INDIETRO

 

 

31 ottobre 2018

 

La struttura originaria di E. Severino

 

Siamo a pag. 228. § 14, Il nulla e la contraddizione. L’autocontraddittorietà – ogni significato autocontraddittorio – è il nulla stesso. A chiarimento di questo teorema si considerino, ad esempio, i seguenti significati: “Triangolo non triangolare”, “Qui non qui”, “x non è x”, ecc. (Si indichi con il simbolo RnR uno qualsiasi di questi significati, dove R indica una determinazione qualsiasi e n indica la negazione della determinazione). Porre ognuno di questi significati autocontraddittori significa porre il nulla. Se io dico che questo non è questo sto dicendo nulla. Infatti, di nessun positivo (nessuna affermazione) si può dire che un triangolo non triangolare, un rosso non rosso, un x che non è un x, ecc. Il principio di non contraddizione, affermando che l’essere non è non essere (dove il “non essere” vale sia come negatività assoluta che come il contraddittorio di un certo positivo), esclude appunto che il positivo sia autocontraddittorio, o che l’autocontraddittorietà sia. L’essere è essere, sì che l’autocontraddittorietà è il nulla: un essere che non sia (o che sia il suo contraddittorio) non è. Qui chiaramente riprende delle cose già dette in precedenza, ma sono le cose sulle quali si fonda tutto il pensiero di Severino, su cui ha costruito tutto ciò che ha pensato di dovere dire circa il fatto che quando si parla di qualunque cosa, per potere compiere questa operazione di parlare, occorre che ciascuna volta, che si afferma qualche cosa, questa cosa che si afferma sia quella cosa lì e non la contraria. Questo per lui è importante ed è importante anche per noi perché rappresenta una, forse la più importante condizione perché ci sia la possibilità di parlare. In effetti, ed è questo che a noi interessa, Severino, senza farlo esplicitamente, sta elaborando una sorta di teoria del linguaggio, dove si occupa di ciò che lo fa funzionare, di ciò che è necessario che sia perché si possa parlare. Se le cose non stessero così, dice in un certo qual modo, noi non parleremmo. Ora, però, qui, dove ci dice che l’autocontraddittorietà è il nulla, vuole precisare questo nulla, perché è un nulla formale, cioè qualcosa che io dico essere nulla, o è il nulla assoluto? Dice Ma come porre il nulla non è un non porre nulla… Infatti, se io dico che questa cosa è nulla sto pur dicendo qualcosa, cioè, questo nulla è qualcosa, se è qualcosa non è nulla. … così porre l’autocontraddittorietà non è un non porre nulla. Sono i due aspetti. Prima ha detto che porre l’autocontraddittorietà è porre nulla; adesso ci sta dicendo che porre l’autocontraddittorietà non è un non porre nulla. I significati autocontraddittori sono infatti presenti, e pertanto sono. Ha appena detto che se si contraddice, se c’è una contraddizione, allora questo è nulla. Però, sta distinguendo tra il dire che qualcosa è nulla, e quindi dire che è qualcosa perché, comunque, ne sto parlando, e invece il nulla assoluto, del quale ha già detto in precedenza che non si può dire nulla, non lo si può pensare, dire, porre, immaginare, non si può farne, per l’appunto, nulla. Quindi, questa distinzione che fa gli serve per evitare quell’antica e terribile contraddizione che riguarda il nulla. Ricordate che citava Fredegiso di Tours e anche altri che si sono trovati di fronte a questo impiccio: il nulla è veramente nulla o è qualcosa? Se se ne parla è qualcosa, però sto dicendo che è nulla; quindi, è nulla ma anche qualcosa. Come sappiamo, da questo problema il pensiero occidentale non è mai propriamente uscito perché questa cosa permane, cioè, non ha soluzione. Dice I significati autocontraddittori sono infatti presenti, e pertanto sono. Quindi, l’autocontraddizione non è nulla, un’autocontraddizione ha comunque un senso, significa qualcosa, significa autocontraddizione e, pertanto, significa qualcosa, e se significa qualcosa ovviamente non è nulla. Ciò vuol dire che – come per il significato “nulla” – il significato “autocontraddittorietà” è un significato autocontraddittorio. Il suo tentativo è quello di risolvere questo problema, problema che era già stato posto con Platone, quindi, un problema che va avanti da duemilacinquecento anni. Risolvere questo problema comporta dare una possibilità al pensiero di trattare il nulla senza cadere necessariamente in una autocontraddizione, cioè senza doversi arrestare perché il discorso non può procedere. L’autocontraddittorietà è; ma non nel senso che il significato autocontraddittorio sia significante come incontraddittorietà – non nel senso che, ad esempio, RnR sia o significhi RnnR… quello che vuole dire è che occorre porre una distinzione tra il nulla di cui si dice e il nulla assoluto, il nihil absolutum. Il significato autocontraddittorio è incontraddittoriamente significante… Come dire che l’autocontraddittorietà significa qualcosa. …la nullità dell’autocontraddittorietà non è o non significa una non nullità; l’autocontraddittorietà non è o non significa, insieme, un’autocontraddittorietà e un’incontraddittorietà. Proprio perché c’è una differenza. Quando io dico che il nulla è non sto dicendo che il nulla assoluto è; questo sì è autocontraddittorio, perché del nulla assoluto non posso assolutamente dire niente e, quindi, se ne parlo già vuol dire che mi sto riferendo a un qualche cosa che non è nihil absolutum ma è un nulla in quanto significa qualcosa, e cioè significa, appunto, nulla. …questa autocontraddittorietà incontraddittoriamente significante, che è, ossia è positivamente significante. Si verifica pertanto che l’autocontraddittorietà, ossia l’assolutamente negativo, è incontraddittoriamente o positivamente significante. Questa è l’enunciazione del problema. Che l’autocontraddittorietà sia incontraddittoriamente significante, o, che è il medesimo, che l’assolutamente negativo sia positivamente significante: questa è l’autocontraddittorietà i cui momenti sono il significato autocontraddittorio (= autocontraddittorietà-momento) e l’incontraddittorio o positivo significare del significato autocontraddittorio. Cioè, soltanto se il nulla è posto come nulla assoluto. Questo è il modo in cui lui risolve la questione. Dice Porre, ad esempio, il significato RnR significa porre un significato autocontraddittorio… Come dire “bianco non bianco”. …i cui momenti sono il significato autocontraddittorio RnR e il positivo significare di questo significato. Cioè, gli elementi di questa contraddizione sono il fatto che dico che una cosa non è quella cosa, ma dicendo che non è quella cosa, e che, quindi, è nulla, sto dicendo che è qualcosa. Dice che questi due nulla sono momenti distinti, cose distinte, ma non irrelati. Sì che resta con ciò chiarita la condizione per la quale si può parlare di un essere dell’autocontraddittorietà; e la condizione per la quale da un lato l’autocontraddittorietà è nulla, e dall’altra è tolta, ossia si colloca in un rapporto (positivo) con il positivo. Due momenti distinti ma non irrelati, ci sta dicendo. Con questo vuole dire che si può parlare da un lato di un essere dell’autocontraddittorietà – ricordate che prima diceva che l’autocontraddittorietà è il nulla - e la condizione per la quale da un lato l’autocontraddittorietà è nulla, e dall’altra è tolta, ossia si colloca in un rapporto (positivo) con il positivo. Da una parte c’è il negativo assoluto, il nulla assoluto, di cui non posso parlare, ma se ne parlo allora significa qualcosa, è un nulla che significa. A pag. 232. L’aporia formulata nel punto a) è tolta soltanto se si distinguono due tipi o sensi dell’autocontraddittorietà: la contraddizione (il contraddirsi) e il contenuto della contraddizione (il contenuto detto dalla contraddizione). Se questa distinzione non viene operata – come appunto accade nel discorso aporetico – sarà necessario affermare che il significato “nulla” non può essere posto. Si considerino questi due significati autocontraddittori: 1) “Rosso non rosso” (sia xnx); 2) “Nulla”, inteso come significato autocontraddittorio, ossia come nulla-momento (sia ɛN) … Cioè, un elemento del nulla, che lui scrive ɛN. La ɛ logicamente si legge come “è”, “nulla è”. Orbene, quanto si è stabilito nel § 14, relativamente ai significati autocontraddittori, è valido per xnx, ma non per ɛN. Infatti, come già si è detto, ɛN è significato autocontraddittorio non in quanto l’essere (ɛ) è predicato del nulla (N), ma in quanto ciò che si predica del nulla (e cioè il suo essere altro dalla totalità del positivo) è;… Quindi, il nulla è l’altro dalla totalità del positivo. La totalità del positivo non è altro che qualunque affermazione che si faccia. Quindi, questo nulla è qualcosa che è altro rispetto a qualunque affermazione si possa fare. …ossia qui l’essere non è predicato… Non sto predicando l’essere ma sta parlando dell’essere del predicato, cioè, il predicato è qualcosa. Quando dico che il nulla è qualche cosa perché ne sto parlando sto dicendo che il predicato è qualche cosa. …“Il nulla è” ha diverso significato, a seconda che si intenda che “Il nulla, come nulla, è”; oppure si intenda che “Il nulla non è nulla”. Il primo significato è quello per cui quella proposizione vale appunto come ɛN, il secondo è ciò che è escluso non solo dal principio di non contraddizione, ma anche dalla contraddizione: “Il nulla, come nulla, è” (la quale riferisce l’essere sì al nulla – e, in questo senso, afferma a sua volta che il nulla non è nulla – ma riferisce l’essere al nulla posto come nulla, cioè come l’altro dalla totalità del positivo e non come non nulla). È chiaro dunque che se è corretto dire che xnx è nulla, non è corretto (è cioè autocontraddittorio) affermare che ɛN sia nulla: l’essere, il positivo significare del nulla non è nulla. Sembra difficile ma, in realtà, è semplice. Cos’è il nulla, per Severino? xnx, questo è il nulla. Ma se io dico che esiste nulla, allora esiste qualche cosa e non è più nulla ma un qualcosa, mentre il nulla, come diceva all’inizio, è l’autocontraddittorio, cioè xnx, questo è il nulla, è questo che si azzera. Invece, l’affermazione dell’esistenza del nulla è l’affermazione dell’esistenza di qualche cosa e, pertanto, non è nulla. Tutto qui. Ora, passiamo a un’altra parte che è più complessa. Riprende una questione cui aveva accennato all’inizio, la questione dell’F-immediato, il fenomeno, cioè, l’immediatezza del fenomeno. Che cos’è l’immediatezza del fenomeno? Facciamo l’esempio di una proposizione che lui riprende: “questa lampada che è sul tavolo”. Ora, l’immediatezza del fenomeno, quella che chiama F-immediatezza, è l’apparire di questa lampada, non di una lampada qualunque ma di questa lampada che è sul tavolo: questa proposizione è un unico, un tutto, per cui determina la lampada come questa lampada che è sul tavolo. Questo è ciò che chiama la totalità dell’F-immediato, dove F sta per fenomeno. La totalità dell’F-immediato è questa proposizione che afferma “questa lampada che è sul tavolo”: ciò che appare, cioè questa lampada che è sul tavolo, è il fenomeno immediato, la totalità del fenomeno immediato; è tutto lì, appare così come appare. La totalità dell’F-immediato è posta (cioè appare, è presente) in quanto: 1) è posto l’essere (il concreto contenuto positivo immediatamente presente). Il fatto che qualcosa sia. – Chiamiamo questa posizione “posizione ontica”;… Quindi, dice: è posto l’essere, qualcosa è. …2) è posta l’immediatezza (la presenza immediata) dell’essere… Non basta che qualcosa sia, occorre che ci sia una presenza immediata di questa cosa, cioè che mi appaia. – Chiamiamo questa posizione “posizione esponenziale”. Quindi, perché qualcosa appaia occorre intanto che qualcosa sia e poi che mi appaia, perché se è ma non mi appare non c’è l’immediatezza, non c’è l’apparire della cosa. Quindi, ci sta dicendo che in ciò che appare è necessario che ci siano due cose: che ci sia l’essere, ovviamente, che qualcosa sia; una volta che abbiamo stabilito che c’è qualcosa, che questo qualcosa sia immediatamente apparente, immediatamente, cioè, non mediato da altro. Quando lui parla di immediato non intende il subitaneo ma intende il non mediato da altro; quindi, appare così come appare, non per merito di altro ma per se stesso. Questo posacenere mi appare così com’è; mi appare ovviamente come lo vedo io ma a lui interessa stabilire il fatto che mi appare così come mi appare e non in un altro modo. Non posso dire che questo posacenere mi appare in un altro modo da come mi appare; o mi appare così o non mi appare. La posizione ontica è, per un lato, posizione delle determinazioni particolari d1, d2, d3 … dn, che convengono F-immediatamente all’essere (o il cui essere è F-immediato);… Che significa? Che c’è un aspetto dell’essere, la posizione ontica, che è determinato da una serie di cose. Per esempi, questo aggeggio mi appare e il fatto di essere quello che è è determinato da una serie di cose: dal fatto di essere rotondo, dal fatto di essere un posacenere, di essere sul tavolo, ecc., cioè, tutte quelle cose che determinano qualche cosa in quanto qualche cosa. Poi, dall’altro lato, sempre rispetto alla posizione ontica, cioè dell’essere, del qualcosa che c’è… infatti, aveva definito l’essere come il concreto contenuto positivo immediatamente presente, che può anche essere un’affermazione, non è necessariamente un aggeggio. …per altro lato è posizione dell’essere di queste determinazioni. Il fatto, cioè, che anche queste determinazioni a loro volta sono, sono qualcosa. La sintesi di questi due lati è la concretezza che comete alla posizione ontica come tale. Perché l’essere sia l’essere è necessario che questo essere sia determinato da varie e che queste determinazioni siano. A Severino tutto questo serve, e servirà soprattutto, per un motivo, che riguarda sempre il principio di non contraddizione, e cioè lui deve dimostrare che ciò che appare, appare in modo non autocontraddittorio ma appare come l’incontraddittorio, perché appare in quanto è quello che è e non altro da sé. È il problema antico, di cui parlavamo tempo fa, dell’uno e dei molti. È da Parmenide che c’è questa storia. Come fa una cosa a essere uno e anche a essere molti? Come fanno i molti a essere uno? O è uno o sono molti. Secondo Severino, se non si separano le due cose, e cioè se l’uno è anche i molti, cioè, se qualcosa è sé ma è anche altro da sé, allora è nulla. È come ricondurla a quella formula, xnx, si annulla. Quindi, ciò che a questo punto appare, qualunque cosa mi appaia, è nulla, cioè, non posso determinarla, non posso dirne niente. Il che filosoficamente è un problema perché mi trovo ad avere a che fare con delle cose che, sì, mi appaiono ma sono nulla perché non le posso determinare, perché mi scompaiono tra le dita, per così dire. È un problema che ha incontrato anche la semiotica, anche se non lo ha preso in considerazione come avrebbe dovuto. Quando Peirce dice che un segno è un segno per un altro segno, il quale è segno per un altro segno, e così via, quella cosa che lui chiama semiosi infinita, dovremmo dire che se fosse realmente così, se fosse proprio così come dice lui, di fatto non potremmo nemmeno affermare ciò che lui afferma, perché ogni volta che diciamo che un segno è questa affermazione non potrebbe essere affermata in nessun modo, perché scivolerebbe via verso altre affermazioni. Quindi, questa affermazione che dice che il segno è non significa nulla, propriamente, se non in questo rinvio infinito ad altre cose, e allora non ci sarebbe propriamente la possibilità di utilizzare questa affermazione: per estensione, non ci sarebbe la possibilità di utilizzare nessuna affermazione, ogni affermazione si dissolve nel nulla. Poi, chiaramente, non è del tutto così, nel senso che ciascuno parla, si tratterà poi di capire come avviene questo fenomeno per cui, di fatto, si continua a parlare, perché se fosse così come dice Peirce, ad esempio ma non soltanto lui, non saremmo in condizioni di affermare assolutamente nulla; non essendoci alcuna affermazione, non c’è parola, non c’è niente, perché non posso affermare, letteralmente fermare, niente, ogni cosa scivolerebbe via all’infinito, e il linguaggio scomparirebbe insieme con lui. Questo è il motivo per cui Severino si sta interrogando su queste cose, il che rende un pochino più intelligibili queste considerazioni. Dunque, ci ha detto qualcosa della posizione ontica che, da una parte, contiene tutte queste determinazioni, l’essere è fatto di determinazioni – lo diceva anche Aristotele con sue categorie dell’essere, a partire dalla sostanza, dalla qualità, ecc. Non è necessariamente così, ma giusto per dare un’idea. Quindi, da una parte queste determinazioni e insieme anche il fatto che queste determinazioni sono, sono pure qualcosa. La sintesi di queste due cose, dice, è la concretezza che compete alla posizione ontica come tale. Cioè, l’essere è fatto di queste cose: delle sue determinazioni e del fatto che queste determinazioni sono. Poi, c’è la posizione esponenziale, quella fenomenologica. La posizione esponenziale è, per un lato, posizione della F-immediatezza delle singole determinazioni della posizione ontica… Cosa vuol dire? Queste singole determinazioni che, come abbiamo visto, sono… sì, ma come sono? Perché l’uno dice che l’essere è, quell’altro, la F-immediatezza, dovrebbe dire come è, come mi appare. L’uno dice “c’è qualcosa”, va bene, ma questo qualcosa in cosa consiste, come mi appare? E, allora, dice lui: ecco come mi appare. Queste singole determinazioni della posizione ontica le definisce come F-immediatezza, F-im. (d1), F-im. (d2), F-im. (d3), … F-im. (dn), cioè, ciascuna di queste determinazioni dell’essere appare pure in un certo modo, non solo c’è ma appare in un certo modo, cioè, come fenomeno (F sta sempre per fenomeno). …e per altro lato è posizione della totalità del F-immediato, è posizione cioè della totalità dell’apparire. Ciò che mi appare non sono soltanto le singole determinazioni dell’essere ma queste determinazioni mi appaiono come unità. C’è sempre il problema dell’uno de dei molti, dei molti che sono dentro l’uno e dell’uno che è la condizione dei molti. La posizione della totalità del F-immediato è la stessa posizione della F-immediatezza della posizione ontica. Come dire che alla fine sia l’essere che l’immediatezza del fenomeno sono la stessa cosa, non sono disgiungibili. A pag. 236, 2. Nota: Forma e contenuto della totalità del F-immediato. Si può dire che la posizione ontica… La posizione ontica è l’essere qualche cosa un qualcosa. …e la serie esponenziale… Le sue determinazioni. …costituiscono la posizione del contenuto… Cioè, il modo in cui appare il contenuto in quanto fatto di certe cose. …mentre il secondo lato della posizione esponenziale costituisce la posizione della forma della totalità del F-immediato. Contenuto, forma. Adesso incomincia a essere più chiaro: l’essere, la posizione ontica e il contenuto, ciò di cui una certa cosa è fatta. La posizione del F-immediato, invece, è la forma, il modo in cui la cosa si mostra. Questo aggeggio ha un contenuto e una forma: il contenuto è probabilmente il vetro, la forma è quella che vedo. Questione antica, che già Aristotele aveva posta: forma e materia (sinolo). Il secondo lato della posizione esponenziale comprende e si distingue ad un tempo dalle posizioni precedenti: in quanto le comprende è la stessa posizione della totalità dl F-immediato, nella sua concretezza – unità di forma e contenuto -; in quanto invece se ne distingue, è posizione della forma come momento astratto del concreto. Da una parte, dice, queste due cose, la forma e il contenuto, non si distinguono, perché la totalità di ciò che mi appare è questo, non posso cogliere il contenuto e poi coglierne la sua forma, le colgo insieme; eppure, dice, restano due, cioè, forma e contenuto; anche se in quella totalità, rimangono due. È sempre la stessa questione dell’uno e dei molti. Ora, ciò che a lui interessa è compiere a questo punto un’operazione, perché se la totalità è uno, però, è fatta di due, allora è come se ci fosse da una parte un tipo di totalità e dall’altra un altro tipo di totalità: uno fatto dell’uno che è la totalità dei due, l’altro come totalità dove i due permangono. Nel primo caso i due non permangono più, è come se si fondessero in uno. A lui importa, invece, che questa immediatezza del fenomeno sia uno, perché se fossero due è un problema, quale delle due è più immediata dell’altra? Se sono due, una appare già mediata da quell’altra, appare dipendere dall’altra, quindi, non è più immediata. A pag. 236. § 3 Esclusione di un immediato eccedente la totalità del F-immediato. Questa è un’operazione che fa sempre: quando c’è una contraddizione, Severino pone le due cose come se tra loro non ci fosse alcuna differenza, sono lo stesso. Ricordate la formula iniziale da cui era partito, quando diceva A è B. È una contraddizione: se è A non è B, oltre al fatto che uno è soggetto e l’altro è predicato e, quindi, non sono la stessa cosa. Quindi, questa formula “A è B” è una formula autocontraddittoria. E allora che fa? (A=B)=(B=A), come dire che A e B non indica un qualche cosa che ha a che fare con un soggetto e un predicato ma indica un’unità, un’unità indissolubile dove i due si “trasformano” in uno, sono la stessa cosa, perché dire che l’“essere è” e dire che “non essere non è” è la stessa cosa, non è che uno sia il soggetto e l’altro il predicato, sono la stessa cosa e, quindi, sono un’unità. Queste cose sono tutte debitrici, forse lo accennavamo la volta scorsa, della dialettica hegeliana: tesi, antitesi e sintesi. Sono debitrici della dialettica hegeliana in quanto è stato Hegel a porre per primo la necessità di cogliere due momenti della contraddizione presi nel loro superamento, superamento della tesi e dell’antitesi. Come sapete, la tesi in greco (ϑεσις) è letteralmente la posizione, l’antitesi la contrapposizione. Ma queste due cose diventano una sintesi, diventano un’altra cosa, che è la reazione tra i due. Diventando la relazione tra i due, che la contraddizione scompare, non c’è più. Ora, siccome tutte queste cose, comprese alcune che afferma Heidegger, procedono da Hegel, sarebbe interessante più in là rileggere La fenomenologia dello spirito, il che comporta però rileggere anche la Scienza della logica. Vedremo il da farsi. Tornando a noi, si tratta sempre di escludere il contraddittorio, di trovare un modo perché il contraddittorio venga escluso. Per Hegel, non viene escluso ma superato. Ma vediamo che anche qui, in qualche modo, viene superato, perché Severino dice che l’essere deve porre la propria negazione per toglierla, l’essere deve porre il non essere, perché solo così l’essere è garantito nella propria essenza, cioè di essere quello che è e di non essere altro da sé. Ciò che lo garantisce è la presenza, in quanto tolta, della sua negazione; quindi, devo porla e poi negarla. Anche qui si tratta della stessa cosa, anche rispetto all’immediatezza del fenomeno è come se dovessi in qualche modo togliere la sua negazione, si tratta però di vedere come toglierla e in che cosa consiste la negazione dell’apparire immediato del fenomeno. Proprio perché la posizione concreta del F-immediato è sintesi di posizione formale e materiale, si dovrà dire inoltre che la totalità del F-immediato è posta come tale solo in quanto è posta l’esclusione che una eccedenza ad essa, comunque determinabile, sia immediatamente presente. Per porre, per potere garantire che il fenomeno appaia così come appare, che sia quello che è, occorre che io tolga l’eventualità che questa totalità appartenga a un’altra totalità, cioè che sia qualcosa che ecceda questa immediatezza del fenomeno, qualcosa che va oltre. Se tale esclusione non è posta, anche ammettendo che nonostante questa steresi (ndr. privazione) posizionale permanga un orizzonte posizionale, questo orizzonte non può essere posto come la totalità del F-immediato. Anche se io pongo un qualche cosa che eccede l’immediatezza del fenomeno, allora quando parlo di totalità del fenomeno parlo di un qualche cosa che si smentisce, perché non è più la totalità in quanto c’è un’altra cosa. E, invece, ciò che a lui preme è stabilire che la totalità del fenomeno è tutto il fenomeno, non è che rimane un pezzettino da qualche parte. L’implicazione tra posizione della totalità e posizione dell’esclusione è analitica, e cioè il concetto di totalità include L-immediatamente il concetto dell’esclusione. Quello che sta dicendo è una cosa molto semplice. Dice che la totalità di ciò che appare è quella che è, perché? La L-immediatezza è quella logica, quella che dice che una cosa non può essere altra da sé, mentre la immediatezza fenomenologica dice che il fenomeno appare così come appare e non appare in un’altra maniera. Sono i due modi in cui lui pone la questione. Quindi, se parlo di totalità di ciò che mi appare, l’immediatezza logica (L-immediatezza) dice che la totalità di ciò che mi appare non può essere altro se non la totalità di ciò che mi appare; quindi, non può esserci un’altra totalità, perché sarebbe una contraddizione, non è più la totalità, cioè, è totalità ma non totalità. Si è posto questo problema e ora vediamo come lo risolve. Porre un F-immediato che non sia momento della totalità del F-immediato è dunque intrinsecamente contraddittorio;… un momento, cioè, un aspetto, un elemento del F-immediato non può che essere parte del tutto, del F-immediato, dell’immediatezza del fenomeno, non può essere un’altra cosa o riferirsi a un’altra cosa. Sarebbe, dice, intrinsecamente contraddittorio, da un lato perché quel F-immediato, in quanto eccedente la totalità del F-immediato, non sarebbe un F-immediato… Perché l’immediatezza del fenomeno riguarda la totalità. Se c’è un altro elemento, questa totalità non è più una totalità, è una parzialità. …dall’altro, perché tale totalità, in quanto così ecceduta, non sarebbe la totalità del F-immediato. A pag 237, § 4, Nota Paradigmatica. a) La possibilità di distinguere quei due lati della contraddizione prodotta dall’affermazione che un immediato eccede la totalità dell’immediato,… C’è un immediato che eccede, che va oltre la totalità dell’immediato, che non sarebbe possibile perché se questo è l’immediato, se questa è la totalità, non ci può essere qualcosa che va oltre la totalità, perché la totalità dovrebbe comprendere anche quella cosa lì che eccede, se è totalità, sennò non è totalità; parlo di totalità ma, di fatto, non è totalità. …è dovuta alla possibilità – comune a tutti i casi analoghi a questo – di tenere fermi, nel loro essere determinati come ciò che sono l’uno o l’altro dei due termini che costituiscono la materia della contraddizione: l’immediato eccedente, o la totalità dell’immediato. Dice che questa contraddizione sorge dalla possibilità di tenere fermi, cioè di prendere in considerazione univocamente, o una cosa oppure l’altra, perché se fossero il medesimo non ci sarebbe alcun problema. Ma, ovviamente, non sono il medesimo: uno è la totalità e l’altro è ciò che eccede la totalità. Possibilità – allorché si produce la contraddizione in parola – di tenere fermo, come immediato eccedente, ciò che è l’immediato eccedente, o come totalità dell’immediato, ciò che è la totalità dell’immediato. Possibilità di tenere ferma una cosa per quella che è, come totalità o come eccedenza, le fermo. Ma cosa vuol dire che le fermo? Perché noi possiamo aggiungere un elemento in più. Le fermo, cioè, diamo a queste cose un significato preciso, che è quello. Certo, per poterli utilizzare devono avere un significato ma questo significato posso modificarlo, posso variarlo. Tenere fermo è un artificio, come dire che stabilisco che la totalità è quella cosa lì che io voglio che sia. Lo stabilisco, stabilisco una regola, una regola del gioco. Cosa che si fa ininterrottamente, ovviamente. Quando si stabilisce un significato lo si attribuisce in base a delle fantasie, propriamente. Ora, Severino fa il primo caso in cui si tiene fermo come incontraddittorio ciò che si dice “immediato eccedente”. Lui lo mette tra virgolette. Quando si mette tra virgolette in logica si intende il nome di quella proposizione, la sua forma, non il suo contenuto. b) Si tenga fermo come incontraddittorio ciò che si dice “immediato eccedente”; e cioè lo si tenga fermo come immediato eccedente. Senza virgolette, e cioè lo si tenga fermo come il contenuto di questa proposizione. Naturalmente, ci sarà un problema intorno a questo, ma lo vedremo la prossima volta. Adesso il problema è solo accennato, vedremo come lo risolve.