31 luglio 2024
Plotino Enneadi
Come siamo giunti a leggere e parlare di Plotino e dl neoplatonismo? È stato Heidegger, che ci ha mostrato, leggendo Aristotele, che Aristotele non è proprio esattamente quell’autore che ci hanno insegnato a scuola. Aristotele, nella lettura fatta da Heidegger, appariva straordinariamente interessante. E, allora, ecco che abbiamo incominciato a leggere Aristotele, a rileggerlo, ma più propriamente direi leggerlo, perché in questo modo non l’avevamo mai fatto. Quindi, abbiamo letto la Metafisica, la Fisica e l’Organon e, in effetti, ci siamo accorti che le cose che dice Aristotele sono straordinarie, devastanti anche per il modo di pensare. E, allora, ci siamo domandati: ma come è stato possibile che nessuno si sia accorto che Aristotele dice queste cose, perché le dice palesemente. A questo punto, leggendo varie cose, ci siamo resi conto che la lettura di Aristotele è stata fatta dai neoplatonici. È stato Reale anche a suggerire questa cosa, lui la dava per scontata. In effetti, è il neoplatonismo ciò attraverso cui è passato Aristotele. Questo ci ha fatto rendere conto del fatto che Aristotele, ma non solo Aristotele a questo punto, e tutto il pensiero presocratico, potremmo dire, in fondo ci è stato tramandato in buona parte attraverso il neoplatonismo, attraverso cioè l’idea che ci debba essere una verità da qualche parte – cosa che in Aristotele viene assolutamente demolita – una verità assoluta, un riferimento assoluto. Poi, Beierwaltes, lo stesso Hadot, hanno suggerito, soprattutto Beierwaltes, che il neoplatonismo non abbia soltanto devastato il testo di Aristotele, ma il neoplatonismo ha costruito un modo di pensare che si è protratto attraverso il cristianesimo per duemila anni, addestrando le persone, quindi anche i filosofi, a pensare in un certo modo, cioè a pensare che ci sia una verità assoluta o, come dicevamo forse l’altra volta, che non si sa bene come stanno le cose, magari stanno così o stanno cosà, ma in un modo devono stare. Questa idea è quella che ha avuto successo perché fornisce la possibilità a ciascuno di pensare di avere ragione. Io ho ragione soltanto se le cose stanno in un certo modo, che è quello che dico io, e quindi dà l’opportunità alle persone di pensare di avere ragione. Non che questo non esistesse prima, ma col neoplatonismo è diventato una religione. E se io non posso avere ragione, perché non esiste la ragione, è una tragedia assoluta, cioè, ciascuno a questo punto non ha più nessun motivo per esistere. Questo in base anche alla volontà di potenza: se non posso esibire la mia verità, il mio sapere, tutte queste belle cose, cosa faccio, per che cosa esisto? Esisto per esibirmi, per fare tutte queste cose, per mostrare una verità, soprattutto a chi non la possiede, ai miseri che non sanno. Com’è che diceva Gesù Cristo? Perdona loro perché non sanno quello che fanno. E, invece, loro lo sapevano benissimo, solo che muovevano da altre premesse, e alla fine l’hanno ammazzato. Avere ragione. Dicevo l’altra volta: se ciascuna parola è quella che è in quanto altra da sé, come posso avere ragione? La ragione segue naturalmente a un percorso inferenziale, ma se in questa inferenza, ad esempio “se A allora B”, la A è A in quanto non-A e la B è B in quanto non-B, come posso sostenere questa inferenza? Certo, la uso, chiaramente, la uso all’interno della doxa, va benissimo, ma in che modo posso utilizzarla per pensare di avere ragione? Nessuno. Dunque, se non ho ragione, se non posso avere ragione, allora che me ne faccio della mia vita? È un problema. E, poi, se non ho ragione non posso neanche avere dei nemici. Come si fa a vivere senza nemici? È impossibile. Ecco, dunque, quello che ci mancava, quell’elemento che ci ha condotti a leggere Plotino e poi a leggere altri neoplatonici, quando cioè ci siamo accorti che la verità epistemica non esiste, è un’invenzione, come Dio, è la stessa cosa, ma che questa verità epistemica è il fondamento della civiltà, della società e della civiltà. E, allora, ecco che siamo andati a vedere che cosa ci racconta Plotino. Ci racconta che questo Uno c’è perché lo sento. E abbiamo anche, così un po’ per gioco, messo a fianco le argomentazioni di Plotino a quelle di Aristotele. Cioè, Plotino su cosa si basa? Sul fatto che io sento che c’è l’Uno, che c’è il Bene assoluto. E se non lo sento? Se non lo sento è perché non mi sono aperto a lui. Rimane però che queste argomentazioni hanno avuto una fortuna straordinaria, ne parlavamo prima. Per esempio, i diritti umani. I diritti umani vertono sull’umanità, naturalmente, e l’umanità di che cosa è fatta? È un’entità astratta, però c’è, e noi difendiamo l’umanità. Nessuno sa bene cosa sia, però c’è, come l’Uno di Plotino. C’è e naturalmente è al di sopra di tutto e di tutti, quindi nessuno può metterla in discussione, come l’Uno di Plotino. Non è possibile perché l’Uno è al di sopra di tutto, anche delle contraddizioni, di qualunque cosa.
Intervento: Pensavo al senso di superiorità da parte della civiltà occidentale… questa idea di superiorità su che cosa si appoggia?
Sull’idea di possedere il Bene assoluto, cioè la verità. Noi sappiamo come stanno davvero le cose, gli altri non lo sanno, quindi dobbiamo insegnarglielo. Questo è un pensiero tipico degli americani, per esempio, quello di esportare la loro democrazia. E, quindi, ecco che è un’operazione umanitaria a vantaggio dell’umanità. Ma il neoplatonismo lo si ritrova anche nelle cose più banali, appunto nella volontà di avere ragione, che è la cosa più banale, più comune. La volontà di avere ragione: lì trovate il neoplatonismo, perché se io ho ragione vuole dire che alle mie spalle c’è una verità, che io conosco in qualche modo e che gli altri invece non sanno. Va bene, però adesso andiamo un po’ avanti, sennò qua non finiamo mai più. Siamo a pag. 671. Tutta questa unità, che è anche vivente, è un tutto congiunto insieme da simpatia: qui il lontano è vicino, così come, in un singolo individuo, artigli e corna e dita sono vicini ad altre parti che non sono adiacenti… /…/ Le parti simili infatti non sono l’una accanto all’altra, ma sono distanziate da parti diverse, e tuttavia simpatizzano per la loro somiglianza. Tutto quanto, questa unità, è tenuta insieme dalla simpatia. Questo a proposito delle argomentazioni di Plotino. A pag. 673. L’universo non si presenta soltanto come un vivente unitario, ma anche come un essere molteplice: perciò, ogni essere singolo, in quanto è unità, è conservato per la sua connessione al tutto; ma in quanto è anche molteplicità, le singole parti, incontrandosi l’una con l’altra, si danneggiano in molti modi per il fatto che si differenziano fra loro, si danneggiano contro e si danneggiano; e l’una danneggia l’altra anche per la propria utilità… Cioè, queste parti hanno anche una loro utilità, anche se non si capisce da dove arrivi. …anzi, un individuo si pasce di un altro che gli è affine e insieme diverso; e ciascuno, secondo la legge del proprio essere, mira soltanto a se stesso e si appropria dell’altrui, di ciò che può diventare suo e distrugge, per egoismo, tutto ciò che gli si oppone. Ma perché dovrebbe fare tutte queste cose? Ma questa unità è giustificata e retta da che cosa? Provate a immaginare Aristotele: lui pensava all’unità sì, ma all’unità nel sillogismo, l’universale. Ma questa unità dell’universale non è tenuta insieme dalla simpatia, non è altro che un insieme di particolari. A pag. 675. Ma poiché le stelle si muovono conforme a ragione… C’è una ragione sempre che muove ogni cosa. …e la diversità delle configurazioni avviene in un vivente; e poiché anche quaggiù le nostre cose avvengono in comunione simpatetica con le cose celesti: è ragionevole ricercare se queste cose nostre, nel loro seguire il corso delle stelle, debbano essere considerate come una semplice coincidenza, ovvero se le figure astrali possiedano le forze che agiscono sulle nostre azioni, e se queste forze abbiano queste figure in quanto tali, o in quanto figure di questi astri. È l’astrologia di oggi. A pag. 687. Ma come spiegare le forze magiche? Mediante la simpatia: fra le cose affini regna naturalmente un accordo e fra le dissimili un contrasto; eppure nella loro varietà le molteplici potenze contribuiscono all’unità dell’organismo universale. E, infatti, anche senza alcuna pratica magica, molte cose nascono come per magico incanto, poiché nell’universo la vera magia sono l’amore e la contesa. Qui riprende da Empedocle. L’amore è il primo mago e stregone, che gli uomini conoscono bene e ricorrono nei loro rapporti ai suoi filtri e ai suoi incantesimi. E poiché amano per natura e i materiali che suscitano l’amore sono efficaci nelle loro relazioni, così è sorta l’arte di provocare l’amore con la magia, applicando per contatto a diverse persone materiali diversi, che hanno il potere di attrarre una persona verso l’altra… /…/ E poi è proprio dell’anima essere attirata dalla melodia di un incantesimo e da certe formule e dalla figura dell’incantatore: cose di questo genere, come figure e suoni commoventi, hanno una forza d’attrazione, ma la volontà e il pensiero non vengono affascinati, bensì soltanto l’anima irrazionale; e allora un tale incantesimo non ci meraviglia; e tuttavia ci lasciamo volentieri attrarre da esso, anche se non è questo che si esige da chi esegue una certa musica. Si intende subito la stretta prossimità tra il discorso di Plotino e tutta la magia. L’idea stessa che esista un Uno, il Bene assoluto, è magica: perché esiste? Perché sì. A pag. 695. Quant’è meraviglioso l’universo nella sua potenza e nel suo ordine! Tutti gli eventi si svolgono, per silenzioso cammino, secondo giustizia e ad essa nessuno può sfuggire. Primo concetto di diritto naturale: c’è l’ordine, che segue il suo silenzioso cammino secondo giustizia, e a esso nessuno può sfuggire. A pag. 701. E finalmente coloro che spiegano la visione mediante la simpatia, diranno che si vede meno quando ci fosse un mezzo, poiché questo ostacolo impedisce e affievolisce la simpatia; meglio sarebbe dire che anche il mezzo affine la affievolisce in qualsiasi caso, poiché anch’esso ne sarebbe affetto; e così, se un corpo, molto denso nel suo intimo, si accostasse al fuoco e bruciasse, la sua parte più profonda ne soffrirebbe meno rispetto a quella superficiale. Ma allora, se le parti di un unico animale sono in simpatia fra loro, forse ne risentirebbero meno, per il fatto che c’è un mezzo fra loro? Certamente, questa simpatia sarà più debole. A pag. 705. Si potrebbe anche pensare che non sia possibile vedere nella mancanza di ogni mezzo, non perché non ci sia il mezzo, ma perché verrebbe distrutta così la simpatia del Vivente universale con sé stesso… La simpatia ha bisogno di un qualche cosa attraverso cui manifestarsi. …nonché la simpatia delle singole parti tra loro, poiché esse sono una cosa sola. Infatti pare che anche il percepire avvenga perché questo universo è un vivente che simpatizza con se stesso… È possibile che con tutti i pensatori che aveva a disposizione prima di lui, tutto quello che è riuscito a produrre sia la simpatia? …se non fosse così, come potrebbe una parte partecipare della potenza di un’altra, specialmente se fosse lontana? Questi sono i fondamenti del pensiero occidentale, non dimenticatelo mai. A pag. 715. Se ci fosse un corpo fuori della sfera celeste e un occhio, senza essere ostacolato da nulla, guardasse da qui, potrebbe essere esso vedere quel mondo che non è in simpatia con lui, dato che la simpatia ha luogo soltanto per l’unità della natura del Vivente? Poiché la simpatia deriva dal fatto che i soggetti senzienti e gli oggetti sensibili appartengono a un unico organismo, le sensazioni allora non ci sarebbero, a meno che anche codesto corpo facesse parte di questo organismo: perché se così fosse potrebbe esserci. Tutti questi oggetti senzienti sono in simpatia tra di loro, perché tutti appartengono all’Uno. Sarebbe questa l’origine della simpatia: tutti quanti procedono dall’Uno e, quindi, tutti quanti conservano in sé un qualche cosa di comune tra loro: questo sarebbe ciò che li fa simpatizzare. A pag. 719. Ma l’argomento più importante è questo: se noi ricevessimo soltanto impronte delle cose che vediamo, come potremmo vedere le cose stesse? Qui sta parlando della vista. Vedremmo soltanto immagini e ombre degli oggetti visti, sicché le cose in se stesse sarebbero diverse dalle cose che vediamo. Vi ho letto queste ultime cose perché è interessante vedere come, di fatto, ogni tanto lui incontri dei problemi. Infatti, dice: altrimenti le cose in sé stesse sarebbero diverse dalle cose che vediamo. Qui c’è anche un richiamo ad Aristotele: le cose stesse, cioè la sostanza sarebbe diversa dalle categorie. Ci sta dicendo che, presupponendo la necessità che le cose che noi vediamo siano necessariamente quelle che vediamo, ma perché abbiamo questa certezza? Perché noi vediamo, l’anima vede perché diretta dall’intelligenza e l’intelligenza procede direttamente dall’Uno. Quindi, il vedere le cose diverse da quelle che sono, sarebbe una minaccia, sarebbe un “inganno”, così come ne parlavano i sofisti. Ricordate nel Sofista di Platone, quando il forestiero dice a Teeteto: lo vedi quell’albero? Dice no, io non lo vedo, però se tu me lo descrivi allora vedo, vedo quello che tu mi stai indicando, perché me lo dici tu; ma io quell’albero di cui parli tu non lo vedo, perché non vedo quello che vedi tu. Come dire che è un’altra sottolineatura della necessità che ci sia un qualche cosa di immobile, di fermo e di stabile, che garantisca che le cose siano quelle che sono. A pag. 723. Così è anche delle cose sensibili: essa (l’anima) in qualche modo le tocca e le illumina con una luce che da essa proviene e così se le pone davanti agli occhi, poiché la sua potenza sensitiva è pronta ad agire come sul punto di partorire. Quando l’anima si rivolge con interesse a qualcuno degli oggetti che le appaiono, essa rimane in tale stato per lungo tempo come se quell’oggetto fosse presente, e quanto più forte è l’interesse tanto più di duraturo è il ricordo. Ecco perché si dice che i bimbi hanno più memoria, perché i ricordi non si allontanano da loro ma rimangono davanti ai loro occhi, in quanto non vedono ancora cose in gran numero, ma solo poche. Qui Plotino sta cercando di giustificare il vedere le cose. Dice che non si tratta di una impronta ma è l’anima che è come se gettasse una luce sulle cose. Io so e anche voi sapete che questa cosa qui immediatamente ha richiamato la Lichtung di Heidegger, quel raggio di luce che arriva nella Foresta nera e illumina l’ente, e allora ecco che l’ente appare. Beierwaltes non aveva proprio tutti i torti a parlare di una impronta neoplatonica anche in Heidegger. Siamo a pag. 729. Qui ce l’ha con gli epicurei. Se qualcuno sosterrà che non è così, ma che sono gli atomi… Qui ce l’ha con Democrito, naturalmente. …o indivisibili, che concorrendo insieme creano l’anima, costui sarà confutato dalla unitarietà, dalla comunione simpatetica e dalla giustapposizione dell’anima, poiché ciò che è unitario e simpateticamente connesso non può derivare da corpi impassibili e incapaci di unirsi fra loro. /…/ E poi da corpi indivisibili non può nascere né corpo né grandezza. Non si sa bene per quale motivo. Dice: costui, Democrito – si rivolge a lui, anche agli epicurei ma soprattutto a Democrito – sarà confutato dalla unitarietà, dalla comunione simpatetica. Che confutazione è? Comunione simpatetica: questo dovrebbe confutare Democrito. A pag. 747. Ed ora esaminiamo in che senso si applichi all’anima il termine entelechia. Si dice che l’anima tiene, nel composto umano, il posto della forma rispetto alla materia; essa però non è forma di qualsiasi corpo, cioè di un corpo in quanto tale, ma di un corpo naturale organico che ha la vita in potenza. Ora, se essa è assimilata a ciò con cui è messa a raffronto, come la forma di una statua rispetto al bronzo, l’anima deve, qualora il corpo venga diviso, dividersi anch’essa e, se una parte del corpo sia amputata, una parte dell’anima è amputata insieme con essa; il ritiro dell’anima durante il sonno non è ammissibile, poiché l’entelechia deve aderire a ciò di cui è entelechia; ma, in verità, nemmeno il sonno potrebbe esistere. Se fosse entelechia, non ci sarebbe conflitto fra ragione e desideri; e poiché non è mai in dissenso con se stessa, sarebbe tutta pervasa da un senso di unità e di identità. Cosa ha inteso della entelechia di Aristotele? Che discorso sta facendo? L’anima sarebbe la forma rispetto alla materia; essa, però, dice, non è forma di qualsiasi corpo, cioè di un corpo in quanto tale, ma di un corpo naturale organico che ha la vita in potenza. E allora, qual è il problema? Lui deve avere inteso l’entelechia, verrebbe da pensare, come una sorta di implicazione: se questo allora quest’altro. È l’unico modo di immaginare un qualche senso rispetto a questo discorso che fa, che non significa niente, che non c’entra niente con quello che dice Aristotele, per il quale l’entelechia – che tra l’altro dice nel De anima è l’origine di tutto – non è altro che la simultaneità di un elemento con la sua negazione: δύναμις e ἐνέργεια.
Intervento: Tra l’altro, da quanto dice lui, fa precipitare la premessa nella conclusione, perché se dice che se fosse amputato l’arto, allora si dovrebbe amputare anche una parte dell’anima, ecc.
Sì, ma è quello che accade opponendo l’entelechia come una semplice implicazione. Se A allora B, quindi la A precipita nella B, la A diventa B. È dunque necessario che l’anima razionale sia entelechia in un altro senso, se si vuole proprio adoperare questo termine. Anche l’anima sensitiva, dato che essa conserva le impronte degli oggetti assenti... Prima aveva detto che non si tratta di impronte ma di luce che illumina. E va bene. …potrà conservarle senza l’aiuto del corpo; altrimenti, esse vi sarebbero come forme e immagini; ma se vi fossero in questo modo, sarebbe impossibile che ne ricevesse delle altre. L’anima sensitiva non e dunque un’entelechia inseparabile dal corpo. Non si sa neanche da che parte prenderlo. Sarebbero come forme e immagini. Sì, anche, ma l’entelechia non ha a che fare con il passaggio dalla forma all’immagine; l’entelechia non è un passaggio, per usare i termini di Aristotele, dalla δύναμις all’ἐνέργεια, ma l’entelechia è la simultaneità di δύναμις e ἐνέργεια. La portata del concetto di entelechia in Aristotele è che questi due termini non scompaiono – lo riprenderà Hegel molto tempo dopo – ma permangono entrambi simultaneamente, l’uno co-appartiene all’altro. A pag. 749. Non tutti i viventi, infatti, ricevono dal di fuori la vita, altrimenti si andrebbe all’infinito; ma è necessario che esista una natura che viva di vita originaria e sia imperitura e immortale, in quanto è il principio della vita anche per gli altri esseri. Non si può andare all’infinito, quindi bisogna accettare questa soluzione. È il discorso che fa anche Tommaso, una delle cinque vie è proprio questa, non si può tornare indietro all’infinito, bisogna fermarsi a un certo punto. Il problema semmai è: dove? Dove dico io. Qui anche il Divino nella sua totalità e il Beato deve avere la sua dimora, quello che vive da se stesso ed è da se stesso, l’Essere primo e il primo Vivente, libero per essenza dal mutamento, non soggetto né a nascere né al morire. Donde nascerebbe infatti e dove finirebbe morendo? E se vogliamo considerare seriamente l’attributo “essere”, questo non dovrà essere una volta essere e una volta non-essere: come anche il bianco, in quanto è colore, non è a volte bianco e a volte non bianco… ma esso è soltanto bianco. Ma ciò che possiede l’essere, da se stesso e originariamente, sarà sempre essere. Questo ente, che è originariamente ed eternamente ente, non è un che di morto, come una pietra o un legno. /…/ Prendiamo però l’anima, non quella che, caduta nel corpo, accoglie desideri e sentimenti irrazionali e si rende disponibile ad altre passioni, ma quella che, purificatasi da tutte queste cose, non comunica più, per quanto le è possibile, col corpo. Quest’anima inoltre ci mostra che i mali sono delle aggiunte esterne e vengono dal di fuori; ma, se essa si purifica, i valori superiori, la saggezza e le altre virtù, sono in lei come sue proprietà. A pag.753. Esamina dunque l’anima dopo aver eliminato ciò che essa non è; o meglio, la esamini colui che ha purificato se stesso e crederà di essere immortale, quando contempli se stesso in una sede intelligibile e pura. Egli vedrà allora una Intelligenza che non contempla nulla di sensibile, nessuna di queste cose mortali, ma nell’atto di intuire l’eterno con l’eterno; egli vedrà tutto ciò che è nel mondo intelligibile, diventato egli stesso un cosmo intelligibile e splendente, illuminato dalla verità che procede dal Bene, il quale su tutti gli esseri intelligibili irraggia verità: sicché gli sembrerà spesso che questo verso sia stato detto con bellezza: Salute, io sono per voi un Dio immortale, mentre egli ascende al Divino ed è tutto proteso alla somiglianza con lui. Qui siamo in pieno illuminismo. La ragione diventa quella cosa che, se condotta a modo, ci consente di diventare Dio, cioè, di arrivare al Bene assoluto, che è poi la verità assoluta. …anche le scienze, quelle che sono scienze autentiche sono all’interno dell’anima. Infatti, non già vagando in qualche modo fuori, l’anima contempla la temperanza e la giustizia, ma le vede per se stessa nella coscienza di ciò che essa è e di ciò che era in principio, e le vede insediate in se stessa, come statue ricoperto dalla ruggine. A pag.755. Se l’essere intelligibile è separato, come mai l’anima entra in un corpo? Tutto ciò che è soltanto Intelligenza, impassibile fra gli enti, possiede una vita puramente intellettuale e permane lassù in eterno: perché in lui non ci sono né impulsi né desideri. Ma l’essere che vien dopo l’Intelligenza, qualora accolga in sé il desiderio, si protende, proprio per il sopraggiungere di questo desiderio, verso un più ampio spazio e cerca di creare un ordine che sia conforme a quello contemplato nell’Intelligenza: egli ne è come gravido e, già nei dolori del parto, ha l’ansia di creare e crea. Qui c’è un problema con tutto il discorso di Plotino, perché l’Intelligenza è l’Intelligenza che procede direttamente dall’Uno. Dice: qualora colga in sé il desiderio. Perché dovrebbe? Se è tutto, non dovrebbe desiderare niente; e, invece, accoglie in sé il desiderio. Cioè, lui stesso non riesce a tenere separate le cose, nonostante faccia di tutto, ma non riesce a tenere separate le cose: questo Uno, questa Intelligenza, che dovrebbe essere assolutamente identica a sé e, quindi, non avere bisogno di nulla perché mancante di nulla, ha dei desideri, ma da dove gli arrivano? Come accade che desideri qualche cosa? Se desidera è perché gli manca qualcosa; che cosa gli manca?