M. Heidegger, Essere e Tempo
31 maggio 2017
La volta scorsa abbiamo fatto un accenno alla questione delle macchine che pensano o non pensano. Vi avevo accennato al fatto che Sini sostiene che le macchine non possono pensare. Le motivazioni per cui afferma una cosa del genere sono abbastanza fragili, come dire che l’uomo, pensando, tiene conto di tutto ciò che lo ha preceduto, cioè, del modo in cui il pensiero si è formato nei millenni. Naturalmente, una cosa del genere può essere immessa in una macchina, anche perché chi la programma dopo tutto lui stesso ha un pensiero che si è formato nei millenni. Ma non è tanto questa la questione, cioè sapere se è così oppure no, se le macchine possono pensare oppure no, che è una questione abbastanza risibile, ma, invece, il fatto che questa affermazione di Sini pone il pensare come un qualche cosa di cui sembra sapere di che cosa esattamente si tratti. Solo a questa condizione, in effetti, può dire che una macchina non può pensare, solo se sa che cos’è il pensiero, ovviamente. Quindi, la cosa interessante è che probabilmente non si accorge che, così facendo, attribuisce al pensiero ciò che lui vuole che il pensiero sia, come se il pensiero fosse un oggetto metafisico, un’entità che è quella che è e non altro. È interessante perché, oltre a indicare un modo di pensare molto comune, dice anche di come sia difficile in moltissimi casi non accorgersi, elaborando, articolando qualcosa, di stabilire un qualche cosa che è necessariamente così. Per potere affermare che la macchina non può pensare io devo sapere che cos’è il pensiero.
Intervento: è come se dicesse che la macchina non può pensare perché non ha un’anima…
Sì e no. Sini pone il pensiero in modo abbastanza simile a come lo pone Heidegger, come il pensiero storicamente determinato, e quindi questa storicità del pensiero, secondo lui, non può essere trasmessa a una macchina, come se questa storicità del pensiero fosse un qualche cosa che, sì, in qualche modo può richiamare l‘anima, ma che sarebbe assolutamente particolare e specifico dell’uomo, quindi, non riproducibile, mentre lui stesso avrebbe dovuto accorgersi che ogni volta che nasce una nuova macchina umana questa viene addestrata a pensare esattamente così. E, quindi, perché non una macchina che, invece di essere fatta di carne e di ossa, è fatta di metallo, di plastica e di cartone? Adesso i computer sono ancora all’inizio, sono i primi balbettii, ma possiamo immaginare come potranno essere tra due o trecento anni. Questo per dirvi quanto sia facile non accorgersi, mentre si sta discutendo su qualche cosa, di complicazioni che possono sorgere rispetto alle proprie affermazioni. In effetti, questa obiezione è banalissima, anche un bambino che incomincia a parlare è una macchina che incomincia a pensare nel modo in cui pensano tutti, e quindi perché no una macchina? Che cosa ha di diverso? Ho detto questo perché in qualche modo si allaccia indirettamente con ciò che diremo qui.
Siamo a pag. 186. Nel progetto della comprensione l’ente è aperto nella sua possibilità. La comprensione, che per Heidegger è l’apertura originaria, l’apertura che consente l’interpretazione, quindi, il capire, che consente di afferrare un concetto. Questa apertura non è altro che l’apertura in cui ciascuno si trova quando “nasce” al linguaggio, quando si trova nel linguaggio. Come dicevamo prima, un bambino, che è potenzialmente una macchina, si trova ad avere a che fare con il linguaggio, cioè con tutte le persone intorno a lui che parlano ininterrottamente e che parlavano già prima che lui nascesse. È come se facesse l’ingresso in una sorta di mondo, che è già esistente e che gli consente, proprio perché è già aperto da sempre, il comprendere, cioè, come dice Heidegger, l’apertura nella sua possibilità. Uno si trova ad avere delle possibilità perché è preso nel linguaggio, perché è già nel linguaggio, se non ci fosse il linguaggio non ci sarebbe nessuna possibilità di niente. L’ente intramondano è progettato nel mondo, cioè in quella totalità di significatività ai cui rapporti di rimando il prendersi cura, in quanto essere-nel-mondo, si è già anticipatamente legato. (pagg. 186-187) È esattamente ciò che vi dicevo prima, cioè, l’ente intramondano, quello con cui ciascuno ha a che fare, è già progettato nel mondo, un qualunque ente si affacci è già progettato nel mondo, non è che prima non c’era e adesso c’è venendo dal nulla, può apparire perché esiste un progetto, un modo di essere nel mondo, attraverso la significatività dei rapporti, ed è soltanto perché questo sussiste che è possibile all’ente di apparire. Quando con l’essere dell’Esserci l’ente intramondano è scoperto, cioè compreso, diciamo che ha un senso. Ciò vale a dire che soltanto a condizione che ci sia questa comprensione, cioè che ci sia questa apertura, le cose possono avere un senso. A rigor di termini, però, ciò che è compreso non è il senso, ma l’ente o l’essere. Senso è ciò in cui si mantiene la comprensibilità di qualcosa. Chiamiamo senso ciò che è articolabile dell’aprire comprendente. Il concetto di senso abbraccia la struttura formale di ciò che appartiene necessariamente al contenuto articolabile dell’interpretazione comprendente. Il senso è il rispetto-a-che del progetto in base a cui qualcosa diviene comprensibile in quanto qualcosa; tale rispetto-a-che è strutturato secondo la pre-disponibilità, la pre-visione e la pre-cognizione. Ci sta dicendo che il senso delle cose che si incontrano, e che è la condizione per capire, per parlarsi, per muoversi tra gli enti, viene dalla comprensione, e ciò in cui si mantiene la comprensibilità di qualcosa. Probabilmente, anche se lui non lo dice, la funzione del senso potrebbe essere proprio questo, di mantenere la comprensibilità di qualcosa. Quando diciamo che qualcosa ha un senso è come se lo fissassimo, fissandola manteniamo la sua comprensibilità. Il senso fissa qualche cosa, deve fissarlo, è il modo in cui la comprensione fissa qualche cosa, la fissa attraverso un senso; questo senso mantiene ferma quella cosa in modo che la sua (della cosa) comprensibilità possa perdurare nel tempo, sennò svanirebbe all’istante. In altri termini, occorre che qualche cosa si mantenga perché io possa utilizzarlo. Solo l’Esserci “ha” senso, e ciò perché l’apertura dell’essere-nel-mondo è “riempibile” attraverso l’ente in essa scoperto. Solo l’Esserci, quindi, può essere fornito di senso o sfornito di senso. Ciò significa che l’essere dell’Esserci e l’ente aperto con esso possono o essere afferrati nella comprensione o sfuggire nell’incomprensione. La questione del senso, ancora una volta, si mostra come il modo in cui la comprensione, l’apertura, quindi, il linguaggio, può fermare qualche cosa in modo da poterlo utilizzare. Il senso ha questa funzione di rendere qualche cosa come utilizzabile, nel senso che, per essere utilizzabile, deve permanere, deve continuare a essere quella cosa lì, se cambia ogni tre secondi diventa difficile utilizzarla. Se si tiene ferma questa interpretazione fondamentalmente ontologico-esistenziale del concetto di “senso”, qualsiasi ente il cui essere sia difforme dall’Esserci dev’essere concepito come senza senso (unsinnig), come essenzialmente e integralmente estraneo al senso. Sta dicendo che fuori dall’Esserci, fuori dall’uomo, non c’è alcun senso. A pag. 188. Anche la comprensione, in quanto apertura del Ci, riguarda sempre l’essere-nel-mondo nella sua totalità. La comprensione, questa apertura, non è riferita a qualcosa di specifico ma è la comprensione del mondo. La comprensione del mondo, cioè, l’accogliere ciò che appare nel mio mondo: questa sala, il posacenere, l’orologio, Teresa che fuma. Se Teresa cessasse di fumare ecco che il mondo si modificherebbe, sarebbe il mondo con Teresa ma con Teresa che non fuma più. Ma se l’interpretazione deve muoversi sempre nel compreso… Questo lo abbiamo visto, l’interpretazione non può muoversi fuori della comprensione, quindi, da ciò che è compreso, sarebbe l’interpretazione di una semplice presenza di qualche cosa che è fuori del mondo e, stando fuori del mondo, non partecipa più del progetto in cui e per cui esiste e sussiste. …come potrà condurre a risultati scientifici senza avvolgersi in un circolo, tanto più che la comprensione presupposta è costituita dalla comune conoscenza degli uomini e del mondo? Le regole più elementari della logica ci insegnano che il circolo è circulus vitiosus. Ne deriva la rimozione a priori dell’interpretazione storiografica dal dominio del conoscere rigoroso. Poiché il costituirsi del circolo nel comprendere è un fatto che non può essere eliminato, la storiografia deve accontentarsi di procedimenti conoscitivi meno rigorosi. Si crede di poter in qualche modo ovviare a questa mancanza di rigore facendo appello al “significato spirituale” dei suoi “oggetti”. Anche secondo l’opinione dello storiografo, l’ideale sarebbe, certo, che il circolo potesse essere evitato e trovasse fondamento la speranza di poter un giorno costruire una storiografia indipendente dalla posizione dell’osservatore, come si presume lo sia la conoscenza della natura. Qualunque tipo di conoscenza, che si voglia porre come conoscenza scientifica, obiettiva, quindi una conoscenza di ciò che semplicemente appare, non evita il circolo vizioso; quindi, la scienza stessa è costruita su un circolo vizioso, e cioè sul fatto che, per stabilire che questa cosa è quella che è, occorre che ci sia io che dica, che affermi che questa cosa è quella che è. Fatto questo, da quel momento in poi la cosa mi apparirà come se questa cosa fosse ciò che è per virtù propria. Ma anche in questo caso, questa cosa, con cui mi relaziono e che da questo momento in cui ho deciso che esiste, decidendone anche il modo in cui esiste, fa parte del mio mondo e, dunque, mi modifica. Ecco, il circolo vizioso. Ma se si vede in questo circolo un circolo vizioso e se si mira ad evitarlo o semplicemente lo si “sente” come un’irrimediabile imperfezione, si fraintende la comprensione da capo a fondo. Se si vede in questo circolo un circolo vizioso da evitare allora non si è inteso nulla della comprensione, che è la condizione perché qualche cosa possa apparire e che quindi possa darsi anche il circolo vizioso. Infatti, dice, Non si tratta di modellare comprensione e interpretazione su un particolare ideale conoscitivo, che a sua volta è soltanto una forma derivata di conoscere… La soddisfazione delle condizioni fondamentali della possibilità dell’interpretare richiede piuttosto che non si disconosca in partenza l’interpretare stesso quanto alle condizioni essenziali della sua attuazione. (pagg. 188-189) Cioè, che esista una comprensione che rende possibile l’interpretazione. Perché io possa interpretare qualche cosa occorre che questo qualche cosa esista, sennò cosa interpreto? E perché esista questa cosa occorre che, la dico in modo un po' rozzo, sia comparsa nel mio mondo, che sia nel mondo che io abito, che io sono. Solo a questa condizione si avvia il processo di interpretazione. È esattamente quello che diceva prima a proposito del circolo vizioso, cioè, io faccio esistere qualche cosa, nel senso che questa cosa appare nel mondo in cui sono circoscritto, apparendo questa cosa esiste e, quindi, posso interpretarla. L’importante non sta nell’uscir fuori dal circolo, ma nello starvi dentro nella maniera giusta. Il circolo della comprensione non è un semplice cerchio in cui si muova qualsiasi forma di conoscere, ma l’espressione della pre-struttura esistenziale propria dell’Esserci stesso. Il circolo non deve essere degradato a circolo vizioso e neppure ritenuto un inconveniente ineliminabile. In esso si nasconde una possibilità positiva del conoscere più originario, che è afferrata in modo genuino solo se l’interpretazione ha compreso che il suo compito primo, durevole e ultimo, è quello di non lasciarsi mai imporre pre-disponibilità, pre-veggenza e pre-cognizione dal caso o dalle opinioni comuni, ma di farle emergere dalle cose stesse, garantendosi così la ascientificità del proprio tema. Questo circolo vizioso, come diceva prima, apparentemente sembra un intoppo nel conoscere, cioè, io posso conoscere qualcosa soltanto se ci sono io che faccio esistere questa cosa, ma, dice Heidegger, questa potremmo chiamarla una virtù del conoscere perché è sapendo questo che io posso avere accesso in modo autentico alle cose, nel momento in cui non sono travolto, sviato, dall’idea che questa cosa esista di per sé. In questa cosa ci sono io e soltanto se tengo conto di questo posso approcciarmi alle cose in modo autentico, cioè, in modo non ingenuo, non “metafisico”. Il “circolo” del comprendere appartiene alla struttura del senso, e tale fenomeno è radicato nella costituzione esistenziale dell’Esserci, nella comprensione interpretante. Ci sta dicendo che non c’è modo di uscire da questo circolo vizioso, cioè non c’è modo di uscire dalla comprensione, che è quell’apertura che consente l’interpretazione, che consente quindi di approcciarsi a ciò che esiste nel mondo. L’ente per cui, in quanto essere-nel-mondo, ne va del suo essere stesso, ha una struttura circolare di carattere ontologico. Ma considerando che il “circolo” è un’immagine che ontologicamente appartiene al modo d’essere della semplice-presenza (sussistenza), bisogna guardarsi in generale dal caratterizzare ontologicamente con questo fenomeno un ente come l’Esserci. Sta dicendo che c’è una differenza tra questo ente, l’Esserci, e ciò che sussiste, cioè la semplice presenza. È la conoscenza di ciò che si immagina essere la semplice presenza che dà luogo a questo circolo vizioso che, come abbiamo visto, anche la condizione per intendere qualche cosa. Però, dice, questo non si applica all’Esserci. Il perché lo si può facilmente intuire a questo punto, perché l’Esserci è ciò che compie tutte queste operazioni, è ciò che mette in moto, nel suo essere progettato pone in essere tutte queste operazioni. Andiamo al paragrafo 33 L’asserzione come modo derivato dell’interpretazione, cioè, uno interpreta e poi afferma qualcosa. Ogni interpretazione si fonda nella comprensione. Il senso è ciò che nell’interpretazione viene articolato come tale e che già nella comprensione si delinea come articolabile. Poiché l’asserzione (il “giudizio”) è fondata nella comprensione e costituisce una forma derivata di attuazione dell’interpretazione, anch’essa “ha” un senso. Ma non si può definire il senso come ciò che nasce “in” un giudizio in seguito al suo pronunciamento. (pagg. 189-190) Passiamo al punto1. Asserzione significa, in primo luogo, manifestazione. Teniamo così fermo il senso originario di λόγος come άπόφανσις: far sì che l’ente si mostri da se stesso. La fenomenologia è questo: approcciare le cose così come esse appaiono nel loro manifestarsi, nel loro uscire dall’oscurità e venire in luce. Nell’asserzione “il martello è troppo pesante”, ciò che è scoperto per la visione non è un “senso” ma un ente nel modo della sua utilizzabilità. Anche se questo ente non è così vicino da poter essere afferrato o “visto”, la manifestazione si riferisce all’ente stesso e non a una semplice rappresentazione di esso; dunque né a un “semplice rappresentato” né a uno stato psichico dell’enunciante, cioè al suo rappresentarsi l’ente. In questa prima definizione di asserzione come manifestazione, l’ente è un ente nel modo della sua utilizzabilità, cioè, le cose si manifestano perché sono utilizzabili. Questa manifestazione si riferisce all’ente stesso, all’utilizzabile, non a qualche altra cosa. 2) Asserzione significa anche predicazione. Di un “soggetto” è “asserito” un “predicato”, quello è determinato per mezzo di questo. In tale significato di asserzione, l’asserito non è il predicato, ma il “martello stesso”. L’asserente, cioè il determinante, consiste invece nel “troppo pesante”. L’asserito, in questo secondo significato di asserzione, cioè il determinato come tale, ha subìto, rispetto all’asserito nel primo significato del termine, una restrizione di contenuto. (pagg. 190-191) In questo esempio “il martello è troppo pesante” il determinante, dice, è il “troppo pesante”, è questo che determina il martello, che lo definisce. Ma dicendo questo è una restrizione di contenuto, cioè è qualcosa che si riferisce specificatamente al martello, è una proprietà del martello: si predica del martello di essere pesante. 3) Asserzione significa comunicazione, espressione. In quanto tale, essa è in rapporto diretto con l‘asserzione nel primo e nel secondo significato. Quindi, come manifestazione e come predicazione di qualche cosa. Essa è un far-sì-che-si-veda-assieme ciò che si è manifestato nel modo del determinare. Vale a dire, fa sì che ciò che si manifesta si manifesti in un certo modo. Che cosa si manifesta? Si manifesta il martello nella frase “il martello è troppo pesante”. In questo modo si è soltanto mostrato qualche cosa, cioè il martello ha mostrato sé. Poi, interviene questa restrizione, “è troppo pesante”, questa determinazione aggiunge qualche cosa. Difatti, poco prima diceva …la “posizione del soggetto” restringe la vista dell’ente a “questo martello qui”, in modo che, attuando tale restrizione, il rivelato si renda visibile nella sua determinatezza determinabile. Posizione del soggetto, posizione del predicato e porre come tale sono recisamente “apofantici” nel significato rigoroso della parola. Apofantico significa che può essere ver o falso. Torniamo all’asserzione come comunicazione. Il far-sì-che-si-veda-assieme compartecipa all’altro l’ente manifestato nella sua determinatezza. Ciò che sta cercando qui di fare Heidegger è di mostrare come accade che qualcosa si manifesti a noi. Sta considerando i modi in cui un qualche cosa si manifesta e l’asserzione non è il dire qualcosa di qualcos’altro, anche ma dopo, ma è essenzialmente il consentire a qualche cosa di manifestarsi. È l’asserzione che manifesta. Infatti, dice Ciò che è “partecipato” è il comune e vedente essere-per il manifestato, essere che deve essere tenuto ben fermo nel carattere di essere-nel-mondo e precisamente in quel mondo nel quale si incontra il manifestato. Ciò che è partecipato in questa operazione, il comune, è ciò che deve essere tenuto, ed è questo che fa l’asserzione che tiene ben fermo il suo carattere di essere nel mondo e precisamente, dice, in quel mondo nel quale si incontra il manifestato. Vale a dire, tiene fermo il mondo in cui si manifesta quell’asserzione che dice che “il martello è troppo pesante” e che è inserita in un mondo, l’asserzione tiene ferma, mostra questa cosa all’interno del suo mondo, così com’è. Questa è la comunicazione. Infatti, se ricordate, quando parlava dell’arte, la famosa scarpa del contadino di Van Gogh, anche lì quella scarpa cosa manifestava? Si manifestava in quanto tale nel suo mondo, cioè il mondo in cui quella scarpa da contadina è la scarpa di una contadina, con tutto ciò che questo comporta. Sta dicendo qui esattamente la stessa cosa. Quando parla dell’asserzione come comunicazione, l’asserzione comunica, cioè mostra in quale mondo questa asserzione è un’asserzione. Infatti, dice che L’asserito può essere “ri-ferito”. Il che comunque non aggiunge nulla a quanto sapevamo. A pag. 192, ultimo capoverso. Se, con un unico colpo d’occhio sull’intero fenomeno, riuniamo i tre significati di “asserzione” che abbiamo esaminato, ne risulta questa definizione: l’asserzione è una manifestazione che determina e comunica. Determina, cioè fissa qualche cosa e, fissandolo, lo comunica, nel senso che rende visibile il mondo in cui questa asserzione si produce, in cui questa asserzione ha effetti. Ma prima deve determinare, deve fissare. A pag. 194. L’ente mantenuto nella sua pre-disponibilità, ad esempio il martello, è innanzi tutto utilizzabile come mezzo. Se questo ente diviene “oggetto” di un’asserzione, fin da principio si attua con la proposizione asseverativa un mutamento nella pre-disponibilità. Il martello, se noi lo manteniamo nella pre-disponibilità, cioè è disponibile a essere utilizzato, è innanzitutto utilizzabile come mezzo, serve per qualcosa. Se, però, dice, questo ente diviene oggetto di un’asserzione fin da principio si attua con la proposizione asseverativa un mutamento nella pre-disponibilità, cioè cambia il suo utilizzo. È come togliere il martello da quel mondo e metterlo in un altro, cambia il suo utilizzo, diventa un’altra cosa. L’utilizzabile che costituiva il con-che dell’aver a che fare, del manipolare, diviene l’“intorno-a-che” dell’asserzione manifestante. C’è un cambiamento totale, dice Heidegger, dal con-che dell’aver a che fare con il martello all’intorno a che. Un conto è utilizzare il martello, altro è il parlare del martello. La questione centrale è che questo martello non è nemmeno lui una semplice presenza, è questo che sta dicendo. A seconda del fatto che io lo utilizzi, che sia un utilizzabile, è all’interno di un certo mondo ed è una certa cosa; se io parlo del martello allora questa cosa diventa un’altra cosa. Come dire che non c’è il martello come semplice presenza, un riferimento obiettivo a un quid, come vuole la scienza, per esempio. Sta dicendo che, se noi riferiamo tutto questo al discorso scientifico, una qualunque cosa, se la consideriamo in un certo modo è una certa cosa, se la consideriamo in un altro è un’altra cosa, mentre la scienza pretende di considerarla sempre allo stesso modo e quello stesso modo è quello per cui quella cosa necessariamente è, cioè, la mette fuori del mondo. La pre-visione tende a scorgere nell’utilizzabile una semplice-presenza. È la posizione scientifica. Mediante questo modo di vedere e per esso, l’utilizzabile è velato come utilizzabile. È velato come utilizzabile nel senso che è sì utilizzabile, però per il discorso scientifico il martello, certo, lo si può usare ma il martello è quello che è, la sua utilizzabilità è velata, è messa in secondo piano. Nel corso di questo processo che scopre la semplice-presenza coprendo l’utilizzabilità, la semplice-presenza è incontrata e determinata nel suo esser semplicemente presente in questo e in quel modo. Si apre solo ora l’accesso a qualcosa come le proprietà. Ciò che in quanto tale determina la semplice-presenza nell’asserzione è desunto dalla semplice-presenza stessa in quanto tale. La struttura dell’“in quanto” propria dell’interpretazione ha subìto così una modificazione. Se io continuo a pensare alla cosa come una semplice-presenza, indipendentemente da qualunque cosa, dice, a questo punto la struttura dell’“in quanto”, cioè questa cosa in quanto martello, ha subìto una modificazione. E poi dice L’“in quanto”, nella sua funzione di appropriazione del compreso, non arriva più a cogliere una totalità di appagatività. Una totalità di usi possibili. Esso è tagliato fuori dalle sue possibilità di articolazione dei rapporti di rimando propri della significatività costitutiva del mondo ambiente. In questo modo, dice, è come se noi tagliassimo fuori da tutte le relazioni questa cosa, che non solo ha, ma, per dirla più propriamente, è. L’“in quanto” è confinato nell’uniformità piatta di ciò che è solo semplice-presenza; si degrada così a struttura del mero lasciar vedere che determina la semplice-presenza. Questo livellamento dell’“in quanto” originario dell’interpretazione ambientalmente preveggente a “in quanto” della determinazione della semplice-presenza è il tratto caratteristico dell’asserzione. Solo così essa può dar luogo a un manifestare puramente contemplativo. (pagg. 194-195) Qui sta dicendo una cosa interessante. Questo livellamento dell’“in quanto” originario dell’interpretazione ambientalmente preveggente, cioè, del progetto, questo viene appiattito a un “in quanto” della determinazione della semplice-presenza, e lui dice che questo è il tratto caratteristico dell’asserzione. Ogni volta che si asserisce qualcosa, lo diceva prima, questo qualche cosa viene determinato in un certo modo, fissato in un certo modo, ed è come se, aggiungo io, a questo punto, una volta determinato, la sua esistenza non deriva più dalle relazioni che lo fanno esistere e per cui esiste ma esiste di per sé. L’asserzione non può dunque negare la sua derivazione dall’interpretazione comprendente. L’“in quanto” originario proprio dell’interpretazione ambientalmente comprendente (έρμηνεία)lo chiamiamo “in quanto” ermeneutico-esistenziale, per distinguerlo dall’“in quanto” apofantico proprio dell’asserzione. Cosa sta dicendo qui? Si è trovato a dovere distinguere l’“in quanto” del progetto dall’“in quanto” della semplice-presenza. Questo è il martello perché questo è il martello perché inserito nel progetto, e questa è l’interpretazione ambientalmente preveggente, mentre la determinazione della semplice-presenza che questo è un martello perché è un martello. Lui dice L’“in quanto” originario proprio dell’interpretazione ambientalmente comprendente lo chiamiamo “in quanto” ermeneutico-esistenziale. Cosa significa ermeneutico-esistenziale? Che mantiene aperta una possibilità. Έρμηνεία è l’interpretazione. Da quanto si intende qui in Heidegger, mentre l’apofantico stabilisce, stiamo parlando sempre dell’asserzione, mentre l’asserzione stabilisce se qualche cosa è quello che è oppure no, se è vero o falso (un enunciato apofantico è un enunciato che può essere vero o falso, cioè corrisponde a qualcosa oppure no). Se, invece, anziché come apofantico, lo poniamo come ermeneutico-esistenziale lo poniamo come un qualche cosa che è quello che è per via dell’interpretazione (sempre riferito all’“in quanto”, in quanto martello). È un po' tirata per i capelli, anche perché si potrebbe ribattere che anche un’interpretazione può essere vera o falsa. Per la riflessione filosofica il λόγος stesso è un ente che, per influenza dell’ontologia antica, è inteso come semplice-presenza. Il λόγος può essere inteso come qualcosa di semplicemente presente, per esempio la fonologia, la fonetica lo considerano in questo modo, i vari suoni che si emettono, ecc. Anche le parole sono assunte innanzi tutto come semplici-presenze, alla stessa stregua delle cose. Nella psicoanalisi tradizionale, quella freudiana, è la struttura del discorso psicotico: parole come cose. Lo stesso dicasi della successione di parole il in cui il λόγος si esprime. La prima ricerca della struttura del λόγος, considerato come semplice presenza, scopre una semplice compresenza di più parole. Che cos’è ciò che fonda l’unità di questo insieme? Essa consiste, come Platone riconobbe, nel fatto che il λόγος è sempre λόγος τινός. λόγος τινός: dire di qualcosa. Mirando all’ente rivelato nel λόγος, le parole si connettono in un complesso di parole. Aristotele andò più a fondo. Per lui ogni λόγος è σύνϑεσις e διαίρεσις a un tempo. σύνϑεσις e διαίρεσις, potremmo dire, condensazione e spostamento, lo avrebbero detto ma molti secoli dopo. Ogni asserzione, sia essa affermativa o negativa, vera o falsa, è cooriginariamente σύνϑεσις e διαίρεσις. Il mostrare è congiunzione e divisione. Due capoversi dopo. Unire e separare si lasciano allora formalizzare ulteriormente in una “relazione”. Nella logistica … nella logica. … il giudizio è risolto in un sistema di “correlazioni”; diviene oggetto di “calcoli”, anziché esser tema di interpretazione ontologica. La possibilità e l’impossibilità della comprensione analitica di σύνϑεσις e διαίρεσις e della “relazione” nel giudizio in generale sono strettamente connesse al rispettivo livello raggiunto dalla problematica ontologica fondamentale. Sta dicendo che non serve a niente la logica con i suoi calcoli se non s’intende come questa separazione e congiunzione come una problematica ontologica fondamentale, cioè un problema che riguarda l’essere delle cose, che riguarda, in definitiva, l’Esserci, il progetto. È in questo progetto che qualche cosa si allontana e si avvicina, si tiene vicino. Si tiene vicino, che cosa? Lo diceva nelle pagine precedenti. Si tiene vicino ciò che appare, ciò che si dis-allontana, diceva lui. In questo dis-allontanamento c’è la congiunzione, ma questa congiunzione procede sempre da una divisione, perché prima che lo dis-allontani, è lontano.