INDIETRO

 

 

31 maggio 2023

 

I concetti fondamentali della filosofia aristotelica di M. Heidegger

 

La volta scorsa abbiamo parlato di logica. Heidegger, leggendo Aristotele, ci ha fornito alcuni spunti, anche se ne parla brevemente, però gli spunti che ha fornito sono stati interessanti. La logica è importante, è il modo in cui si parla. Quello che è mancato nel discorso che vi ho fatto mercoledì scorso, e che invece occorre inserire, è questo: da dove viene la logica così come la conosciamo oggi? Certo, da Aristotele ovviamente, ma dopo di lui sono accadute delle cose, cose che hanno costituito dei punti di svolta. Nel III sec. d. C. in Grecia Plotino, greco, scrive le Enneadi e lì accade una cosa importante. Tutte le Enneadi sono intorno all’Uno, che era presente già da sempre nella Grecia classica, pensate a Platone con l’Uno e i molti, ma con Plotino l’Uno diventa ciò che produce i molti e li ordina, quindi, li domina. Questo non c’era presso la Grecia classica. E questo è un punto. Siamo intorno all’anno mille, quindi tra l’alto Medioevo e il basso Medioevo. Anselmo d’Aosta scrive il Proslogion, nel quale inserisce, ed è l’aspetto più importante, la prova ontologica dell’esistenza di Dio. Per la prima volta nella storia l’esistenza di Dio viene prodotta da un’argomentazione, per la prima volta Dio è un teorema, cioè l’ultima formula di un’argomentazione: Dio viene creato dalla logica. Questo fatto non è stato ovviamente senza conseguenze e non è nemmeno casuale che la logica abbia avuto da Anselmo in poi uno sviluppo straordinario. A questo ha concorso anche Tommaso, poco più di due secoli dopo, il quale ha detto che la ragione è un dono di Dio, perché attraverso la ragione, cioè la logica, noi possiamo conoscere meglio Dio e, quindi, apprezzarne e valutarne meglio la bontà e l’infinita grandezza. Tommaso santifica la logica, diventa santa, è un dono di Dio. Altro punto importante. Meno di un secolo dopo, quindi siamo già nel basso Medioevo, Guglielmo di Ockham, in Inghilterra, scrive la Logica dei termini – termini è da intendersi qui come concetti. In questo suo scritto Guglielmo di Ockham, che aveva letto l’Organon di Aristotele– siamo nel basso Medioevo e i testi di Aristotele erano già diventati disponibili, mentre non lo erano nell’alto Medioevo – si trova a riflettere sul sillogismo e sulle difficoltà connesse con la premessa maggiore. Difficoltà che aveva già incontrate Aristotele e che aveva esposte nella Metafisica. Guglielmo di Ockham si rende conto che qualunque sillogismo è fondato – questo lo diceva già Aristotele – sulla δόξα, sull’opinione, sul sembra che sia così. Come Guglielmo di Ockham risolve il problema? In questo modo: la premessa maggiore, quella sostenuta dalla δόξα, in realtà è garantita da Dio. Le cose sono così perché non ci ingannano e non ci ingannano perché Dio non è né cattivo né ingannatore ma è buono ed è onesto e, siccome è buono e onesto, la natura, che è una sua creazione, è altrettanto buona e onesta, dunque non ci inganna, dunque ciò che vediamo è quello che è per volontà di Dio. Punto importante, presente ancora oggi. Molti secoli dopo infatti, Einstein scrive a Niels Bohr una lettera che è rimasta famosa, nella quale lettera Einstein dice che dobbiamo presupporre che Dio non giochi ai dadi, che cioè sia onesto, non ci inganni, perché se lui non è onesto, cioè le cose non stanno così, allora tutto il faraonico castello costruito dalla scienza rovina come un castello di carte, viene giù tutto. Dunque, Dio ancora e sempre a garanzia. Abbiamo detto di Guglielmo di Ockham. di questo passo importantissimo: Dio è diventato la garanzia della premessa maggiore, altrimenti non ne ha nessuna. Siamo, quindi, nel XIV secolo, fine del 1300, inizi del 1400. Passo successivo e siamo nel XVII secolo: i logici di Port-Royal. È stata una scuola di logica in Francia e uno dei suoi personaggi di spicco fu Arnauld. Cosa accade con la logica di Port-Royal? Accade questo. Dopo Guglielmo di Ockham la premessa maggiore, cioè tutto il fondamento del sillogismo, diventa qualcosa che è garantita da Dio, quindi, qualcosa di cui non è più necessario occuparsi. La logica di Port-Royal trasforma la logica da strumento per la conoscenza – così com’era per Aristotele e potremmo dire per tutto il mondo greco – semplicemente in un calcolo proposizionale, che deve rendere conto della correttezza di un’argomentazione, dicendo se è valida oppure no. Molti secoli dopo un docente di Filosofia del linguaggio, di Torino, affermò che la logica descrive il corretto modo di pensare quando si ragiona correttamente: logica di Port-Royal. Questo per dirvi come alcune cose siano rimaste esattamente allo stesso modo. Quindi, la logica non ha più bisogno di pensare se stessa, è semplicemente un fare di conto, un calcolo proposizionale per vedere se un’argomentazione è corretta, ma alla base di tutto c’è la consapevolezza che la premessa maggiore è comunque vera, è garantita, non ha bisogno di essere ulteriormente interrogata. E, difatti, con la logica di Port-Royal i problemi connessi con la premessa maggiore, cioè con la fondabilità di un sillogismo, svaniscono. Negli stessi anni, più o meno, Spinoza scrive la sua Etica, nella quale compare una frase celebre: Deus sive natura, Dio e la natura sono stessa cosa. Sta avvenendo un passaggio importante: la premessa maggiore viene sostituita dall’esperienza, dal vedere le cose. In fondo, Guglielmo di Ockham aveva stabilito che se vedo una certa cosa in un certo modo è perché Dio non mi inganna, quindi, la natura non mente. A questo punto accadono una serie di cose: l’empirismo inglese, Hume, Berkeley, Francis Bacon, Locke e altri. Cosa dice l’empirismo inglese? Berkeley: esse est percipi, essere, è essere percepito. L’esperienza diventa la premessa maggiore, ma può diventarlo perché è garantita, è già stata garantita da Guglielmo di Ockham: garantita da Dio. Quindi, l’esperienza è quella che è, perché io lo vedo, quindi, è così. Pensate solo un attimo a Eraclito: φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ, la natura dilegua mentre si mostra – è l’opposto dell’empirismo, ovviamente. L’empirismo, dunque, pone la natura a base di ogni cosa, pone l’esperienza, ma l’esperienza è esperienza della natura, quindi, la natura diventa la garanzia. Questo rende conto, non del tutto ma in buona parte, anche di un altro fatto, e cioè del motivo per cui la fisica, così come la conosciamo oggi, nasce in quegli anni. Il vero diventa la natura, è la natura che esibisce il vero. Quindi, la fisica come scienza o filosofia della natura, indagando la natura, indaga automaticamente il vero. Dunque, il vero non è più il risultato del pensare teoretico ma è il risultato dell’esperienza della la natura, per cui lo studiare la natura, la fisica, è ciò che restituisce il vero. Il vero è tratto dalla natura, non più dal pensiero. Siamo sempre intorno al XVII-XVIII secolo e accade un’altra cosa: l’illuminismo, il secolo dei lumi. I lumi devono ovviamente illuminare il buio, quindi, i lumi dovrebbero fare luce sul buio e sull’oscurantismo medioevale. Come? Utilizzando la ragione naturalmente, quindi la logica. Logica che a questo punto è già stata garantita rispetto alla premessa maggiore, non offre più alcun problema e, quindi, è ridotta a un calcolo per cui la logica non è nient’altro che un metodo, una sorta di algoritmo – allora non si usava questo termine – un metodo per stabilire la veridicità di un’affermazione. Dunque, l’illuminismo, cioè Voltare, Montesquieu, D’Alembert, Diderot e altri. Intanto, teniamo conto di questi tre momenti: l’Uno, Dio, la natura. Manca ancora un elemento, ma adesso ci arriviamo. Voltaire – siamo nel XVIII secolo – muore pochi anni prima della Rivoluzione Francese. Con Voltaire si apre un’altra via, quella per i diritti civili dell’uomo. Voltaire è il personaggio che definitivamente toglie Dio, quindi, non c’è più bisogno di Dio ma la ragione, e cioè la natura… La ragione non è altro che il metodo per scoprire il vero che c’è nella natura. Non c’è più bisogno di Dio, l’esperienza va benissimo al posto suo. I diritti dell’uomo da dove sorgono? Sorgono dall’idea di natura. Il giusnaturalismo, il diritto di natura, un diritto che deve essere uguale per tutti, nasce con l’illuminismo, non c’era prima. Ma questa natura è buona o cattiva? Rousseau parla del buon selvaggio: l’uomo nasce buono e puro, ma dopo, con la ragione, con la conoscenza e con la civilizzazione, diventa la canaglia che è. Quindi, la natura di per sé è buona. Stessi anni, Donatien Alphonse François de Sade scrive il suo libro più famoso, La filosofia nel boudoir. All’interno di questo testo c’è uno scritto filosofico, che si chiama Francesi ancora uno sforzo, uno sforzo per liberarsi dalle pastoie dell’oscurantismo medioevale, dalla bigotteria, ecc. Cosa dice in questo breve saggio? Che l’uomo è natura, come un topo, come un elefante, e se è natura non può fare qualcosa che sia contro natura, non può andare contro se stesso: qualunque cosa faccia, dalla più esaltante alla più infame, è sempre e comunque natura, perché la natura è buona. Poi, a fianco ci sono altri che considerano che invece la natura sia cattiva, come Hobbes, che nel suo Leviatano parla dell’homo homini lupus, cioè tutti contro tutti, ognuno è il nemico degli altri. La natura è tendenzialmente cattiva, quindi, bisogna moderarla, limitarla, correggerla, ecc. Nascono anche delle utopie economiche. Queste utopie economiche dicono che l’uomo è, sì, buono ma non più di tanto, ciascuno tende al proprio interesse, però se ben indirizzato l’interesse di ciascuno può diventare l’interesse di tutti. Queste utopie fanno capo ai vari Smith, Ricardo, ecc. Quindi, la natura, buona o cattiva che sia, ormai a questo punto è diventata il punto di riferimento e Dio è scomparso, c’è la natura, Deus sive natura. Fu Spinoza il primo a porre questa sorta di equazione: Dio = natura. A questo punto la logica apparentemente, con la fine del Medioevo, non è più oggetto di un interesse specifico, come lo era stata per tutto il basso Medioevo, dove era al centro dell’interesse perché si voleva dare alla teologia un supporto logico, era questo il movente. Tolto Dio si è persa anche questa necessità, però rimane il fatto che la logica, cioè la ragione, viene utilizzata dall’Illuminismo per illuminare il Medioevo, i secoli bui. C’è, quindi, una notevole sottolineatura della ragione come ciò che consente agli uomini di uscire dalle pastoie dell’ignoranza. Quindi, diritto naturale: tutti gli umani sono uguali. Voltaire a un certo punto fa una considerazione e dice: avete mai provato ad andare nella sala della Borsa di Londra? Siamo nel XVIII secolo, quindi, grosso modo un secolo prima di Marx. Accade una cosa straordinaria, dice Voltaire, e cioè troverete il cristiano che fa affari con l’ebreo, che fa affari con il musulmano, che fa affari con l’anabattista, sono tutti uguali di fronte ai mercati. I mercati, sono quindi la cosa che rende gli umani tutti uguali. Sto parlando dei diritti dell’uomo. Ora, la Carta dei diritti dell’uomo è stata formulata dall’Assemblea delle Nazioni Unite nel 1948, tre anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, dove si dice che la persona ha diritto di non essere uccisa, ha diritto di non essere tratta in schiavitù, ha diritto di farsi una famiglia, ha il diritto di esprimere il proprio pensiero, ha il diritto di credere nel dio che ritiene più opportuno e altre cose del genere. Questa è la Carta dei diritti dell’uomo, ma questi diritti, che rendono tutti gli uomini uguali, trae la sua origine nell’Illuminismo, cioè nella ragione: è la ragione che in fondo rende tutti uguali, siamo tutti esseri ragionevoli e se ragioniamo dobbiamo giungere a quelle conseguenze. Ma la cosa più interessante a questo punto è che il discorso che faceva Voltaire è importante, perché in effetti sono proprio i diritti dell’uomo il fondamento, la base, il nutrimento del capitalismo. Se tutti siamo uguali allora io ho il diritto di avere quello che ha un altro, che non è una cosa che non devo desiderare. Ciò è in netta contrapposizione con il comandamento che dice “non desiderare la roba d’altri”. Dice: sei uguale all’altro, è tuo diritto desiderare ciò che ha l’altro, anzi, devi farlo. In questo modo si pongono chiaramente le basi del capitalismo, in cui ciascuno si sente in diritto di avere quello che ha l’altro e, quindi, di fare tutto quello che può per ottenerlo. La logica in tutto questo appare entrarci poco, ma solo fino a un certo punto, perché, come abbiamo visto, la logica, anche se dopo il basso Medioevo cessa di essere oggetto di interesse, rimane la base che fa della ragione il criterio fondamentale. Tutti gli umani sono razionali, ciascuno è parlante quindi razionale. Affermazione questa che ha preso a un certo punto un significato totalmente differente, lontanissimo dallo ζῶον λόγον ἔχον aristotelico. Tutti usano la ragione e noi sappiamo come deve funzionare la ragione. Ricordatevi di Port-Royal e anche del docente di filosofia del linguaggio di pochi anni fa, cioè la logica fornisce il corretto modo di ragionare, è descrittiva ma anche prescrittiva, se non si pensa così non si ragiona correttamente, cosa che naturalmente autorizza tutta una serie di operazioni. Ho voluto sottolineare i punti che hanno segnato una svolta importante nel pensiero e, quindi, nel modo di intendere la logica, che, come abbiamo visto, è passata dall’Uno a Dio, quindi, alla natura e poi ai mercati. Quest’ultimo passaggio è avvenuto con Voltaire, non con Marx. I mercati sono diventati la garanzia che non ci saranno più guerre, perché tutti si occupano di ottenere il proprio vantaggio e non hanno più interesse a farsi guerra ma a occuparsi delle proprie merci. Ho fatto un excursus rapido, manca in tutto questo l’aspetto geopolitico, cioè che cosa accadeva in Europa e dintorni nell’arco di tempo a cui ho accennato, cosa che non è secondaria. Dicevo, dunque, che i mercati regolano il vivere civile, ma regolano il vivere civile perché gli umani sono esseri ragionevoli e, quindi, capiscono qual è il loro interesse, che è di non ammazzarsi l’uno con l’altro. E, infatti, da quando ci sono i mercati sono finite all’istante le guerre! Vedete che ciò che noi oggi conosciamo come logica ha una sua storia, non viene dal nulla. Questi punti che vi ho sottolineato sono quelli che hanno determinato la logica così come è pensata oggi, e abbiamo anche visto che alcuni punti fondamentali erano sì presenti nel basso Medioevo con Guglielmo di Ockham ma anche in Einstein, erano sì presenti nella logica di Port-Royal ma anche nella filosofia del linguaggio di oggi. Sono ancora lì, ben presenti, perché non si possono togliere, perché chi garantisce la premessa maggiore nel sillogismo? Dio, ovviamente, solo lui può farlo. E questo è rimasto, anche se l’idea di Dio si è tolta con l’Illuminismo, con Voltaire e gli altri Dio è scomparso ed è stata messa la natura al suo posto. La natura è stata messa al posto di Dio, il quale era stato messo al posto dell’Uno di Plotino. La natura è la madre di tutti, la natura non mente. Come vedete, è l’idea di Dio, è Dio che non mente, ma si è spostata sulla natura. E così i mercati non mentono, perché anche loro vengono in fondo dalla natura: se si va a vedere bene, è qualcosa di naturale. Ecco, quindi, di che cosa è fatta la logica, da dove arriva e perché è quella che è: questo era ciò che volevo mostrarvi.

Intervento: Tutto ruota intorno alla garanzia della premessa maggiore.

Ha detto bene. È il problema del linguaggio. Chi garantisce che il linguaggio dica come stanno le cose? Nessuno naturalmente, solo Dio e, quindi, abbiamo bisogno di lui, Dio o chi per lui: la natura, i mercati. Il problema del linguaggio è il problema di sempre: l’uno e i molti di Parmenide. Il problema non si è spostato di una virgola, ha solo trovato di volta in volta degli aggiramenti diversi, ma il problema è rimasto esattamente lo stesso, immutabile e irrisolto. È irrisolvibile finché si tengono separati l’uno e i molti. Lo dicevamo la volta scorsa: non c’è la soluzione a questo problema, il fatto è che non c’è il problema, perché queste due cose si coappartengono. Non c’è mai stato il problema, il problema sorge quando si vogliono tenere separate le due cose, l’uno e i molti. Allora sì sorgono i problemi, perché sorge all’istante il nemico, quello che devo combattere. Anche la fisica e le scienze cosiddette dure sorgono in quegli anni, cioè nel momento in cui la natura viene messa al posto di Dio e diventa qualcosa che non mente e, quindi, è lì che bisogna trovare il vero, non più attraverso il pensiero teoretico. Questo è stato un passaggio fondamentale per la fisica e non soltanto; diciamo che ha consentito alla fisica di avere quell’avvio poderoso che ha avuto con Galilei, Newton, Keplero, ecc. e che continua ad avere tutt’oggi, perché si occupa della natura e la natura non mente. Come lo so? Dio, come ha ribadito lo stesso Einstein: dobbiamo presupporre che Dio non giochi ai dadi, cioè, che non menta, perché se mente è la fine di tutto.

Intervento: …

La questione dei diritti umani è recente, risale al 1948, ma ha le radici nell’Illuminismo, nel momento in cui la ragione diventa prioritaria su tutto, cioè, ci si fida ciecamente della ragione, della logica. Per esempio, Severino aveva una fede incrollabile nella logica, come se appunto la logica creasse Dio, potesse dire come stanno veramente le cose. Non è proprio così. In effetti, come abbiamo visto, il modo in cui nasce la logica – ce lo faceva vedere Heidegger – è l’inferenza, la necessità della finitezza della proposizione. Da lì nasce propriamente ciò che chiamiamo logica, diventata poi un’altra cosa attraverso una serie di passaggi che ho provato a tratteggiarvi, ma nasce così per potere utilizzare una proposizione per costruirne un’altra. L’idea che la finitezza della proposizione corrisponda allo stato di cose da qualche parte è venuta dopo con Guglielmo di Ockham, ma soprattutto con l’Illuminismo, cioè con la fede assoluta nella ragione. Chi controlla la ragione? È la logica, quindi, chi controlla la logica controlla tutto, cioè chi dice qual è il corretto modo di ragionare (Port-Royal). Tutto questo in qualche modo integra le cose che dicevamo mercoledì scorso sulla logica. Ecco, qui invece Heidegger, riprendendo Aristotele, ci mostra qualche cosa della natura, com’era per i greci. A pag. 257. Ciò che importa è mettere allo scoperto la natura nel suo esserci, in modo tale che il cammino che porta a essa non ci venga sbarrato da teorie e pregiudizi. Gli antichi vedevano la natura, nel suo esserci, anche nel suo mutamento, nel suo apparire e scomparire… Eraclito: la natura ama nascondersi. …ed è per questo che si interrogavano nel suo “da che cosa”. Per i greci la natura era tutt’altro che una garanzia, la natura era un movimento continuo, non garantiva assolutamente niente. Ci sono voluti moltissimi secoli perché la natura diventasse il riferimento ultimo, per cui la natura non mente. Per i greci invece mentiva. Nei capitoli 1 e 2 del libro I della Metafisica Aristotele discute la radice del διότι (perché). Nella vita pratica di tutti i giorni e nel quotidiano prendersi cura l’uomo si muove in modo solo implicito nel “perché” e nel “poiché”. Ciò viene esplicato nel λόγος, che è il modo fondamentale dell’“essere nel mondo”. La prospettiva dominante presso gli antichi era l’ente che “ci” è, l’ente concepito in quanto “fatto di…”. È questo il modo più immediato di rispondere alla domanda sul “che cosa” dell’esserci di una sedia o di un tavolo: basta dire che sono fatti di legno. Questa è una risposta, però essa non risponde all’autentico esserci dell’ente in quanto tavolo. Finché l’avere l’aspetto, l’apparire in quanto tavolo non viene anch’esso assunto come terreno della discussione, la questione del “da che cosa” dell’ente non può essere risolta. Come dire: perché ci appare così? Solo esaminando a fondo tale questione e studiando la natura nella sua prospettiva si può apprendere la risposta alla domanda sull’essere dell’ente che “ci” è in quanto tavolo. Quindi, poiché i φύσει ὅντα debbono essere indagati in modo da prendere in considerazione anche l’εἶδος, non basta chiedersi “di che cosa” sono fatti, fuoco, acqua, terra, aria; non basta cogliere una materia, poiché qui dobbiamo indagare anche l’εἶδος, proprio come nel caso della τέχνη: quando si produce qualcosa non ci si può limitare a cogliere la materia, ma si ha bisogno della prefigurazione della materia a partire dall’εἶδος. Ecco, quindi, la differenza sostanziale tra la fisica di Aristotele e la fisica contemporanea: la fisica contemporanea si occupa proprio di sapere come è fatto, come funziona, come si muove; mentre per Aristotele no. E, infatti, prosegue… “Infatti una cosa come un letto è un qualcosa che ha questo specifico aspetto, in un ente siffatto”. Lo σχῆμα è il “contorno”, la “figura”. Per la precisione bisogna dire: ποῖον τήν ιδέανÈ l’idea che produce la cosa, la produzione viene dall’idea. … “lo σχῆμα è da definirsi come quel genere di cose che esso è”. ‘Ιδέα: l’unico utilizzo di questo termine che ricorre in Aristotele è quello di ιδέα ed εἶδος. ‘Ιδέα qui altro non significa che “aspetto” (contro Platone):… Per Platone l’idea era la garanzia di tutto. … “la figura di un ente così come esso è fatto in riferimento al suo aspetto”– la figura di un ente che “ci” è, e non solo una massa di legno e pietra; non una figura che esiste soprasensibilmente da qualche parte, ma una figura così come essa si mostra. “Poiché la φύσις, l’esserci delle cose naturali assunto secondo la μορφή (lo stesso di σχῆμα), è superiore all’essere delle cose naturali assunto secondo il “di che cosa” del loro essere-fatte. Con la μορφή (lo σχῆμα) ottengo l’essere delle cose naturali in senso proprio. Nella questione della natura, le cose, τά ὅντα, gli enti, qual è l’aspetto importante? Non il che cos’è propriamente, il di che cosa è fatto, ma la sua forma, il come mi si mostra.

Intervento: Quindi, sposta l’accento dall’ente all’osservatore.

In parte sì. Per i greci l’ente come viene visto, come io lo vedo, così è. Dice che è solo la μορφή, la forma, che dà l’essere alle cose naturali in senso proprio, non è il ciò di cui sono fatte ma è il come le vedo. Ma non basta. Anche una mano finta è una mano, la vedo, quindi è una mano. No. A pag. 259. “Inoltre, è impossibile che una mano sia ciò che è, se è fatta di un materiale qualsiasi, ad esempio se è di bronzo o di legno”. Una mano di legno non è una mano: essa ha esattamente lo stesso aspetto… Ma non è una mano. Perché? E qui viene alla questione. Una mano di legno non vive, non “ci” è in quanto mano. All’εἶδος appartengono quindi anche la δύναμις (potenza) e l’ἒργον (atto). Un ente che ha questo specifico aspetto, che si mostra in quanto così e così – l’elemento costitutivo per il carattere del “Ci” del vivente è la prestazione, l’ἒργονPotremmo tranquillamente tradurre ἒργον con utilizzo. …la quale prestazione determina il “di che cosa” dell’essere fatto. /…/ Perciò Aristotele conclude: “È detto in modo troppo semplicistico”, proprio come fecero Democrito e gli antichi. Insomma: gli antichi che hanno parlato della natura hanno orientato l’essere esclusivamente sullo σχῆμα (Democrito), e Democrito credeva di avere fornito così la giusta definizione dell’essere. Ma non è così. Che cosa manca? A pag. 260. Qui risponde alla domanda. …ci si deve chiedere, nel modo giusto, quale ne sia il τέλος (fine). A tal fine bisogna considerare la δύναμις (potenza) e l’ἒργον (atto). Quindi è vero che gli antichi non si rivolgevano al vivente nel modo giusto. “Se dunque ciò (ciò che determina propriamente l’aspetto di un vivente, ciò che determina ‘aspetto in modo tale che la mano sia in quanto mano), se ciò, in definitiva, è quanto definiamo anima, allora il φυσικός (se vuole trattare il vivente in quanto ente che “ci” è) deve necessariamente trattare dell’anima. Sì, certo, la ψυχή, ma nel modo in cui la intendeva Aristotele, come ci ha mostrato bene qui Heidegger, e cioè come il vivente che c’è; riprendendo l’esempio che faceva prima, come uno che legge il giornale: ecco che cos’è la ψυχή, un vivente che parla, quindi, che ragiona, ecc. Resta solo da chiedersi se bisogna trattare di tutta l’anima oppure solo di sue determinate parti. A pag. 261. Qui dice una cosa importante. Nell’ιδέα la vita è caratterizzata in quanto δύναμις, cioè dal fatto che essa può qualcosa, e solo da ciò la ὕλη – in quanto codeterminante l’essere – ottiene la determinazione e la caratterizzazione corrispondenti. Il fatto di potere qualcosa. Cosa significa potere qualcosa? Per quanto ci interessa e ci riguarda significa che è utilizzabile, cioè qualcosa può essere utilizzato per qualcosa. Perché una mano di legno non è una mano? Perché non può essere utilizzata come una mano, è la risposta più ovvia. La questione fondamentale in Aristotele è intendere che una qualunque cosa è quella che è – questo è importante – in quanto è utilizzabile. Non soltanto qualunque cosa, ma soprattutto, se teniamo conto della priorità che ha il λόγος in tutto questo, è il λόγος ciò che rende le cose utilizzabili. Dicendole, sono utilizzabili per che cosa? Per altre parole. A pag. 262. Πρός con l’accusativo: “a” qualcosa, “verso” qualcosa. Sta parlando della relazione. Il pensiero altro non è che questo πρός: in base al suo essere, il pensiero esige di essere aperto “a” altro, il suo essere non può essere né compreso né primariamente colto se non si dà l’a che, ciò a cui tale essere, in quanto percepire, avere paura, ecc., tende in se stesso. La determinazione fondamentale dell’ente in quanto vivente si evidenzia qui in quanto πρός ἄλληλα, l’essere “l’uno di fronte all’altro”, l’essere “reciprocamente” aperti. Ecco la coappartenenza, la simultaneità. “Si ha sempre la stessa e medesima indagine in tutti i casi in cui si tratta di determinare il carattere del πρός ἄλληλα”. Il vivente nel suo essere può essere definito solo se l’ente con cui esso è viene compreso nel suo essere. “Vita” è “essere presso”. Solo in base a questo presupposto il ragionamento è convincente. La vita è essere presso, è essere in relazione. Possiamo rileggere la frase. Il vivente… Il vivente è un ente. …nel suo essere può essere definito solo se l’ente con cui esso è… Il vivente è sempre un ente, è sempre presso qualcosa. …viene compreso nel suo essere. Presso che cosa è sempre il vivente? Presso ciò che dice. È questa la cosa presso cui è necessariamente sempre e non può non esserlo: è presso il dire, è presso il λόγος. È il πρός τί, l’essere verso qualche cosa, è sempre verso il dire. Riguardo al suo essere, il vivente è contraddistinto dall’essere-presso. Vedete come insiste su questa cosa, che è poi la relazione. Aristotele ha talmente chiara questa determinazione fondamentale da poter delineare, in base a questo senso dell’essere e a questa definizione basilare, sia l’andatura sia la struttura dei singoli passi di ogni indagine sulla vita. C’è poi una questione, sulla quale meriterebbe di riflettere. A pag. 264. Le possibilità di essere della vita sono da studiarsi in se stesse o nella loro attuazione? Per quelle che sono o per come le vediamo, per come agiscono? Oppure bisogna studiare anzitutto il poter percepire? E ammesso che in effetti si debbano studiare in primo luogo gli ἒργα (utilizzabili), ci si potrebbe chiedere se, prima ancora, non vadano considerati invece gli άντικείμενα (opposti), ciò che, per una determinata possibilità di essere di uno specifico vivente, è di volta in volta presente, correlato – correlato all’ αἴσθησις, per esempio, al percepire in quanto tale. In effetti, bisogna partire dagli άντικείμενα, giacché solo in intima connessione con essi si può cogliere l’ἒργον (utilizzabile). È sempre in intima connessione con il suo contrario. “Va detto anzitutto che cos’è il pensare stesso nella sua attuazione”. “Giacché, prima che alle possibilità, ci si deve rivolgere all’ente che “ci” è realmente, a ciò che è attualmente presente”. Una possibilità la posso cogliere, la posso vedere, solo se me la pongo di fronte, per così dire, nel suo “Ci”, in quanto ἐνέργεια. In quanto azione, in quanto utilizzabile. Io mi pongo di fronte a qualche cosa quando questo qualche cosa è utilizzabile, è qualche cosa per fare qualche cos’altro, per dire qualche cos’altro. “Se le cose stanno così, bisogna considerare, prima ancora, gli άντικείμενα”. Ed è così anche nel caso della possibilità più elementare dell’essere di un vivente, la “crescita”, cui Aristotele accosta la γένεσις, la “generazione”. /…/ …“vita” significa “essere nel mondo”, e di volta in volta secondo una determinata possibilità… Questa possibilità di essere nel mondo è il πάθος. Di volta in volta io sono, sì, nel mondo, ma lo sono in un modo particolare. Vedete, quindi, come la natura presso i greci è tutt’altro dalla natura così come è stata divulgata dopo, come ciò che non mente. Ma la natura presso i greci è qualunque cosa, compresa la sua negazione, anzi, il suo opposto è sempre da tenere presente.