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31 luglio 2019

 

Fenomenologia dello spirito di G.W.F. Hegel

 

Siamo al Capitolo III pag. 108, Forza e intelletto, fenomeno e mondo ultrasensibile. Questo universale incondizionato il quale è ormai il vero oggetto della coscienza… Quindi, l’oggetto della coscienza è un universale, è il significato. …è tuttavia ancora oggetto della coscienza medesima che non ha compreso peranco il suo concetto come concetto. Non ha ancora inteso il concetto come concetto, cioè, in quanto significato, potremmo dire. Le due cose sono essenzialmente da distinguere; alla coscienza l’oggetto, dalla relazione verso un Altro, è tornato in se stesso e quindi è divenuto, in sé, concetto;… In questo movimento è ritornato e la coscienza lo accoglie come concetto. Mediante il movimento della coscienza quell’oggetto è per noi così divenuto, che quella è intrecciata nel divenire di questo, cosicché la riflessione sui due lati è la medesima o è una riflessione sola. … Così l’intelletto ha bensì tolto la sua propria non verità e la non verità dell’oggetto;… L’ha tolta nel senso che la non verità dell’oggetto è l’opposizione; opposizione in quanto l’oggetto, cioè il significato, potremmo dire che è differente da sé. …e ciò che così gli è resultato è il concetto del vero come vero che è in sé; che non è ancora concetto, o che manca dell’esser-per-sé della coscienza; un vero cui l’intelletto, senza in esso sapersi, lascia fare a suo modo. Questo oggetto è l’oggetto della coscienza che è in sé ma non è ancora per sé, cioè, non è ancora concetto, è semplicemente un puro cogliere qualcosa. A pag. 110. Soltanto, esser per sé e comportarsi verso altro in generale, costituisce la natura e l’essenza del contenuto, la verità delle quali è di essere incondizionatamente Universale; e il resultato è senz’altro universale. Quindi, l’esser per sé è comportarsi verso altro. Questione che ritorna continuamente. A pag. 111, il capitoletto si intitola La forza e il gioco delle forze. Qui il termine forza possiamo intenderlo come ciò che i Greci chiamavano νργεια, cioè il lavoro, il lavorare. L’un momento appare dunque come l’essenza trattasi da parte, come universale mezzo o come il sussistere di materie indipendenti. Ma l’indipendenza di queste materie non è altro che questo mezzo;… Prima parlava di queste materie che sono tutte presenti ma che non si compenetrano, non si affèttano l’una con l’altra. Faceva l’esempio del sale che, sì, ha un peso, ma questo peso non affètta il fatto di essere cubico, ecc. Ma dire: l’universale, in lui stesso, sta in inseparata unità con questa molteplicità, è come dire: queste materie sono ciascuna dove è l’altra: esse si penetrano reciprocamente, ma senza toccarsi, perché, viceversa, il molteplicemente distinto è altrettanto indipendente. Ma con ciò è anche in pari tempo posta la loro pura porosità o il loro esser-tolto. Quando io parlo del sale ci sono tutti questi aspetti, ma il sale, in quanto tale, comporta che tutti questi elementi vengano tolti, non ci sono immediatamente. A sua volta tale esser-tolto o la riduzione di questa diversità al puro esser-per-sé, non è altro che il mezzo stesso, e questa è l’indipendenza delle differenze. Ovverosia, le differenze indipendentemente poste passano immediatamente nella loro unità, e la loro unità immediatamente nel dispiegamento, e questo di nuovo nella riduzione. Come che per cogliere il sale in quanto tale io devo togliere tutte cose, sennò il sale in quanto tale si disperde in infinite cose; pur tuttavia il sale è queste cose- Ecco che sia sempre al punto in cui diciamo che questo universale, questo oggetto, questa cosa, è uno e molti, simultaneamente. Poco più sotto. …ecco che l’intelletto, a cui il concetto della forza appartiene,… La forza è il lavoro del movimento dialettico. …è propriamente il concetto che sostiene i distinti momenti come distinti;… Il concetto mantiene distinti questi momenti - gli aspetti del sale. … giacché essi, nella forza stessa, non debbono essere distinti;… Perché in questo movimento dialettico, di fatto, non sono distinti, ma si distinguono nel concetto. …la differenza sta quindi soltanto nel pensiero. Questo è un elemento importante. Questa differenza che c’è all’interno dell’oggetto sta solo nel pensiero, cioè, è il pensiero che stabilisce tutti questi distinti. Ossia, in quel che sopra si è discorso è stato posto soltanto il concetto della forza ma non la sua realtà. Ma in effetto la forza è l’incondizionatamente universale che ciò che è per un altro lo è anche in se stesso, o che ha in lui la differenza, perché questa è solo l’esser per un altro. Questa è la forza: è il movimento per cui ciascuna cosa è quella che è in quanto è per un altro. Affinché dunque la forza sia nella sua verità, essa deve venir lasciata interamente libera dal pensiero e posta come la sostanza di quelle differenze:… quindi, la sostanza di quelle differenze non è che questo movimento. Questa è la sostanza. …prima, essa come quell’intera forza essenzialmente restante in sé e per sé;… Quindi, movimento che tuttavia resta in sé e per sé. …poi le sue differenze come momenti sussistenti sostanzialmente o sussistenti per sé. Come dire che la forza, questo movimento, necessita di qualcosa di fermo. Per potere dire che c’è movimento occorre che ci sia qualcosa di fermo rispetto al movimento, qualcosa che noi riteniamo fermo rispetto al movimento, sennò come cogliamo il movimento? A pag. 113, Bisogna revocare la posizione nella quale la forza si poneva come un Uno, e la sua essenza, quella di estrinsecarsi, come un Altro che le sopraggiunga dall’esterno;… Questa è una questione che lui riprende continuamente: non dobbiamo pensare la forza come un qualche cosa che si aggiunge. …la forza è piuttosto essa stessa questo universale mezzo del sussistere dei momenti come materie;… Sussistono in quanto all’interno del movimento. …o essa si è estrinsecata; e ciò che avrebbe dovuto essere la sollecitazione altra da lei, lo è invece essa stessa. Essa ora esiste dunque come il mezzo delle materie spiegate; ma ha anche essenzialmente la forma dell’esser-tolto delle materie sussistenti o è essenzialmente Uno; essendo posta come il mezzo di materie, questo esser-uno è ora un Altro da lei, ed essa ha questa sua essenza fuori di lei. Sta dicendo che questa forza in quanto tale è Uno; tuttavia, essendo questa forza un movimento, un lavoro, è sempre necessariamente presa fra sé e qualche cos’altro che deve muovere o dalla quale è mossa, sollecitata. Ma poiché essa deve essere necessariamente quale non è stata ancora posta, ecco che questo Altro sopravviene e la sollecita alla riflessione in se stessa, o toglie la sua estrinsecazione. L’Altro sopravviene rispetto a questa, posta come Uno, e la sollecita alla riflessione su se stessa, perché l’Altro è sempre un Altro da sé. Quindi, questo Altro da sé comporta il sé e, pertanto, se poniamo questa forza come Uno, non possiamo comunque togliere il fatto che occorre che ci sia un Altro che la “costringa” a riflettere su di sé, cioè a ritornare in sé. Ma in effetto essa stessa è questo esser-riflessa in sé o questo esser-tolto della estrinsecazione; l’esser-uno dispare com’esso apparve, ossia come un Altro; essa lo è da sé; è forza ricompressa in sé. La forza, questo movimento, prima si espande verso l’atro; poi, in quanto altro da sé, ritorna su di sé ricomprimendosi. Ciò che sorge come altro e che la sollecita sia alla estrinsecazione, sia al ritorno in se stessa, è, quale immediatamente resulta, esso stesso forza; giacché l’altro si mostra tanto come universale mezzo che come uno; e si mostra così che ciascuna di queste figure sorge in pari tempo solo come momento dileguante. Ciascuna delle due cose non c’è per sé, non c’è senza l’altra; quindi, dilegua continuamente nell’altra, la quale per essere quella che è deve dileguare nella precedente, e così via. (Nel frattempo entra un’altra persona). Qui sta parlando della forza, cioè il movimento all’interno del concetto. Il concetto è fatto di un movimento continuo; questo movimento Hegel lo chiama “forza”. In greco, energon, è propriamente il lavoro; quindi, potremmo intendere la forza come il lavoro che c’è nella parola. Da prima la seconda forza, come sollecitante, e cioè come universale mezzo, si contrappone, secondo il contenuto di questo mezzo stesso, a quella che è determinata come forza sollecitata;… Quindi, abbiamo una forza che sollecita e l’altra che è sollecitata. …ma poiché quella è essenzialmente alternazione di questi due momenti ed è essa stessa forza, ecco che, in effetto, universale mezzo essa è soltanto quando venga a ciò sollecitata; e similmente anche soltanto unità negativa o ciò che sollecita la forza al ritornare, lo è mediante il proprio venir sollecitata. Come dire che questa forza, che da una parte sollecita ma dall’altra viene sollecitata, comporta sempre che uno dei due elementi si imponga sull’altro e, nel momento in cui si impone sull’altro, quest’altro dilegua. Poi, una volta che è sollecitata, questo essere sollecitata fa dileguare il sollecitante. È sempre un movimento simultaneo ma continuo, ininterrotto. Il gioco di entrambe le forse consiste dunque in questo opposto esser-determinato di entrambe, nel loro esser-l’una-per-l’altra in questa determinazione, e nell’assoluto immediato scambio delle determinazioni;… Passiamo a pag. 117. Parla dell’interno, dell’interno come essenza, qualcosa che è simile alla cosa in sé di Kant. In quanto noi consideriamo il primo universale come il concetto dell’intelletto,… Il primo universale è quello che appare. …ove la forza non è ancora per sé, ecco che ora il secondo universale è l’essenza della forza, essenza quale si presenta come in sé e per sé. Dapprima c’è il primo universale, che il concetto dell’intelletto, dopodiché questa forza, questo lavoro, non è ancora per sé, non ha ancora determinato l’elemento che deve ritornare per definire il concetto, per determinarlo. O, viceversa, se noi consideriamo il primo universale come l’immediato che per la coscienza dovrebbe essere un oggetto effettuale, ecco che questo secondo universale è determinato come il negativo della forza sensibilmente oggettiva;… Se ciò che io pongo come primo universale, il concetto dell’intelletto, è chiaro che ciò che interviene in un secondo momento sarà un qualche cosa che non è questa cosa, sarà un’altra cosa, e, quindi, sarà qualcosa che le si oppone, un negativo. A pag. 118, punto 54, Il mondo ultrasensibile. L’interno, l’apparenza o fenomeno, l’intelletto. Tale verace essenza delle cose si è ora così determinata che non immediatamente è per la coscienza;… La coscienza non riesce a cogliere direttamente la cosa in sé, c’è una mediazione. Vedremo adesso di che cosa è fatta questa mediazione. Il medio che conchiude i due estremi (della forza), l’intelletto e l’interno, è lo sviluppato essere della forza, essere che per l’intelletto stesso è ormai un dileguare. Tenete sempre conto che nella Fenomenologia dello spirito si pone questo schema, questo movimento, dove si pongono due elementi e dove uno dilegua per l’altro. Il fatto è che questo altro a sua volta dilegua. Prendiamo la questione del significante e del significato. Dico qualcosa, dico un significante, ma questo significante non è significante senza il significato. Chiaramente, questo significato, nel dire il significante, dilegua, nel senso che ciò che dico è il significante e non il significato, tant’è che de Saussure poneva la barra tra significante e significato per indicare la non sovrapponibilità delle due cose. Quindi, questo significante muove verso il significato, che lo fa diventare significante, ma questo significante di prima non è più quel significante, perché è stato trasformato dal significato, ma senza il significato non potrebbe essere significante; quindi, questa trasformazione continua è inesorabile, inevitabile. È la stessa cosa che poi riprese anche Heidegger, parlando del mondo: io sono il mondo, trasformo il mondo continuamente con il mio progetto ma, una volta trasformato questo mondo, io stesso sono trasformato. C’è questo ritorno, è il famoso circolo ermeneutico. Questo gioco delle forze è perciò il negativo sviluppato;… Il gioco delle forze vuole dire che uno è positivo e l’altro è negativo; dove il negativo è sempre necessariamente presente, ovviamente. …ma la verità del negativo è il positivo, vale a dire l’universale, l’oggetto che è in sé. A pag. 121, verso la fine della pagina. Ma di questo gioco delle forze noi abbiamo veduto che ha la seguente proprietà: la forza sollecitata da un’altra forza è a sua volta il sollecitante per quest’altra, la quale, anche, soltanto così diviene sollecitante. Ci sta dicendo che l’uno e l’altra, sollecitante e sollecitata, si scambiano ininterrottamente: la forza sollecitante diviene a sua volta sollecitata, che sollecita poi quell’altra. Così qui è presente il solo scambio immediato o l’assoluto scambiarsi della determinatezza costituente l’unico contenuto di ciò che sorge, quello cioè di essere o universale mezzo o unità negativa. Esso, nel suo determinato sorgere, cassa esso stesso immediatamente di essere così come esso sorge;… Nel senso che in questo movimento muta continuamente. Questo movimento muta entrambe le cose, sia l’una che l’altra. …con il suo determinato sorgere sollecita l’altro lato che, così, si estrinseca; ossia, questo lato è ora immediatamente ciò che doveva essere il primo. Questo è il concetto fondamentale in Hegel: uno scambio ininterrotto. Parlando c’è uno scambio ininterrotto: il mio dire pone ciò che sto dicendo; ciò che sto dicendo modifica il mio dire; modificando il mio dire, di nuovo questo dire modifica ciò che sto dicendo, e così via all’infinito. Entrambi questi lati, la relazione del sollecitante e la relazione del contrapposto contenuto determinato, sono, ciascun per sé, l’assoluto invertirsi e scambiarsi. Ma entrambe queste relazioni son di nuovo una medesima cosa; e la differenza di forma, essere ciò che sollecita e ciò che è sollecitato, è quella stessa che è la differenza di contenuto; vale a dire il sollecitato, come tale, il medio passivo; il sollecitante, invece, il medio attivo, l’unità negativa o l’uno. Uno passivo e l’altro negativo, ma si scambiano continuamente. Con ciò dilegua ogni differenza di forze speciali che in questo movimento dovrebbero in generale esser presenti l’una contro l’altra;… Una è sollecitante e l’altra è sollecitata, sono una contro l’altra; però, non è così, ci sta dicendo. …infatti esse dipendono soltanto da quelle differenze; e così anche, insieme con quelle due differenze, la differenza delle forze viene a coincidere con una differenza sola. In questo assoluto scambio non c’è dunque né la forza, né il sollecitare e venir sollecitato, né la determinatezza di essere mezzo sussistente e unità riflessa in se stessa; non c’è né qualcosa singolarmente per sé, né ci sono opposizioni diverse; - anzi quel che c’è in questo assoluto scambio è soltanto la differenza come universale, e come tale che ad essa si sono ridotte le molte opposizioni. Tale differenza come differenza universale è perciò il Semplice nel gioco della forza stessa, ed è il Vero di questo gioco; la differenza è la legge della forza. Questa questione che ci sta dicendo è importante perché, in effetti, in questo continuo movimento, di fatto, c’è una differenza continua: la differenza tra sollecitante e sollecitato. Quindi, quando io pongo un’affermazione e voglio sapere che cos’è questa affermazione, se io guardo dentro questa affermazione, che cosa trovo? Qui c’è anche una critica a Kant: non è vero che la cosa in sé non è reperibile, è reperibile ma in quanto assoluta differenza: è un’assoluta differenza, nient’altro che questo. Quando io voglio sapere la cosa in sé, che cos’è veramente la cosa, mi trovo di fronte a un’assoluta differenza. Che è un po' ciò che diceva de Saussure: se voglio sapere che cos’è esattamente un significante, che cosa ritrovo? Trovo una relazione differenziale con tutti gli altri significanti; quindi, questo significante non è che pura differenza: Punto 60. Da prima l’interno è soltanto l’universale in sé. Ma questo universale in sé semplice è in essenza, altrettanto assolutamente, la differenza universale: esso è infatti il resultato stesso dello scambio, ovverossia lo scambio è sua essenza;… La sua essenza è lo scambio, non ha un’altra essenza, un’altra sostanza, è solo scambio; quindi, pura differenza. …ma scambio come posto nell’interno, qual esso in verità è; scambio, quindi, accolto nell’interno come differenza altrettanto assolutamente universale che, quietata, resta eguale a se stessa. Questa pura differenza rimane lì, c’è soltanto differenza. C’è soltanto differenza nel momento in cui voglio trovare la cosa in sé, ovviamente. Ossia, la negazione è momento essenziale dell’universale;… Questo universale è fatto di negazione. Essendo nient’altro che differenza, e chiaro che nella differenza ciascun elemento nega quell’altro. …ed essa o la mediazione sono dunque, nell’universale, una differenza universale. Questa è espressa nella legge come costate immagine della labile apparenza. Poco più avanti. …la molteplicità, cioè, contraddice al principio dell’intelletto, al quale, come coscienza dell’interno semplice, il vero è l’unità in sé universale. La coscienza cerca l’oggetto in quanto unità, non in quanto differenza, per in quanto differenza non si conoscerà mai; quindi, deve cercare qualcosa che sia sé. Esso deve quindi piuttosto far coincidere le molte leggi in una legge; così, per es., si son concepite come una legge la legge secondo la quale una pietra cade, e la legge secondo la quale muovonsi le sfere celesti. Ma con questo reciproco coincidere, le leggi perdono la loro determinatezza; la legge diviene sempre più superficiale; e con ciò si arriva in effetto a trovar non l’unità di quelle leggi determinate, ma una legge che tralascia la loro determinatezza: proprio come l’unica legge che unifica in se stessa la legge della caduta dei gravi sulla terra e quella del movimento celeste, che esprime in effetto queste due. L’unificazione di tutte le leggi nell’attrazione universale non esprime nessun ulteriore contenuto, tranne il mero concetto stesso della legge che ivi è posto come essente. L’attrazione universale dice solamente che tutto ha una costante differenza verso altro. Se si attraggono è perché sono differenti. Con ciò l’intelletto ritiene di aver trovato una legge universale in grado di esprimere l’universale effettualità come tale; ma, nel fatto, non ha trovato che il concetto stesso della legge;… Quando si stabilisce una legge, con questa legge non è che sappiamo come stanno le cose, ma semplicemente abbiamo stabilito un concetto di legge. …ogni realtà è in lei stessa conforme alla legge. Da quel momento ogni realtà si conforma alla legge. L’espressione dell’attrazione universale ha peraltro una grande importanza, perché essa è diretta contro quel rappresentare privo di pensiero, cui tutto si offre nella forma dell’accidentalità, e per cui la determinatezza ha la forma dell’indipendenza sensibile. Andiamo avanti, a pag. 128. Ciò che dunque l’intelletto esprime è soltanto la necessità propria, differenza che esso soltanto così istituisce, esprimendo in pari tempo che la differenza non è una differenza della cosa stessa. Appartiene all’intelletto, non alla cosa. Tale necessità che sta soltanto nella parola, è quindi il racconto dei momenti che ne costituiscono il circolo; essi vengono bensì distinti, ma della loro differenza dicesi parimente non essere differenza della cosa stessa; e perciò essa vien subito tolta di nuovo; questo movimento dicesi dichiarare o spiegare. Quando si spiega qualche cosa, che cosa fa l’intelletto? Toglie tutto ciò che considera non vero e accoglie solo ciò che considera vero. È una critica che Hegel sta facendo al pensare comune, alla scienza, non alla scienza come la intende lui, ovviamente. Il singolo accadimento del lampo, per es., viene assunto come un universale, e questo universale viene espresso come la legge dell’elettricità; poi la spiegazione riassume la legge nella forza come essenza della legge. Questa forza è allora così costituita che, quando si estrinseca, sorgono elettricità opposte le quali, di nuovo, dileguano l’una nell’altra; cioè la forza è appunto costituita come la legge: si dice che entrambe non siano per nulla distinte. In questo movimento tautologico l’intelletto, come resulta, rimane attaccato alla calma unità del suo oggetto, e il movimento cade solo nell’intelletto, e non nell’oggetto; siffatto movimento è un dichiarare che non solo non dichiara nulla, ma che è a tal segno chiaro, che, mentre vorrebbe dire qualcosa di differente dal già detto, non dice proprio niente, anzi ripete soltanto la stessa cosa. In questo movimento tautologico è chiaro che non c’è la possibilità di andare oltre; nella tautologia si ripete ciò che si è già detto. Infatti, dice, Con questo movimento, nella cosa stessa non sorge nulla di nuovo; anzi esso vien preso in considerazione soltanto come movimento dell’intelletto. Punto 67, pag. 129. Dacché peraltro il concetto come concetto dell’intelletto è ciò stesso che è l’interno delle cose, questo scambio come legge dell’interno diviene per l’intelletto. Questo scambio di forze, questo movimento dialettico, diviene, ma diviene per l’intelletto, non esiste di per sé. Esso sperimenta dunque come sia la legge dell’apparenza stessa che divengano delle differenze che non sono tali, o che l’omonimo si respinge da se stesso; e come anche le differenze siano solo tali da non essere differenze, e quindi da togliersi; impara dunque come sia legge dell’apparenza che il non omonimo si attrae. I contrari si attraggono, gli identici si respingono. E questa è una seconda legge il cui contenuto è opposto a ciò che dianzi fu chiamato legge, cioè alla differenza che resta costantemente eguale a se stessa;… Afferma delle cose ma poi le riprende e le riarticola in un altro modo. Nel gioco delle forze tale legge resultò proprio come questo assoluto passare e come puro scambio; l’omonimo, la forza, si scompone in un’opposizione che dapprima appare come una differenza indipendente, ma che in effetto dimostra di non esserlo;… Prima, scomponendosi, questa forza appare come due cose indipendenti tra loro, ma, dice Hegel, non è proprio così. …infatti ciò che si respinge da se stesso è l’omonimo, e ciò che è respinto ha poi essenzialmente la capacità di attrarsi, ché esso è il medesimo; quindi la differenza istituita, non essendo differenza, si toglie di nuovo. Lui prende l’omonimo, che è lo stesso; questo stesso si divide nello stesso e in altro da sé; quindi, questo stesso è anche differente, ma, una volta posto come differente, è il fatto di essere differente ciò che in un certo senso lo rende identico, perché la sua specificità è questa. Essa si presenta allora come differenza della cosa stessa o come differenza assoluta; e questa differenza della cosa non è dunque altro che l’omonimo il quale si è respinto da sé, e perciò pone soltanto un’opposizione che non è opposizione. Mentre prima diceva che la differenza non appartiene alla cosa… dice si presenta allora come differenza della cosa stessa o come differenza assoluta. Perché? Perché questa differenza della cosa non è altro che la stessa cosa ma in quanto altra cosa. Ciascuna cosa è per sé in quanto altro. È questo che è sempre presente in Hegel. Anche nella tautologia: se io dico A è A, questo A si sdoppia in due A e una si oppone all’altra, non sono la stessa cosa. A pag. 134 parla dell’infinità, che rappresenta questo movimento continuo, ininterrotto, e che poi lui chiama l’infinità della vita, qualcosa che non può fermarsi su alcunché. In effetti, ciò che ci sta dicendo è che l’essere, così come è stato pensato, non c’è; l’essere è un continuo dileguare e comparire, un continuo dileguare e ristabilirsi, per dileguare di nuovo in altro. Lui ha parlato dell’inverso: ciascuna cosa è in sé ma anche altro da sé e, quindi, c’è una sorta di continua inversione dove il sé medesimo si trasforma in altro da sé e questo altro da sé torna nel sé medesimo. …nella differenza che è interna, l’opposto non è soltanto Uno di Due, - altrimenti esso sarebbe un essente e non un opposto;… Non è soltanto Uno. Se fosse soltanto Uno sarebbe un qualcosa che è. …anzi è l’opposto di un opposto, ossia l’Altro è immediatamente esso stesso presente in quell’opposto. L’Altro non è qualcosa che si aggiunge da fuori ma è qualcosa che è sempre presente nell’in sé, in ciò che appare: ciò che appare è sempre ciò che appare in quanto è anche ciò che non appare, in quanto è Altro. Questo Altro, ciò di cui è fatto, è ciò che consente a quell’uno di essere quello che è; così come tutti i significanti, che sono differenti da un significante, sono necessari perché quel significante esista. Io posso ben porre qui il contrario, e là l’altro di cui esso è il contrario: dunque il contrario da un lato, in sé e per sé senza l’Altro; ma appunto perché io ho qui il contrario in sé e per sé, esso è il contrario di se stesso, o ha in effetto già immediatamente presente in lui l’Altro. È chiaro che se di una cosa pongo il suo contrario, e poi faccio il contrario di questo contrario, ritorno da dove sono partito. È questa l’infinità, di cui parla, questo movimento continuo, ininterrotto. A pag. 135, punto 73. Questa infinità semplice o il concetto assoluto, è da dirsi l’essenza semplice della vita, l’anima del mondo, il sangue universale che, onnipresente, non vien turbato né interrotto da differenza alcuna e che è, anzi, tutte le differenze, nonché il loro esser-tolto;… È tutte le differenze: il significante è tutti gli altri significanti in quanto tolti, sennò non c’è. Questa infinità semplice è eguale a se stessa perché le differenze sono tautologiche: sono differenze che non sono differenze. Tale essenza eguale a se stessa si rapporta quindi soltanto a se stessa. A se stessa: e così ciò a cui tende il rapporto è un Altro, e il rapportarsi a se stesso è piuttosto lo scindere; ossia proprio quella autoeguaglianza è differenza interna. Se io mi rapporto soltanto a me stesso, è chiaro che ci sono io e me stesso, siamo in due; c’è, quindi, una scissione, ne parlerà a breve. A pag. 136, verso la metà. L’eguale a se stesso si scinde; il che significa: esso si toglie come qualcosa già scisso, si toglie come esser-altro. L’unità della quale si suol dire che da essa la differenza non può venir fuori, è essa stessa in effetto soltanto l’un momento della scissione; è l’astrazione della semplicità che sta di contro alla differenza. L’uguale a se stesso si scinde: A=A; quindi, questa A si è scissa in A=A; il che significa che esso, l’uguale a se stesso, si toglie come qualcosa di già scisso. Questa A, che dovrebbe essere uguale a se stessa, si toglie in quanto tale, perché abbiamo di fronte non più la A ma una scissione: A=A. Ma se l’unità è proprio l’astrazione… Qui c’è Severino: l’unità è l’astrazione. …se è solo l’Uno degli opposti, allora è già detto ch’essa è lo scindere;… Questa unità è già una scissione, perché se io voglio dire che A è A, per confermarla, per stabilirla, devo scinderla. Quindi anche le differenze della scissione e del divenir eguale a se stesso non sono che questo movimento del togliersi;… Per dire che A è se stessa devo scinderla, A=A; quindi, la A in quanto tale non c’è, si è tolta, c’è soltanto questa scissione; tuttavia, questa scissione è la condizione perché ci sia la A, perché questa scissione parla delle A. …perché, essendo l’eguale a se stesso che deve ancor scindersi, - ossia diventare il proprio contrario, - un’astrazione, o già esso stesso qualcosa di scisso, il suo scindere è un togliere ciò che esso è; ed è dunque il togliere il suo stato di scissione. Quindi, c’è questa scissione, la A che si scinde in A=A, ma, per potere identificare la A, devo togliere questa scissione, perché sennò la A è anche il suo opposto, quindi, è anche non-A. Pertanto, devo porre questa scissione per poterla togliere. Vedete che qui c’è Severino. Infatti, lui come risolveva il problema? Facendo quella sua famosa formula: (A=A)=(A=A). A pag. 137. Ma questo divenir-eguale è altrettanto immediatamente uno scindere; ché l’intelletto toglie le differenze e pone l’Uno della forza soltanto istituendo una nuova differenza di legge e forza, la quale in pari tempo non è differenza; e proprio perché questa differenza non è tale, procede esso stesso di nuovo a togliere questa differenza, lasciando che la forza abbia proprio la stessa costituzione della legge. Questa differenza, nella scissione, deve togliere la scissione per stabilire la A; quindi, prima c’è la scissione, per potere stabilire che è una A, ma poi devo togliere questa scissione per tornare a stabilire che è una A, perché se è scissa non è una A ma un’altra cosa, è una scissione di A. A pag. 138. Poiché l’oggetto della coscienza è questo concetto dell’infinità… L’oggetto della coscienza si occupa di questa infinità, cioè di questo movimento ininterrotto. …essa è, così, coscienza della differenza come differenza immediatamente altrettanto tolta; la coscienza è per se stessa, è il distinguere dell’indistinto o autocoscienza. Io mi distinguo da me stesso; e in quest’atto è immediatamente per me che questo distinto non è distinto. Io, l’omonimo, mi respingo da me stesso; ma questo distinto, ossia qualcosa che è inegualmente posto, mentre è distinto, immediatamente più non costituisce per me una differenza. Per potere dire io devo scindere questo io, cioè devo dire io e poi porre l’io come oggetto, come oggetto di ciò che sto dicendo; però, sono sempre io e, quindi, ecco che questo distinto si scinde: soltanto scindendosi posso dire io. E qui si avvicina alla questione dell’autocoscienza. La coscienza di un Altro, di un oggetto in generale, è anch’essa necessariamente autocoscienza, esser-riflesso in se stesso, coscienza di se stesso nel suo esser-altro. È la coscienza che si accorge… Diciamola così, partendo dall’in sé e il per sé: la coscienza coglie l’oggetto; l’oggetto con il per sé diventa determinato, ma questa determinazione, questo universale, non è poi così determinato perché si scompone in infinite cose. Quindi, l’in sé si rivolge al per sé, come il significante si rivolge al significato per determinarsi, per sapere che cos’è, ma per sapere che cos’è si accorge che questo “che cos’è?” lo rinvia continuamente ad altro. A questo punto, ritorna su di sé in quanto infinità, diciamola così; e, allora, chi garantisce che questa cosa è questa cosa? Chi la percepisce, questo io, è lui che dovrebbe garantire questa identità, solo che questo io, a sua volta, si scinde: per potere dire “io” devo scindere. Risuona in questo caso la battuta di Rimbaud, che diceva “Io è un altro”. Ora, la coscienza, a questo punto, diventa autocoscienza – lo vedremo nel prossimo capitolo – nel momento in cui accoglie il fatto che il per sé a cui si rivolge, in effetti, è per l’io, per l’in sé che l’ha posto, e che, quindi, in questo movimento l’in sé scompare nel per sé, il significante scompare nel significato. Tenete conto che queste relazioni sono sempre alquanto problematiche, ma usiamole lo stesso. Il significante scompare nel significato; questo significato non può essere, tuttavia, determinato in alcun modo perché è un’infinità di elementi. Tuttavia, io devo determinarlo; e, quindi, che cosa succede? Succede che questo significato, questo per sé, torna nell’in sé ma tenendo conto di tutto ciò che ha dovuto togliere per potere fermare qualcosa. Qualcosa deve essere fermato, non c’è movimento se non si parte da qualcosa di fermo, ma perché qualcosa sia fermo devo determinarlo togliendo tutto ciò che questa cosa non è, quindi, identificandola in qualche cosa. Il lavoro che fa la coscienza, per Hegel, è questo cammino dall’in sé al per sé, dove la coscienza trova il per sé, cioè la cosa, l’oggetto, il significato, ma la trova sempre per un altro. Ma chi è questo “per un altro”? Non è altro che per sé. Quindi, la coscienza che ritorna su se stessa, dopo aver colto l’oggetto in quanto differente, e diventa autocosciente, cioè si rende conto che quell’oggetto è differente per lei, per la coscienza - è la coscienza che ha fatto tutto questo lavoro, questa forza. Quindi, l’autocoscienza diviene per sé e si accorge che tutto questo lavoro non porta ad altro che a tenere conto del fatto che l’in sé è per l’oggetto, ma l’oggetto è per l’in sé perché è l’in sé che lo pone in quanto tale. Il significato è per il significante, non esiste il significato da sé. Quindi, in tutto questo movimento l’autocoscienza non è altro che l’accorgersi che – torniamo a usare i termini significante e significato – che il significante necessita del significato, che dovrebbe determinare il significante, ma non lo determina se non come infinito; e, quindi, torna al significante, ma questo significante al quale torna come infinito rede il primo significante, dal quale si era partiti, un altro significante, per cui non è più lo stesso di prima. Ecco perché parlando ci si altera continuamente; ciò che si dice modifica immediatamente e continuamente il mio dire, il quale mio dire modifica il ciò che io dico, e ciò che dico modifica il mio dire, incessantemente e ininterrottamente. Ed è questo che costituisce l’autocoscienza; l’autocoscienza è rendersi conto di questo, e cioè che quando dico qualche cosa il ciò che dico è per me che lo sto dicendo; è questo io che sta dicendo questa cosa ciò per cui il per sé è per me; poi, dice Hegel, diventa il per noi, cioè siamo noi che stabiliamo che la cosa sta in un certo modo. Il “per noi” non è molto diverso da ciò che Peirce chiamava “verità pubblica” o che Heidegger chiamava la “chiacchiera”: siamo noi con le nostre conoscenze, con le nostre fantasie, con le nostre storie, con i nostri racconti, che stabiliamo il significato di una certa cosa, che diventa per noi. Ma questo significato di per sé non è altro che un puro movimento. Se io voglio sapere esattamente che cos’è quel significato, cercando l’essenza della cosa in sé, trovo sempre e soltanto differenze, nient’altro che questo. La differenza è una relazione. Lo diceva anche Greimas: A e B, una volta che sono in relazione, non sono più A e B, sono una relazione, cioè una differenza. Quindi, a questo punto, come percepisco qualche cosa? La percepisco sempre e soltanto all’interno di una serie di rinvii, e quindi di differenze, dove un qualche cosa si determina. Viene determinata, sì, in quanto io tolgo tutte le opposizioni, ma, togliendo queste opposizioni, mi illudo di determinare qualche cosa, ma in realtà tutte queste opposizioni rimangono, non vengono eliminate, sono sempre lì. Quindi, di fatto, ciò che io percepisco, aveva ragione Hjelmslev, è l’oggetto che non è altro che l’intersezione di un fascio di relazioni. È questo che percepisco ed è in questo modo che io ho esperienza della percezione: attraverso differenze. Differenze dove a un certo punto qualche cosa si determina, ma si determina unicamente togliendo le sue opposizioni, ma togliendole solo per poterla determinare. Una volta determinata, togliendo le opposizioni, questa cosa, che dovevo determinare, si è alterata, non è più quella di prima. Esattamente come dice Severino rispetto all’essere e al non essere: ho l’essere ma, se non tolgo il non essere, questo essere è autocontraddittorio; allora, devo porre il non essere ma come non non essere, quindi, come tolto; ma, una volta tolto il non essere, l’essere da cui sono partito, che prima era autocontraddittorio, è diventato incontraddittorio e, quindi, è cambiato, è diventato un’altra cosa. Potremmo dire, forzando un po' la cosa, che ciò che percepisco è sempre qualche cos’altro. A pag. 139, punto 76. Noi vediamo che nell’interno dell’apparenza l’intelletto non è in verità nient’altro dall’apparenza stessa,… L’intelletto è ciò che appare, è quella cosa che mi appare. …ma non com’essa in quanto gioco di forze; sì bene è quest’ultimo nei suoi momenti assolutamente universali e nel movimento di essi; e in effetto fa esperienza solo di se stesso. Di che fa esperienza l’intelletto? Solo di se stesso, non fa l’esperienza della cosa, non può farla. Elevata sopra la percezione, la coscienza si presenta conclusa con l’ultrasensibile attraverso il medio dell’apparenza, mediante il quale essa guarda in quello sfondo. I due estremi, quello de puro interno e quello dell’interno che guarda in questo puro interno,… Abbiamo l’interno, l’essenza, e poi l’intelletto che guarda questo puro interno. …sono venuti ora a coincidere;… Sono diventati la stessa cosa. C’è questo interno e io che lo guardo: siamo la stessa cosa. Tale cortina è dunque caduta dinanzi all’interno; è presente cioè l’atto per cui l’interno guarda nell’interno; è presente cioè il guardare dell’omonimo indistinto il quale respinge se stesso e si pone come interno indistinto, ma pel quale è altrettanto immediatamente presente l’indistinzione di entrambi i termini. Un guardare l’interno e, poi, un guardare mentre si guarda l’interno; come dire che l’intelletto vede la cosa ma, in realtà, vede soltanto se stesso. È questo che fa l’intelletto: non vede la cosa. Per questo motivo, dicevo, vede sempre altro. Questa è l’autocoscienza: questo guardare l’interno e questo guardare il guardare l’interno. È chiaro allora che dietro la cosiddetta cortina che dovrebbe occultare l’interno, non c’è niente da vedere, a meno che noi stessi non ci rechiamo là dietro, e perché si vegga, e perché là dietro ci sia qualcosa che possa esser veduto. Quando io cerco di andare dietro la cosa, cosa vedo se non sempre me stesso, cioè il mio intelletto che sta ponendo quella cosa che io voglio vedere? Lo ha detto chiaramente: dietro a questa cosa non c’è niente; ma se io vado dietro, allora vedo me che vado dietro. Il prossimo capitolo è quello sull’autocoscienza. È uno dei capitoli più importanti della Fenomenologia dello spirito, perché è la questione essenziale; tutto ciò che abbiamo detto fino adesso ci conduce all’autocoscienza, alla sintesi.