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VINCERE UN AGONE DIALETTICO   

 

                           

Siamo arrivati all'ultimo di questi incontri, cinque con questo. Vincere un agone dialettico, come si fa? Questo è il titolo. Intanto un agone dialettico è un gioco che prevede generalmente due giocatori, come molti giochi, e avversari tra loro, nel senso che la vittoria di uno coincide generalmente con la perdita dell'altro. Non è indifferente che sia un gioco che si svolge tra due giocatori, c'è un motivo. Anzitutto per un buon dialettico è un esercizio retorico, un gioco, come dicevamo, che come tutti i giochi prevede delle regole, senza le regole infatti, di nuovo come qualunque gioco, non è possibile giocare. La condizione fondamentale è che quel gioco sia possibile da giocarsi, ma quando è possibile giocarsi? Quando esistono delle regole (perlopiù regole di esclusione, se una deduzione è vera allora vorrà dire che è esclusa quella contraria, che si chiamerà falsa), poi delle regole per stabilire la verità, perché per potere decidere chi vince un agone dialettico occorre pure che esista un criterio per poterlo fare. Dunque delle regole per stabilire la verità, cioè per stabilire chi vince l'agone, se no come facciamo a sapere chi vince? Ma ciò che risulta essenziale in tutto ciò, oltre all'esistenza di regole, è questo, cioè che è assolutamente indispensabile che la verità sia stabilita, stabilito che cosa sia, se questo non avviene, il gioco non potrà farsi. Stabilire cioè che è vero, per esempio, che nel gioco del poker quattro re siano un punteggio superiore a quattro dieci, questo deve assumersi necessariamente. Detto questo, diciamo ancora che avviene questo gioco fra due persone ma non soltanto, avviene anche tra una persona e una questione. Pensate alla scienza per esempio. Nel discorso scientifico l'agone dialettico si gioca fra uno scienziato, prevalentemente, e un evento. E' essenziale che anche questo venga considerato un agone dialettico, cioè un esercizio retorico, perché di fatto è di questo che si tratta, un esercizio anche nei confronti di ciò che è comunemente inteso essere assolutamente certo, stabile, o definitivo, come per esempio la legge di gravità. Pare inconfutabile che qualunque grave posto sul pianeta, se libero da vincoli tenda irresistibilmente verso il centro della terra, ma una affermazione del genere, è inconfutabile? Occorre fermarci un momento a questo punto, e nel frattempo vi segnalo un paio di libri che potete leggere, non compaiono qui nella bibliografia, una è una riedizione di un vecchio testo del '47 di Untersteiner, che si chiama I Sofisti, è stato edito dalla Mondadori, da Bruno Mondadori, ed è quanto di meglio si possa trovare sulla piazza intorno ai Sofisti, indiscutibilmente. Un testo fondamentale per sapere chi erano e cosa facevano i Sofisti esattamente, l'altro è invece un libro di un tal Massimo Piattelli Palmarini, L'arte di persuadere, anche questo è edito da Mondadori, questo però non è Bruno ma Arnoldo. Questo è di natura amena, vi spiega un po' che cos'è la retorica in termini molto semplici, me l'ha prestato un amico che me lo ha segnalato, e dice delle cose che possono leggersi. Proviamo a fare un agone dialettico con questo signore, Massimo Piattelli Palmarini, dice ad un certo punto, nel capitolo Contra pragmaticos: C'è chi sostiene che il significato delle espressioni linguistiche e l'uso che ne facciamo siano sempre intimamente e inestricabilmente compenetrati. Chiamerò questi i "pragmatisti". Il pomo della discordia tra me e loro sta nelle parole "sempre" e "inestricabilmente". Per dare più vigore a questa tesi, sulla scia del filosofo Ludwig Wittgenstein, i pragmatisti affermano che l'uso è il significato. Il filosofo americano John Searle ha avuto buon gioco a ridurre questa tesi all'assurdo. Immagina un ufficiale americano che, durante la seconda guerra mondiale, si sia perso sulla linea del fronte. Supponendo che i tedeschi non sparino a vista su uno dei loro, e che gridare una frase in tedesco basti a farsi riconoscere come uno dei loro, fruga nella memoria per farsi venire in mente una frase in tedesco. Tutto quello che riesce a ricordarsi è un verso studiato a scuola: "Kennst du das Land wo die Zitronen blühen?" (Un verso di Goethe sull'Italia che significa: "Conosci la terra dove fioriscono i limoni?"). Progetta, alla prima avvisaglia di una pattuglia tedesca di gridare forte e chiaro questo verso. Supponiamo che lo faccia davvero. L'uso di questa frase sarà quello di dire "Sono uno dei vostri, non sparate", ma la frase non significa "sono uno dei vostri, non sparate", significa: "Conosci la terra dove fioriscono i limoni?". Sarebbe pazzesco sostenere il contrario. E se i pragmatisti ritorcessero che l'uso a cui fanno appello, quello che si identifica con il significato, deve scaturire entro un'intera comunità omogenea di parlanti, non in un isolato e sventurato individuo sperduto sul fronte, allora potremmo benissimo immaginare che vi siano, non uno, ma mille ufficiali americani sperduti e che tutti sappiano solo quel verso e che tutti progettino di usarlo in quel modo. Forse che questo basterebbe a trasformare il significato di quel verso di Goethe in "sono uno dei vostri, non sparate"? Certo che no. Il significato, normalmente, si intreccia con l'uso ma non può essere identificato con l'uso. In questo modo dunque sarebbe confutato ciò che sostiene Wittgenstein, il quale come è ricordato anche qui, e come molti di voi sanno, afferma che il significato di un'espressione linguistica è l'uso che ne viene fatto, Searle dice di no. E John Searle è uomo d'onore, anche Massimo Piattelli Palmarini, sono tutti uomini d'onore, tuttavia... vediamo se è proprio così, cioè se è proprio così facilmente sostenibile una cosa del genere. Dunque l'uso sarebbe il significato, dice Wittgenstein, di un espressione linguistica, Searle dice di no, e ha fatto il suo contro esempio. Ma da questo controesempio cosa dobbiamo trarre? Evidentemente che il significato è uno, necessariamente, tant'è che dice che questa frase vuol dire quello, e che sarebbe pazzesco sostenere il contrario. A questo punto possiamo usare varie forme di argomentazione contro questa tesi di Searle. Non possiamo usare quella delle auctoritates, anche perché si suppone che Searle, sia già lui un'autorità nel campo della filosofia del linguaggio, e quindi non potremo obiettargliene un'altra, già lui nega quell'altra auctoritas che sarebbe Wittgenstein, però possiamo utilizzare il buon senso, quello comune, più comune possibile, per chiederci se è proprio così, vale a dire che se il significato delle espressioni linguistiche fosse esattamente lo stesso per tutti, allora da dove sorgerebbero tutta una serie, una quantità sterminata di dissidi, di fraintendimenti, di guerre ecc. Prendete l'esempio che abbiamo fatto mille volte rispetto alla nozione di democrazia, a destra è intesa in un certo modo, a sinistra in un altro. Ciascuna delle due parti ha un significato molto preciso di democrazia, per Searle dunque sarebbe pazzesco sostenere l'una cosa o l'altra, in quanto dovrebbe essere una sola, che è esattamente ciò che ciascuna delle due parti sostiene cercando di convincere e persuadere l'altra con i cannoni che è proprio così. Questo muove dal luogo comune, muoviamo invece dalla logica più stretta e riduciamo all'assurdo la sua argomentazione, quella di Searle: dunque le cose hanno un significato necessariamente, come lo sa? Lo sa attraverso altre proposizioni, le quali avranno un altro significato e così via all'infinito, cioè non potrà sapere mai qual è il significato esatto, a meno che, come sostiene Wittgenstein, il significato non sia l'uso che ne viene fatto. Come vedete non c'è tesi che non possa essere demolita, neanche laddove si parli di cose che sembrano per tutti assolutamente necessarie. Prima evocavo la legge di gravità, si chiama legge e non teoria proprio per questo, perché è stabilito che è così. Vediamo se è proprio così. Ci cimentiamo con una delle questioni più ardue, ché la legge di gravità sembra difficilmente confutabile, proviamo. Facciamo esempi di agoni dialettici, lo avevamo detto l'altra volta che avremmo fatto esercizio. Dunque rispetto alla legge di gravità, qual è la regola fondamentale, il principio su cui si fonda? Se voi riflettete bene, trovate che è l'osservazione: io vedo che se prendo questa bottiglia e la lascio cadere questa cade, e poi troverò, attraverso il calcolo numerico, delle giustificazioni di questo. Però è ciò che vedo che in prima istanza mi costringe a prendere una direzione, dunque l'osservazione empirica, è questa che occorre che noi confutiamo. Ciò che osservo, qualunque cosa sia, è qualcosa o è nulla? Se è nulla, non osservo nulla. Occorre che dica che è qualche cosa. Se è qualcosa come lo so? Lo so per emanazione, per sentito dire o ho qualche elemento più certo, più stabile, più sicuro? Occorre pure che il sapere sia sistemato e organizzato in modo tale da essere affidabile, ché in caso contrario la cosa è inficiata da sé, dunque dicevamo che ciò attraverso cui lo so, qualunque sia il sapere che ne traggo, è un sistema di inferenze, soprattutto di deduzioni, è questo che consente e che organizza alcuni dati in modo tale per cui anche questi dati siano tali, senza questa struttura potrei osservare qualcosa? Questo è il punto della questione, tenendo conto che senza questa struttura non c'è né il verbo osservare, né nessun altro verbo di nessun tipo, né alcun sostantivo, né aggettivi, né articoli, nulla di tutto ciò che costituisce il linguaggio, dunque non c'è nessuna osservazione. Allora non posso, o meglio, in questo caso, posso soltanto perché esiste il linguaggio. Facciamo il caso contrario, e cioè che osservi nonostante il linguaggio; anche se non ci fosse il linguaggio osserverei lo stesso. Allora che cosa farei osservando qualcosa? Di nuovo questa domanda mi rinvia immediatamente, intanto, al come so di fare qualcosa e, per i motivi di prima, fuori dal linguaggio non faccio niente. Ma allora questo qualcosa che osservo è tale per via del linguaggio o è il linguaggio? Adesso andiamo più nel difficile, intanto, come li distinguo? E' una bella questione, come distinguo le cose che incontro, che vedo, dal linguaggio che mi consente di fare tutte queste operazioni? Attraverso che cosa le distinguerò? Ho altri strumenti che mi consentano di costruire qualcosa se non quelli che chiamiamo linguaggio, cioè quelli che mi consentono di costruire preposizioni, espressioni, deduzioni, ecc.? Fuori da questa struttura, potremmo a buon diritto dire che non c'è nulla, anzi, che la proposizione stessa che afferma: "qualcosa è fuori dalla parola" è la formulazione stessa del paradosso. Dunque se non ho nessun elemento per distinguere ciò che osservo dal linguaggio che mi consente di fare questa osservazione, e tenendo conto che ciò che osservo si produce come tale per via di questo strumento, chiamiamolo così, allora posso essere indotto a pensare che effettivamente ciò che osservo non è altro che il linguaggio che mi consente di osservare. Detto questo, allora la domanda "la legge di gravità è vera o è falsa?", come può formularsi a questo punto? Se, come dicevamo le cose si producono all'interno di questa struttura che potete pensare, in termini un po' paradossali, a un tempo chiusa e non finita, chiusa e aperta (chiusa perché non c'è uscita dal linguaggio, infinita in quanto non c'è l'ultimo elemento, poi vedremo più in là magari questa questione che è tutt'altro che semplice), che senso ha allora porsi questa domanda? (se la legge di gravità è vera o falsa?) Se accolgo l'osservazione come un fatto, per esempio extralinguistico, e quindi immutabile, certo, allora è vera in quanto stabilisco che lo sia, in caso contrario no. Perché no? Perché in questo caso contrario stabilisco che la legge di gravità ha una premessa che è l'osservazione che non può essere di per sé incondizionatamente vera, perché linguaggio, perché elemento del linguaggio e non qualcosa fuori dal linguaggio, ed essendo elemento del linguaggio è continuamente mutevole. Dunque non potrebbe dirsi vera perché non necessaria e ciò che non può dirsi vero, la logica lo ritiene falso. Può ritenerlo possibile, ma che cosa vuol dire, che sarà vera? E come? Se dovrà comunque essere l'esperienza a verificarla saremmo daccapo. Ora torniamo all'agone dialettico, l'abilità nel gioco dialettico sta nel fare accettare all'avversario le proprie premesse come necessarie. Per esempio se riuscissi a far assumere l'osservazione come necessaria, allora anche la legge di gravità sarebbe anch'essa altrettanto necessaria. Con necessario, intendo necessariamente vero e cioè che esclude l'eventualità che possa darsi il contrario. La esclude logicamente. Questi piccoli esempi che vi ho fatti, quello che riguarda J. Searle o questo rispetto alla legge di gravità hanno soltanto il fine di illustrare che cosa il linguaggio può fare o disfare, e indicare in tutto ciò l'operazione più interessante da compiere, che non è, come dicevamo già tempo fa, vincere altri in un agone dialettico, in questo gioco, in questa partita, ma giocare con avversari zero, cioè giocare contro se stessi, vale a dire che in questo caso l'avversario sono le tesi che io sostengo, e l'agone dialettico si impegna fra le tesi che sostengo e le loro contrarie. Cosa ci distingue dal falsificazionismo? o dalla falsicabilità di Popper? Secondo lui questa operazione dovrebbe condurre mano a mano a stabilire o meglio, ad avvicinarsi a ciò che è necessariamente vero, quindi alla verità; invece in questo caso no, perché non abbiamo ipostatizzata alcuna verità. Nel caso di Popper l’operazione è finalizzata al progresso, in questo caso no, è finalizzata unicamente a costruire le condizioni perché non ci sia più la possibilità di credere, qualunque cosa, progresso compreso, e avvalendoci in tutto ciò ovviamente e soltanto di ciò di cui possiamo disporre, e ciò di cui possiamo disporre è ciò che, dicevamo già la volta scorsa, non possiamo negare. Solo questo, che è uno strumento che consente di procedere senza dovere illudersi, illudersi che le cose stiano in un certo modo, perché questo strumento fornisce immediatamente e simultaneamente gli strumenti per negare questa proposizione che afferma che, per esempio, ci avviciniamo alla verità, ricordandoci continuamente che la verità non è altro che ciò che noi crediamo che sia, una regola del gioco che stiamo facendo, se cambiamo regola cambiamo la verità e così via. Cosa abbiamo fatto in questi cinque incontri? abbiamo considerato semplicemente che non c'è assolutamente nulla che costringa a credere, cioè dare il proprio incondizionato assenso a qualche cosa. Ciascuno può farlo ovviamente, non è proibito, ma nulla lo costringe, semplicemente. Io voglio credere che questi occhiali siano la reincarnazione di mio nonno, va bene, non c'è nessun problema, posso crederlo, soltanto ho questo elemento in più che mi proibisce di pensare che sia necessariamente così. Ecco allora che ciascuna affermazione che stabilisca come stanno le cose si pone come una sorta di figura retorica, un'ipotiposi, letteralmente uno schizzo, un disegno, qualcosa che illustra, mostra, niente di più. Non è facilissimo allontanarsi da una struttura di pensiero che riguarda il discorso occidentale, ma non soltanto, dove si dà quasi per implicito, quasi per scontato, che debba esistere un qualche cosa che non sia un gioco linguistico, e allora tutte le varie dottrine, dall'illuminazione di vario genere fino allo scientismo più spinto, sono ciascuna volta mosse e corroborate da questo pensiero, dall'idea di fare luce, in definitiva di smascherare. Ma smascherare l'inganno, ecco qui (nel libro di Palmarini) nel sottotitolo dice: come impararla, come esercitarla, come difendersene, dalla retorica evidentemente, il soggetto è sottinteso. Curioso che in prima di copertina abbiano messo un dipinto di Tissot, L'ultima sera si chiama e c'è appunto un giovanotto intento a persuadere la fanciulla, non sappiamo a che cosa ovviamente, e in effetti la persuasione ha molto a che fare con la seduzione, ma dicevamo delle illuminazioni o comunque dello smascherare per vedere cosa c'è dietro, si può pensare anche questo certo, che in fine tolta l'ultima maschera ci sia il nudo della verità, in questo caso sarebbe una sorta di streap teese, alla fine c'è il nudo della verità, quello che c'è sotto appunto. Come dicevamo si può pensare qualunque cosa, anche questo. Può accadere di constatare che il proprio discorso si trovi in una struttura religiosa, vale a dire che sia sorretto da un elemento che sia creduto essere fuori dalla parola e quindi immobile e identico a sé, e sul quale si è costruita la propria esistenza. Può non essere interessante perché rappresenta comunque un impasse, un intoppo, ma non per questo è il male, è soltanto un impedimento, impedimento a giocare di più, tutto lì, a divertirsi magari di più, in varie accezioni. Siccome è l'ultimo di questi incontri mi piacerebbe che ci fossero delle questioni da parte vostra a partire da quanto detto adesso, ma anche negli incontri precedenti. Vi leggo i titoli, perché potreste non ricordarli più: Che cos'è un'argomentazione? - Tecniche dell'argomentazione - La dimostrazione - La confutazione -. Se avete delle domande, dei quesiti, delle curiosità. Qui consideravamo Cicerone, che considerava che chi parla meglio pensa meglio, non aveva mica torto. Ha maggiori strumenti, più raffinati, più sofisticati, tutto sommato è meno ingenuo, cioè ha più mezzi per intendere, per cogliere il lato debole anche delle proprie argomentazioni, e ciascuna credenza, ciascuna superstizione probabilmente ha molti lati deboli. Si tratta (e questo è un lavoro che faremo in seguito) di intendere che cosa fa sì che una persona, nonostante sappia della non provabilità di ciò in cui crede creda lo stesso, anzi più fortemente e più fermamente. "Credo quia absurdum", diceva già Tertulliano, poi ripreso da Agostino e da molti altri, e più è assurdo e più lo credo, sembra curioso però ciascuno ha dei buoni motivi per farlo. E qui possiamo riagganciarci a qualche cosa che dicevamo all'inizio di questi incontri, a proposito dell'argomentazione e cioè nella necessità di credere, che taluni hanno di credere, nell’accezione che indicavamo prima, cioè che diano il loro consenso incondizionato, e più è incondizionato e meglio è... - Intervento: ....la parola che cos'ha a che vedere con l'esperienza?... Che dirle? E' chiaro che se lei ha avuto occasione di parlare con i marziani, (...) Non lo so, quando avrò l'occasione di incontrarli anch'io potrò discutere con loro, ma adesso...(....) Occorre che ci sia da parte dei marziani... io sono disponibile a parlare con loro. (...) Sì, certo, (....) Vede, il problema qui è che... ecco dicevo all'inizio nell'agone dialettico, occorre accogliere delle regole per potere giocare, e ci sono regole che occorre accogliere per potere discutere. Per esempio io potrei obiettare a quello che lei dice che dio mi ha detto che ciò che lei dice è falso, e la discussione si fermerebbe lì e allora non è in questi termini che io intendevo un agone dialettico, poi lei dice della pistola, se qualcuno mi punta una pistola posso avere qualche inquietudine, ma se la punta su una mosca, questa sarà inquieta, oppure no? Oppure continuerà a saltellare incurante della sua P38? E perché lo fa? Perché è assolutamente incurante? Perché non sa. Non sa che cosa lei ha in mano, non sa perché non ha gli strumenti per potere organizzare le cose in modo tale da sapere che la cosa che lei ha in mano è una minaccia... (la pistola è in mano ad un altro uomo, non a una cimice) sì, ma io sto dicendo che questo messaggio che lei passa è tale perché esiste una struttura che mi consente di riconoscere quell'aggeggio che lei ha in mano, di sapere che cosa può fare, di sapere che cosa mi può succedere, di sapere una quantità sterminata di cose, se io non sapessi nulla di tutto ciò la sua pistola non avrebbe nessun effetto, cioè questa esperienza di cui lei parla è organizzata in un certo modo, (non è per struzzi, non tutti possono vedere, vogliono vedere) sì, ma anche se la guardasse, questo struzzo, dritto nella canna della pistola, sarebbe la stessa cosa, perché non sa cos'è, e quindi non ha gli strumenti per potere allarmarsi. In questo caso però resta, rimane la questione, e cioè che una questione posta in questi termini non ci dice niente, è come se dicesse: dio mi ha rivelato questo. Va bene, e allora? Che ce ne facciamo? (...) Sì, cessa, non ha più nessun interesse. Sì, chi altri vuole aggiungere qualche cosa? Anche a partire da questo aspetto e cioè dalla necessità di stabilire delle regole per giocare. - Intervento: se riuscissi a confutare ogni volta e a dimostrare ciascuna volta che è falsa, la cosa che dice, non ci sarebbe direzione, e se facessi ogni volta così? Diventerebbe un nichilista prima, e un depresso poi, e cioè il depresso raggiunge proprio questa posizione dopo avere considerato (in filosofia si chiama nichilismo, in psichiatria depressione) che ciascuna via non è quella vera non resta che la paralisi. Però occorrerebbe chiedersi a questo punto come mai per esempio cerca la cosa vera, e che cos'è la cosa vera per lei, perché il malinconico è tale perché ha considerato che nulla più ha un senso, così come il nichilista. Entrambi però potrebbero fare qualcosa di più e domandarsi intorno al senso, per esempio, a quali condizioni qualcosa ha senso, che cos'è questo senso che deve avere un solo significato? Sembra un circolo vizioso, Wittgenstein ha proposto questa soluzione, che per qualche verso ha dell'interesse, e cioè significato come uso, l'uso che ha, l'uso che ha per il singolo ovviamente, per cui per quell'ufficiale americano voleva dire effettivamente questo, l'uso era quello e non un altro, esattamente come un codice... - Intervento: allora non abbiamo dato ragione a Wittgenstein se anche Searle... No, siamo andati oltre, e cioè abbiamo detto che Searle ha ragione, e che Searle ha torto. Che Wittgenstein ha ragione, e che Wittgenstein ha torto, a seconda delle regole che assumiamo per giocare. (...) Sì, certo questo è l'aspetto centrale, per riprendere la questione del malinconico, lì c'è una definizione di senso che viene data e che deve essere reperita nel mondo che lo circonda, cioè per esempio la mia vita non ha senso, ma cosa vuol dire esattamente? Che non si attaglia a una certa cosa che io immagino, che non risponde a certi requisiti, che anche per me sono piuttosto vaghi e quindi è chiaro che con queste premesse non la troverò mai, e quindi posso stare tranquillo che la depressione andrà avanti all'infinito, nulla la fermerà. Poi può accadere che si fermi certo, ma è difficile perché ha un sacco di vantaggi. In genere il depresso non abbandona la sua condizione, però può farlo, non è una condanna... - Intervento: allora la retorica ha una funzione utilitaristica, cioè nel momento che affermo una cosa, poniamo che mi dia fastidio, dimostro che è falsa, basta, non da più fastidio. In un altro caso ritengo un'altra cosa vera che invece mi rende felice e non sto neanche a perdere tempo a dimostrare che è falsa... Sì, questo è l'uso che viene fatto, l'uso forense, dove viene dimostrata, a seconda della necessità, l'una cosa e oppure l'altra. Se conviene l'una, si dimostra che il tizio era presente... se conviene l'altra, si dimostra invece che non era presente. A seconda dell'opportunità... Quest'uso utilitaristico è anche quello per cui la retorica, dopo Quintiliano, è caduta in disuso e non soltanto, è stata abbandonata come una sorta di strumento ingannevole assolutamente inadeguato a raggiungere il vero. Allora poniamola così: che ciò che le è utile, qualunque cosa, sia è tale perché rispetto a questa utilità immagina di trovare un vantaggio, l'utilità stessa è già un vantaggio. C'è a questo punto una riflessione che può farsi intorno, chiamiamola così, all'inarrestabilità di un percorso di questo tipo. Con inarrestabilità intendo che non è possibile fermarsi, se non consapevoli di ciò che si sta facendo, non è possibile fermarsi per esempio alla considerazione: "siccome questo non mi aggrada, allora è falso oppure è inutile". Ma più radicalmente ancora, possiamo dire che il percorso, così come quello che stiamo avviando, pone le condizioni, anche, perché questo "ciò che io credo essermi utile" sia, questo stesso immediatamente reperito all'interno di un gioco, e cioè non possa credere a nessuna utilità in quanto tale, se non come regola del gioco che sto giocando in quel momento e nulla più di questo. Diventa, insomma molto difficile, come si usa dire, barare con se stessi, perché ciò che interessa, ciò che muove, ciò che seduce letteralmente, molto più che l'utilità rispetto a una qualunque cosa è la ricerca teoretica ed è qui che mi riconnetto a qualcosa che dicevo fin dall'inizio, e cioè come ad un certo punto, lungo questo itinerario si imponga questa urgenza rispetto alla quale molte altre cessano di essere così interessanti, così attraenti. Come se si giungesse in qualche modo a domandarsi "e allora, e quindi?". E quindi niente. Quando si conclude che qualunque elemento, qualunque considerazione, non fa altro che girare intorno a se stessa, allora ciò che interessa e che continua a interessare e che impedisce il nichilismo, radicalmente, è il condurre anche il nichilismo alle estreme conseguenze, dove la totale assenza di senso o di verità viene inscritta all'interno di un gioco linguistico che fa questo gioco, e fuori da questo gioco linguistico la proposizione che afferma che nulla ha senso, non è niente. Certo, la retorica può essere utilizzata ai propri fini ed è così che avviene perlopiù, dal fanciullo che cerca di persuadere la fanciulla, al governo che cerca di persuadere sulla necessità di una nuova tassazione, la struttura è la stessa. Si tratta di persuadere l'altro che ciò che io voglio che faccia è giusto, è bello e necessario, mentre non lo è affatto e allora sì, certo, la retorica viene utilizzata a questo fine, ma direi che viene utilizzata a questo fine continuamente da ciascuno, in qualunque circostanza, direi quasi continuamente, nelle conversazioni, nel lavoro, con gli amici, con chiunque dunque si trova a dovere persuadere o a dovere confutare delle tesi altrui e quindi compie una operazione retorica, cercando di avvalersi di tutti i trabocchetti e gli stratagemmi che riesce a reperire. Un po' come Antonio nei confronti di Bruto, in alcuni casi in buona fede in altri no, ma la situazione non cambia di molto. In questo caso sì, la retorica è l'arte di persuadere il prossimo. Come quella definizione, non mi ricordo in quale film, dove a l primo che chiedeva che cosa fosse la psicologia, il secondo rispondeva che la psicologia è l’arte di fregare il prossimo prima che il prossimo freghi te. E' una definizione anche questa, sicuramente non peggiore di molte altre. Sì, forse stava per aggiungere qualche cosa? - Intervento: I sofisti nella storia della filosofia non erano considerati filosofi, lei per esempio sembra più un filosofo che un sofista. Io? Sì? Ero convinto del contrario. Però se lei dice così, avrà dei buoni motivi. Ecco, i sofisti, sì nei manuali vengono trattati male in genere, però i manuali non è che siano molto interessanti, i manuali di storia della filosofia,....(....) Cicerone era anche lui molto abile, non è annoverato tra i filosofi, qualche volta sì, fra gli Eclettici...(...) sì, come dicevo, se volete sapere tutto o quasi, comunque cose interessanti sui sofisti occorre che leggiate Untersteiner. Saprete tutto sui sofisti. Hanno avuto molti meriti i sofisti, pur non essendo considerati da Platone e neanche da Aristotele fra i filosofi, perché insegnavano un falso sapere, cioè non inseguivano la verità, non smascheravano, anzi, se mai mascheravano tutto. Però allora andava molto di moda sapere compiere queste operazioni e cioè sapere vincere un agone dialettico, e i sofisti insegnavano a fare questo, allora andava di moda, come adesso andare da Maurizio Costanzo, e il giovane di buona famiglia andava dai sofisti, apprendeva l'arte della dimostrazione, della confutazione. Loro non insegnavano cosa fosse il vero, insegnavano soltanto come si fa a dimostrare che una cosa lo sia, oppure non lo sia, mentre tanto Platone, quanto Aristotele e poi tanti altri volevano proprio questo, il vero assoluto, quello ultimo, quello definitivo, quello costrittivo. Riuscendoci oppure no, questo è un altro discorso. I sofisti non muovendo dalla necessità di trovare la verità, e anzi insinuando che questa sia soltanto quella che ciascuno crede che sia, educavano i giovani a qualche cosa che non piaceva molto al governo, tant'è che venivano cacciati di città, in città, però se la passavano bene, si facevano un sacco di soldi, pur girando da una città all'altra. E lo stesso Socrate era un sofista, in quanto utilizzava, almeno così ci racconta Platone, gli stessi strumenti, sia per dimostrare che per confutare, gli stessi sofismi. Tutte le cose che dicevo, sono sofismi e cioè argomentazioni che non si curano minimamente di reperire qual è la verità, o di avvicinarsi alla verità, ma che mostrano semplicemente l'utilizzo di regole per stabilire la verità, quella che ritenete più opportuno che sia. - Intervento: ... Questa è una bella questione, sì, ci sono risposte che andrebbero articolate in più punti, perché ci sono aspetti sociali, politici, economici che intervengono e che giustificano almeno in parte il successo e la fortuna di questo particolare gioco linguistico, che ha tra le sue regole, una che vieta di pensare che sia un gioco linguistico. Come inserire in un sistema chiuso, in un gioco, una regola che vieti che si pensi che ciò che si sta facendo sia un gioco linguistico, così come nella religione c'è una regola che vieta di mettere in dubbio l'esistenza di dio, se uno è credente, se no cambia tutto, ma se no occorre che si attenga a questa cosa necessariamente. Ora il problema è che con quest'arte che i sofisti andavano divulgando, si vedeva minacciata (questo è l'aspetto politico) la possibilità stessa di governare. E' come se i sofisti enunciassero la nobile menzogna come un fatto totalmente gratuito, per cui anche la necessità stessa di un governo, dello stato, poteva essere messa in discussione. Ora chi ha il potere generalmente non apprezza discorsi del genere e spesso fa di tutto per impedirli e spesso ci riesce, anche perché avendo il potere ha anche i mezzi, soldi, armi, le pistole di cui dicevamo, con cui rinforzare i propri argomenti. Chiaramente non è soltanto questo che funziona, ma funziona anche una sorta, come chiamarla? di attrazione verso il credere che esiste in molti, forse nei più; questa sorta di seduzione, il piacere di essere sedotti, che è un'arma a doppio taglio, perché se è vero che da una parte alletta, perché fa supporre che comunque altri si occupino di me e quindi nella difficoltà mi aiutino, nell'incombenza mi sollevino e soprattutto mi proteggano, l'altro filo della spada, che è ancora più affilato, è quello per cui se mi metto nella mani altrui da quel momento sarò soggetto agli umori di altri a cui io rimetto, praticamente la mia esistenza sarà nelle loro mani. L’enunciato è grosso modo questo: "se mi credi io mi occuperò di te, farò tutto quello che ti è necessario perché tu sia felice". Basta che ti attenga alle regole che io ti dette. Lei pensi alla mafia, è una struttura molto simile. La mafia offre protezione e rispetta ciò che promette, non manca mai alle promesse, anche se promette morte se sgarra, però di fatto effettivamente protegge, da chi? dalla mafia soprattutto, ma anche da altri che potrebbero minacciarla. Lei è sicuro in questo modo che se ha dei nemici questi verranno eliminati. Ora lei ha una vita tranquilla, non avendo nemici non ha questa necessità. Magari in altri paesi la cosa può essere più importante e più persuasiva, ma sia come sia, in ogni caso lei si mette nelle mani di altri che le promettono in cambio di proteggerla, di accudirla, di sollevarla comunque da tutto ciò di cui lei non ha intenzione di occuparsi, facendole credere che invece sono cose di cui è necessario occuparsi. Ecco perché da sempre, almeno da quando c'è traccia di civiltà, questo bizzarro fenomeno per cui gli uomini amano essere governati e governare. Dico bizzarro fenomeno, perché se uno ci riflette bene perché accade? Non è che non esistano giustificazioni, giustificazione alla necessità di una cosa del genere se ne possono trarre moltissime, e altrettante contrarie. - Intervento:... Certo, sì i sofisti effettivamente facevano questo, insegnavano questo unicamente per soldi, importava molto poco, almeno dalle poche notizie che abbiamo di loro, importava molto poco che il loro pensiero si divulgasse o avesse proseliti, importante che li si pagasse bene, poi... Ecco invece possiamo pensare diversamente, e cioè provare a discutere, discutere con voi ovviamente, di alcune cose che il discorso occidentale ha come livellate, spianate. In effetti si tratta soltanto di riflettere, senza arrestarsi, e chiunque può farlo senza nessuna istruzione particolare di nessun genere. E non c'è una difficoltà maggiore per una persona che abbia poca istruzione di quanta ci sia per una persona con grandissima istruzione e cultura, anzi direi che è esattamente la stessa cosa. Perché non è questione di quanto uno sa, ma di quanto uno crede, e allora una persona che... prenda J. Searle, che è noto come uno dei più grandi filosofi del linguaggio, se lui crede una cosa del genere è al pari di qualunque fedele di qualunque religione, di qualunque movimento. Ha migliori strumenti per accorgersene? Che ne so? Forse. Forse sì, forse no. Ma non è avvantaggiato J. Searle, o chiunque altro. - Intervento:... Forse è l'operazione più difficile quella di cessare di credere, anche perché in effetti come dicevo, di qualsiasi tipo sia la vostra istruzione, la vostra cultura, non cambierà molto. Si tratta soltanto di reperire che cosa impedisce al pensiero di proseguire là dove invece generalmente si ferma, si arresta, dicendo "è così", in qualunque forma lo dica, per qualunque motivo. - Intervento:.. Ma io non distinguo molto fra il poker e il gioco del calcio, non fa molta differenza per l'aspetto che ci interessa. E' ovvio che se sono qui, è perché propongo qualcosa, ovvio fino ad un certo punto tutto sommato, ma sia come sia, mi trovo a raccontarvi le cose che riguardano un certo itinerario e che propongo anche perché ci sia un ritorno, ma non soltanto, anche perché esponendovele posso accorgermi di altri elementi o perché mi diverte parlarne, perché non avevo altro da fare questa sera. Possono essere infiniti i motivi, ma propongo queste cose non tanto perché è il mio pensiero, quanto piuttosto per reperire ciò che non è negabile, per una questione logica e muovere da lì, e vedere che possa trarsene. Diciamo così, che io mi trovo a fare un certo gioco, che per alcuni motivi ritengo più interessante di altri e i motivi sono questi che abbiamo detto varie volte, che mi consente di giocare di più, e vi propongo di giocare questo gioco. - Intervento:.. e quindi l'agone dialettico si potrebbe vincere semplicemente col silenzio, lasciando confondere l'avversario. C'è l'eventualità che l'avversario non si confonda affatto, e che prenda questo silenzio come insipienza o stupidità dell'interlocutore. C'è questa eventualità. Ora può accadere che a qualcuno questa eventualità non piaccia e allora occorre che si adoperi altrimenti, chiedendo, per esempio, perché crede nell'esperienza, a che pro? Esperienza al posto di dio, ce n'è già uno, perché ce ne mette un altro? Perché farli proliferare? Sì, possiamo farlo, certo, nessuno ce lo vieta, però dopo che l'abbiamo fatto? Diciamo che l'esperienza è dio. Va bene, oppure parmigiano reggiano. Va bene, ma non andiamo molto lontani. - Intervento: questo itinerario ha a che fare con l'esperienza oppure no? Dipende da che cosa intende con "esperienza", in una certa accezione sì, se la intende in un'altra accezione, no. L'esperienza è una definizione, e a partire da ciò che lei definisce l'esperienza esperirà certe cose oppure no. Così come i mistici esperiscono dio, un altro si mette lì e non esperisce proprio niente. Non è che il primo sia illuminato e l'altro no, semplicemente esistono nel suo discorso delle condizioni tali per cui esperisce alcune cose, ma non è che le esperisca propriamente, le produce. Sta qui la differenza. Questa è una delle questioni che nella Sofistica è posta e che riprenderemo, e cioè che l'esperienza sia propriamente una produzione, creata ex nihilo, dal nulla. Buona notte e grazie.