altra cosa effettivamente lo annoia. E perché lo annoia qualunque altra cosa? E cioè esattamente tutto ciò che gli umani prevalentemente fanno per non annoiarsi, esattamente questo lo annoia.

- Intervento:...diventa apatico?

Si, apatico si, se preso alla lettera, e cioè senza sofferenza. Ma dunque lo annoia tutto ciò che si pone come una risposta a ciò che incontra e che viene imposta, viene imposta da altro che non sia il suo discorso. Perché lo annoia? Perché non dice niente. Assolutamente niente. Non dice nulla nel senso che sta a lui accoglierlo oppure no, ma accoglierlo cosa comporta? Occorre interrogare questo qualcosa, se lo interroga, in qualche modo fa già parte dei suoi pensieri, non è fuori di lui, ma è qualcosa che lo riguarda, lo riguarda in quanto è entrato a fare parte dei suoi pensieri, è stato acquisito nel senso che è nella sua parola. In questo senso è interessato a tutto ciò che fa parte del suo discorso, e non è interessato a nulla di tutto ciò che viene posto come fuori dal discorso, fuori dalla parola. Per questo non ne è interessato, non ne è interessato perché è nulla, è assolutamente nulla. E questo è come aggiungere una postilla al fondo di ciò che ho scritto e che voi state leggendo, di questo itinerario che di fatto non considera null’altro se non ciò che non può essere considerato, e forse è meglio dire qualcosa di più rispetto a questo, perché ciò che abbiamo appena detto del sofista è esattamente questo: considera soltanto ciò che non può non essere considerato. Non per una decisione, ma perché non può non farlo. E considerare ciò che non può non considerare è semplicemente, come altre volte abbiamo indicato, accogliere la responsabilità di ciò che fa, quindi di ciò che dice. Se costruisce una scena, qualunque essa sia, si assume la totale responsabilità, non la colpa, la responsabilità, come dire che è una produzione del discorso, una produzione e come tale continua a produrre altri elementi ancora. La responsabilità dice questo, che non posso non accogliere ciò si produce, non posso attestarmi a nulla, salvo rinunciare appunto alla responsabilità, che sarebbe come dire, in questo caso, che sto male perché le cose stanno così e non altrimenti che così, se sapessi che stessero in tutt’altro modo non starei male, e dunque devo necessariamente avere questa certezza, e questa certezza posso averla se e soltanto se non assumo la responsabilità di ciò che dico, come dire ancora, che ciò che dico, in quel caso è soltanto una manifestazione di qualcosa che mi trascende, direbbero i filosofi, che va al di là di me, che è fuori dalla parola, perché se è nella parola è qualcosa che si produce in questa, è un atto di parola, è una procedura linguistica e una procedura linguistica non fa stare male, non ha questa prerogativa, nessuno sta male facendo l’analisi logica per esempio, non si da questa eventualità e perché non si da? Cosa comporta trovarsi di fronte a una stringa di significanti e considerarla come tale, oppure stare di fronte a una stringa di significanti e considerarla l’espressione di un dato di fatto, di una realtà esterna? Che nel primo caso posso intervenire, posso dire, posso aggiungere, posso trasformare, posso fare quello che voglio, nel secondo caso no, la seconda posizione è una posizione terroristica. Io mi terrorizzo e all’occasione cerco di terrorizzare anche il prossimo, con gli stessi strumenti e riuscendoci anche talvolta, se il prossimo è come me disposto a credere, se no no, terrorizzo soltanto me evidentemente, non vado al di là di questo, però comunque è qualcosa che non è molto interessante, non lo è perché arresta la parola e impedisce di potere proseguire e se non posso proseguire è un problema perché o incontro una noia mortale, oppure devo pensare che qualcosa mi costringa a proseguire e che cosa se non un fatto di un certo portento, un fatto portentoso come una disgrazia. È noto che le cose spiacevoli sono più facilmente, diciamola così, gestibili di quelle piacevoli, ma non è del tutto casuale, non lo è affatto perché una cosa spiacevole è qualcosa che viene da fuori, fuori da me, perché di quella posso dire che non la voglio e lo dico a tutti, me compreso, se nessuno ci crede non importa. Quella piacevole invece, quella bella, è una cosa che io desidero, che accolgo quindi, che non posso non accogliere se dico che è una cosa piacevole, è piacevole quindi la voglio, quindi la accolgo, non la rifiuto. Invece quella spiacevole è quella che ha questa prerogativa: posso dire che non la voglio e cioè che non ne sono responsabile. Questione non da poco, che fa preferire una cosa anziché un’altra. Perché per un certo profilo sono esattamente la stessa cosa, stare bene o stare male, non cambia niente, cambia la mia posizione rispetto al modo in cui io la accolgo, se è una cosa brutta, allora per una serie di procedure grammaticali, linguistiche, posso dire che essendo male è il contrario del bene, essendo non bene è ciò che non voglio, non volendolo non me ne si può attribuire la responsabilità. Si, sto dicendo la stessa cosa, soltanto è presa in termini più radicali e cioè in questo modo, che qualche cosa occorre che mi muova, se non accolgo ciò che dico, non ho niente, assolutamente nulla e allora deve essere qualcosa da fuori a muovermi. Il discorso ossessivo la sa lunga a questo riguardo, si aspetta sempre che qualcuno lo stimoli, con tutte le allegorie erotiche che questo può comportare ma dunque, non avendo niente, se non ascolto la parola non ho nulla, allora deve venire da fuori ma deve essere qualcosa di cui posso anche non attribuirmi la responsabilità, perché se me ne attribuissi la responsabilità allora ciò che accolgo è qualcosa che voglio, qualcosa che desidero, e quindi cosa accade a questo punto? Accade che l’operazione che è fatta in precedenza, di cercare qualcosa dall’esterno, mi rinvia invece al mio desiderio, in questo caso alla mia parola, ma la mia parola non la accolgo, accoglierla comporterebbe una tale catastrofe che è preferibile non farlo. Comporterebbe l’idea di perdere tutto quello che ho, che suppongo di avere in questo caso e cioè l’amore, l’amicizia, il benessere. Allora, giusto per concludere, rinunciare alla parola, cioè non ascoltarla, comporta il non avere nulla, dunque non avere necessità che qualcosa dal di fuori mi muova perché non posso stare fermo, non è possibile, devo muovermi, questo per motivi molto complessi che un giorno vi dirò, e quindi sono in attesa che qualcosa dal di fuori lo faccia, ma che cosa può costringermi a muovermi? Qualcosa di bello, di piacevole? Si è quello che dico, certamente, cioè io mi assumo la responsabilità di volere la cosa che mi piace, di desiderarla fortemente, ma purtroppo non la trovo mai, purtroppo non la incontro mai, perché se la incontrassi allora dovrei dire che è esattamente ciò che volevo...ma allora accogliere questo diventa arduo perché sarebbe come accogliere che è esattamente questo che voglio e quindi accogliere anche che cosa necessariamente? L’arresto del desiderio, l’arresto della parola, come se non avessi più l’opportunità, a questo punto, di rinviare, perché è questo quello che voglio e in effetti accade sempre così, quando uno vuole fortissimamente una cosa e poi la ottiene, molto spesso incontra una sorta di tristezza. Ma se invece questa cosa che accade io posso.../.../che è la grammatica del linguaggio in cui mi trovo, posso dire che non la voglio, ecco che allora posso dire che non sono soddisfatto e quindi posso rilanciare la questione e continuare a domandare altro ed essere legittimato nel domandare. Anni fa dicevamo del discorso isterico che fa il verso a questo, voglio questo, eccolo, ma non era questo è quest’altro che volevo, eccolo, no non era questo, era quest’altro. La sofferenza serve a questo prevalentemente, o anche ad altro ma ha un sacco di virtù, se la abolissero sarebbe una catastrofe, ma non lo faranno...

- Intervento: necessità della sofferenza, pensavo alla dottrina della salvezza.

Un’altra faccia della medaglia, quando il salvatore viene eliminato, terminato? Quando si pensa che lo sia stato davvero, non è tollerabile una cosa del genere, lo si fa fuori subito...

- Intervento: questione di Mosè...

No, perché il salvatore non ha salvato nulla e ancora deve venire, per gli ebrei dio è qualcuno che ha mandato una serie di maledizioni per un motivo di cui ancora non si capacitano quale possa essere, e allora ecco la necessità di leggere e rileggere la Torà e la Bibbia, per cercare di capire che cosa dio vuole esattamente da loro, perché se li punisce allora vuol dire che hanno fatto qualcosa...

- Intervento: la questione del Cristo Salvatore...

Si, se uno mi salva, cioè mi toglie la sofferenza, mi toglie il motivo di esistere, tant’è che Gesù ha salvato tutti e che fine ha fatto? Orribile, la peggiore che potesse farsi...ecco però che cosa diceva Sandro? La dottrina della salvezza certo

- Intervento: sofferenza e noia da combattere. Sofferenza funzionale al mantenimento del buon ordine sociale. Sofferenza è la presa di coscienza di questa possibilità di errore.

Se c’è l’errore allora qualche altra cosa è vera, devo muovermi in quella direzione, quindi si deve fare, e si da un buon motivo a ciascuno per esistere. Errore nell’accezione più ampia, come l’accorgersi che qualcosa non ha funzionato così come avrebbe dovuto, se sto male è perché c’è qualcosa che non va, in questo caso l’attesa è che altri facciano in modo tale che io non stia male e cioè che altri mi consentano di stare bene, è una posizione di dipendenza totale che non lascia possibilità di dire niente.

- Intervento: la sofferenza è male, distanza da dio. Popper lancia un messaggio che nessuno si metta al posto di dio.

Freud direbbe che è una posizione isterica, cioè indica ad altri la verità senza assumerla, Lui si fa soltanto portavoce.