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31 marzo 2021

 

I concetti fondamentali della filosofia antica di M. Heidegger

 

Siamo a pag. 72. Se però la filosofia è la scienza in assoluto più originaria e autentica, il suo studio deve dipendere interamente dalla libera scelta, che non può essere in nessun caso determinata da punti di vista come la professione o la formazione professionale. Scegliere e praticare lo studio della filosofia significa scegliere fra un’esistenza compiutamente scientifica e un addestramento professionale cieco e artigianale. Scegliere lo studio della filosofia, cioè l’approfondimento della sua problematica, non significa accogliere una disciplina in più rispetto alle altre, a loro integrazione e perfezionamento, e seguire un corso universitario cosiddetto generale, bensì, al contrario, significa decidersi per la trasparenza del proprio esistere e operare scientifico nell’università, contro la cieca preparazione di esami e la dedizione superficiale e generica alle faccende dello spirito. Gli anni di università trascorsi così non si distinguono in nulla dagli anni di apprendistato di un manovale, o se ne distinguono al massimo per una maggiore quantità di quell’arbitrio che si è soliti chiamare libertà accademica. Ma la libertà non è “l’indifferenza dell’arbitrio”, bensì il lasciar-agire-in-sé le possibilità autentiche dell’esser-ci (Da-sein) umano, in questo caso, dunque, il lasciar-agire-in-sé il poter-domandare genuinamente scientifico, che non si placa nel sapere e nel conoscere casuali. Questa è l’opinione di Heidegger circa lo studio della filosofia, che ho voluto leggere per darvi un’idea. A pag. 75, Paragrafo 4. Qui parla del lavoro della filosofia, di una filosofia critica. Il termine “critico” deriva da κρίνειν, “scindere”, “differenziare”: nel differenziare qualcosa da qualcos’altro si rendono visibili entrambi, il differente e la sua differenza. Si possono differenziare, per esempio, il triangolo dal quadrato, il mammifero dall’uccello, l’epos dal dramma, il sostantivo dal verbo, un ente da un altro ente: ogni scienza differenzia costantemente in questo modo, determinando nel contempo il differente. Come dire che è la relazione che in realtà interviene. Se un termine non è in relazione con un altro, questo termine non è nemmeno un termine, non è niente. Se dunque la filosofia è scienza critica, al punto che la “criticità” ne costituisce il carattere distintivo, allora il suo è un differenziare affatto peculiare. Ma che cosa può venire differenziato dall’ente, se non l’ente? Che cosa possiamo dire ancora dell’ente? Esso è, solo l’ente è. Esso, è, ha essere. Dall’ente e nell’ente si può differenziare l’essere. Tale differenza non riguarda ente ed ente, bensì ente ed essere. Con il termine “essere” non ci raffiguriamo nulla. Con “ente” senz’altro; ma con “essere”? In effetti, il senso comune e l’esperienza comune comprendono e cercano solo l’ente. Ma vedere in esso l’essere, comprenderlo e differenziarlo dall’ente, questo è appunto il compito della scienza che differenzia, la filosofia. Essa ha per tema l’essere, e mai l’ente. Le scienze positive sono scienze dell’ente. Esse indagano ciò che sta dinanzi per l’esperienza e la conoscenza naturali. La scienza critica è scienza dell’essere. Qui si incomincia a vedere bene la questione: cogliere, cercare l’essere nell’ente. Cercare e cogliere l’essere nell’ente è cogliere l’ente non astrattamente ma concretamente, cioè, cogliere l’ente in quanto è preso nel concreto, in quella rete di connessioni, di rinvii e di rimandi senza i quali l’ente non esiste. A pag. 77. Ciò che essa “critica” in un senso superiore, cioè determina criticamente, è l’essere dell’ente, che le scienze positive invece presuppongono. Questa è in due parole la sintesi della differenza tra la filosofia e le scienze positive: le scienze positive devono sempre pre-supporre qualche cosa, l’ente in generale. La filosofia invece non presuppone l’ente, anzi, cerca le condizioni dell’ente, e queste le trova nell’essere, in ciò che propriamente l’ente è. A pag. 79. L’essere ci è precluso, “con il termine “essere” non ci raffiguriamo nulla”, è anzitutto e per lo più inaccessibile. Cercare, scoprire l’essere: ecco il compito della scienza critica. L’essere non appare, non compare, è qualche cosa che va cercato, è qualche cosa che va colto. Dove? Nell’ente, certamente, anche perché senza ente non c’è neppure l’essere, e viceversa, ma coglierlo nell’ente significa intendere ciò che costituisce la condizione perché l’ente possa essere un ente. Questa è la questione: l’ente è soltanto un’astrazione, certo indispensabile, ma questa astrazione comporta un’astrazione da un concreto; questo concreto, questo tutto, il linguaggio, è ciò per cui e attraverso cui l’ente esiste. A pag. 80. Paragrafo 5. Scopo e metodo del corso. Far vedere la differenza è l’inizio della filosofia (differenza della formazione dei concetti, del domandare e del cercare; non la conoscenza estensiva di argomenti e di materiali, bensì l’intensità del concettuale; certezza della differenza;… Certezza della differenza, dice. In effetti, la differenza è l’unica cosa di cui possiamo essere certi, perché se non ci fosse la differenza non ci sarebbe linguaggio; quindi, se c’è linguaggio allora c’è differenza. /…/ niente che sia lasciato all’arbitrio e al caso) lungo la via che ci mette in condizione di partecipare al primo inizio decisivo della filosofia scientifica, e per così dire di ripeterlo. Questo è il suo programma, il suo intento: ripercorre e ripetere quelle da cui ha avuto inizio il pensiero. Ripetiamo il percorso della scoperta dell’essere a partire dall’ente. Si tratta del compito più radicale e difficile assegnato alla conoscenza umana, un compito che è ancora ben lontano dall’essere chiarito e forse mai come oggi rimane incompreso. Questo ci permette di valutare quanto siano esigui i passi in avanti che la filosofia scientifica ha compiuto ai suoi albori. Il primo è stato fatto dai Greci, e da allora c’è stato soltanto un rincorrere che da lungo tempo ha occultato e deturpato le intenzioni originarie. Dobbiamo imparare a comprendere concretamente questa filosofia, chiedendoci come si sia domandato dell’essere, come esso sia stato concepito, cioè quali concetti dell’essere e delle sue determinatezze siano stati plasmati. Com’è sorta la domanda intorno all’essere? È questa la questione che Heidegger in fondo va cercando nella filosofia antica: da dove è arrivata la domanda intorno all’essere? Perché volere sapere dell’essere, a che scopo? Qui si apre la questione da cui siamo partiti, e cioè da questa posizione per cui la volontà di potenza si pone come il principio di ragione, cioè, come la risposta a tutte le domande relative a un qualunque perché. A pag. 81. Prestiamo attenzione a quattro punti: 1) ciò che va posto in luce è la totalità della problematica della filosofia antica: un numero ridotto di problemi centrali rimasti ancora oggi insoluti. 2) vanno enucleati i tratti fondamentali dello sviluppo, non l‘avvicendarsi dei filosofi e delle scuole, bensì lo scaturire l’uno dall’altro dei problemi: in quale direzione si è domandato? Con quali mezzi concettuali si è risposto? L’arenarsi delle tendenze problematiche; i motivi della stasi; le cause del fallimento. 3) la comprensione va resa più efficace facendo riferimento a determinati concetti fondamentali concreti; essere – verità; principio – causa; possibilità – necessità; relazione, unità, molteplicità, natura, vita, conoscenza; asserzione – dimostrazione. 4) In base a questa considerazione, vanno aperte prospettive sulla problematica attuale, indicando inoltre le ripercussioni sul Medioevo e sull’età moderna. Va mostrata la necessità di porre la questione in termini più radicali di quanto abbiano fatto i Greci, il che è possibile però solo se prima abbiamo compreso la filosofia greca interamente in base a se stessa, senza proiettarvi problemi moderni. Ovviamente, affinché si possa comprenderla interamente in base a essa stessa, tale filosofia dev’essere già compresa, gli orizzonti dei suoi problemi debbono essere elaborati e le sue intenzioni seguite fino in fondo, altrimenti il discorso filosofico rimane muto. Nel complesso, lo scopo principale è il seguente: 1) comprensione effettiva, non aneddoti; 2) contatto diretto con le fonti, non letteratura secondaria o opinioni in merito. Di questo abbiamo accennato in varie occasioni, di quanto sia fondamentale leggere i testi originali senza soffermarsi un granché sulle varie opinioni che altri si sono fatti dei primi. Per quanto riguarda la filosofia antica, è chiaro che la questione è un pochino più complicata perché, per es., di Eraclito abbiamo soltanto pochi frammenti, di Empedocle meno ancora. Quindi, se dovessimo attenerci unicamente a ciò che ci è rimasto dell’autore, sempre che siano dell’autore, non sarebbe sufficiente a formulare nessuna questione, nessun concetto, e pertanto dobbiamo avvalerci delle testimonianze di altri poco successivi: per es., per quanto riguarda i presocratici, delle testimonianze di Platone, di Teofrasto, di Aristotele, di Simplicio, ecc., quindi, discorsi che altri hanno fatto sui presocratici. Il problema, in questo caso nostro, è che non possiamo fare altrimenti, non abbiamo scelta e, quindi, faremo così. A pag. 94. Concetto di σοφία: περί τίνας άρχας καί αίτίας πιστήμη. Σοφια: πιστήμη in generale έπιστάτης: che “sta presso e sopra”, chi può “sovra-stare” a una cosa, la comprende. Qui è interessante perché pone già in qualche modo la questione della volontà di potenza, cioè, “sovrastare” la cosa, stargli sopra, dominarla. È come se dicesse che comprendere è dominare. Cosa che ci porta sempre più vicino alla posizione da cui siamo partiti, e cioè che la volontà di potenza costituisca il principio di ragione, cioè, la riposta ad ogni perché. A pag. 95. Αληθεύειν: “strappare alla velatezza”, “rendere non-velato”, dis-coprire” ciò che copre. Il vivente: l’esserci umano è un ente particolare che scopre l’altro ente e se stesso non solo in un momento successivo, bensì φύσει. Con il suo essere sono già scoperti per lui il mondo e lui stesso, sia pure in modo indeterminato, vago, incerto. Il mondo: il più angusto, il proprio essere. Heidegger sta dicendo che il Dasein, il parlante in definitiva, è un ente particolare perché non solo scopre l’altro ente, ma scopre anche se stesso: si scopre mentre si dice, si scopre perché è parlante, parlando non può non scoprirsi, dis-velarsi. Questa è una questione che meriterebbe qualche parola in più, perché questo dis-velamento non è di qualcosa che prima era nascosto chissà dove e da chi e poi arriva qualcuno che lo dis-vela. No, è la parola: la parola, dicendosi, si svela, cioè, dice che cos’è, ma dicendo che cos’è si ri-vela, cioè, si nasconde di nuovo. Il significante compare dicendosi ma nel momento in cui si dice scompare rinviando al significato; il significato, a sua svolta, scompare rinviando a un altro significante e anche a se stesso: rinvia a se stesso in quanto il significato determina il significante di cui è significato. A pag. 97. Chi comprende ha un concetto (Begriff). È in grado in ogni momento di indicare l’ente nel suo essere-così (so-sein) e di spiegare perché è così. Τό ӧτιτό διότι, “in che modo”, “per quale ragione”. Notizia, conoscenza, sapere. Questi sono i modi della conoscenza, ciò che si vuole perché una cosa è così com’è. Ma per chiedere perché una cosa è così com’è devo avere già stabilito, pre-supposto, che sia così com’è: solo allora posso chiedermi perché è così com’è. E cosa mi fa pensare che sia così com’è, cioè, così come mi appare? Questa è un’altra bella questione, sulla quale merita riflettere. In effetti, ciò che appare è il significante, è il mio dire; ciò che non appare è ciò che il mio dire vuole dire, che sta dicendo. Quindi, io ho sempre a che fare con l’immanente, cioè con il mio dire, ma ho a che fare con il mio dire simultaneamente al mio detto, perché come sappiamo non possono separarsi le due cose. Qui non ha torto Heidegger. In fondo, si tratta di sapere perché è così una certa cosa… sì, certo, è vero, si tratta di sapere qual è la sua causa, la sua origine, ma per potere porsi questa domanda occorre, come dicevo, avere già pre-supposto che ci sia un qualche cosa e che questo qualche cosa sia così. Quindi, in teoria, la domanda dovrebbe porsi non nei termini del “perché è così?” ma “perché un qualcosa mi appare così?”. A pag. 99, punto c). Τά τοπα – “ciò che è fuori luogo”, ciò che, per quanto chiara possa apparire la sua particolare situazione per la conoscenza comune, non trova sistemazione nella comprensione superiore. Qualcosa che suscita domande che restano aperte. Si meraviglia soltanto colui che 1) ancora non comprende, però 2) vuole comprendere. Egli cerca di sottrarsi alla γνοια, dimostrando così di cercare il νοεν. Dunque si ha il διαπορεν. Il senso comune crede di comprendere tutto, poiché non conosce possibilità superiori del domandare. Invece, colui che si meraviglia, e che continua a domandare, non ce la fa a passare, “non trova una via d’uscita”, una άπορία e per questo deve cercare possibilità, elaborare il domandare, conquistare il problema. Rispetto alla domanda è necessario fornire una risposta, ma si tratta di intendere come questa risposta non sia niente altro che un’apertura verso altre domande. Non solo non chiude la questione, ma la apre a infinite altre possibilità. Questa è la chance della risposta. A pag. 106. Si domanda delle αρχαί, però non formulando esplicitamente il problema in questi termini, bensì in modo implicito. Περί φύσεως: l’ente in se stesso, da dove e come esso è, l’ente nel suo essere. Περί φύσεως, περί φύσεως ίστορία. Οί άρχα οι φυσιολόγοι. Λόγοςφύσις, si mostra l’ente in se stesso, non però la possibilità e la necessità di un sapere circa la natura, bensì la natura stessa. Non semplicemente il fondamento e la causa del mondo. Le genealogie e le cosmogonie erano mitiche. La teogonia di Esiodo e la cosmogonia di Ferecide di Siro: narrazione sull’ente; sequenza. Narrazione sull’ente: questi erano i miti. Il mito è una narrazione sull’ente. Potremmo evincere così la differenza tra il mito e la filosofia: il mito è la narrazione sull’ente, la filosofia un domandare sull’essere dell’ente. Coloro che, agli albori del pensiero, imboccarono la via della ricerca delle cause, si accontentarono di una sola causa, illudendosi così di avere raggiunto una comprensione. A quel tempo infatti il comprendere stesso non era ancora sviluppato nelle sue possibilità. La scienza però non è solo l’incremento di conoscenze, accumulo di materiali, poiché il suo autentico sviluppo consiste piuttosto nelle nuove possibilità del domandare. Occorrerebbe sempre tenere conto di questo, e cioè che qualunque risposta noi ci diamo, qualunque teorema pensiamo di avere stabilito, in realtà, non è nient’altro che l’apertura verso altri problemi, l’apertura verso altre domande, vero altre questioni. È questo che fa il domandare. A pag. 120. N. 32: “E quello di ragione sufficiente, in virtù del quale noi consideriamo che nulla potrebbe essere vero, o esistente, né alcun enunciato essere vero senza che vi sia una ragione sufficiente per la quale sia così e non altrimenti. Benché il più delle volte queste ragioni non possono esserci note. (Leibniz – Teodicea, parr. 44 e 196). Abbiamo incominciato a vedere un po’ di cose, e cioè come si è avviato il pensiero – che è poi questa la cosa che ci interessa–, in quale modo si è avviato, per quale motivo si sono poste certe domande intorno a certe cose e in quel modo. Dicevamo prima della domanda intorno all’essere: perché la domanda intorno all’essere? È chiaro che qui l’essere si pone come la ragione dell’ente, ciò per cui l‘ente è quello che è. Ma, tenendo conto di quanto stiamo considerando, allora ciò che fa l’essere è di fornire il principio di ragione dell’ente, cosa che ci avvicina all’idea che ciò che è stato inteso con essere non sia altro che la volontà di potenza. L’essere è quella cosa che in realtà non è definibile in quanto tale – abbiamo già visto in Parmenide che è indefinibile, irraggiungibile, intangibile, ecc. – ma tutto questo ci dice che questo essere è sempre un “in vista di” qualche cosa. Lo stesso Hegel ci direbbe che è un “in vista” del non essere che lo fa essere quello che è. Potremmo addirittura azzardare che l’essere non sia altro che l’“in vista di”. In fondo, anche Heidegger non è molto lontano da questo quando parla di progetto-gettato: ciascuno si muove sempre in un progetto “in vista di” qualcosa. Ma qui “in vista di” che cosa? In vista del superpotenziamento, ci risponderebbe immediatamente Nietzsche. È questo il fine dell’“in vista di”: il superpotenziamento. Siamo alla Parte Seconda, I principali pensatori greci. Le loro domande e le loro risposte. A pag. 125. Esperienza dell’ente; comprensione dell’essere nell’ente. Concetto dell’essere e quindi comprensione filosofica concettuale dell’ente. Dall’ente all’essere. Comprendere, concetti; concetto – λόγος, Verità. Chiamare qualcosa in quanto qualcosa, in quanto “che cosa”: ciò che in qualcosa non è ente, bensì essere; ciò che ogni ente in quanto ente sempre “è”. Il λόγος non è l’αϊσθησις. La σοφία, il σοφόν di Eraclito. Qui la prima distinzione è importante. Il λόγος, a questo punto il linguaggio, non è la αϊσθησις, non è la percezione e nemmeno l’esperienza. Il λόγος è la condizione di tutte queste cose, il linguaggio è la condizione di tutte queste cose. Dice bene, comprensione dell’essere nell’ente, perché è dall’ente che si parte, è da ciò che si dice, dal significante. Si parte dal significante, il quale significante rinvia immediatamente a un significato; senza quel significato non c’è neanche il significante; questo significato ritorna sul significante e quindi lo fa esistere per quello che è. Questo per mostrare ancora una volta la simultaneità e la non separabilità delle due cose, e cioè, potremmo dire, la non separabilità dell’ente dall’essere. Heidegger qui ha inteso la cosa fino a un certo punto, ma con Hegel e in buona parte anche con Gentile non possiamo che cogliere che ente ed essere sono due momenti dello stesso, distinti ma non separabili. Il pensiero antico ha immaginato originariamente che ci fosse, per dirla alla de Saussure, solo il significante, che ci fosse soltanto ciò che appare immediatamente. Da lì la ricerca della causa di quella cosa; poi, un po’ alla volta ci si è accorti che ciascuna cosa rinvia ad un’altra per potere essere se stessa. Si sono, quindi, posti due momenti, ma che in realtà sono rimasti separati almeno fino a Hegel. Non si sono mai integrati… ancora con Heidegger, che si pone la questione della differenza ontologica, la differenza tra ente ed essere, per cui se dico l’ente non dico l’essere e se c’è l’essere non c’è l’ente. Ovviamente, certo, perché si escludono, ma si integrano (Aufhebung di Hegel). Sono distinti ma non separabili, perché ciascuno è la condizione dell’altro. A pag. 127. Parlando di Talete, ci dice che l’acqua è la causa materiale di tutto ciò che è. 3) “Tutto ciò che è è abitato da demoni”. “Il magnete è vivo, poiché ha la forza di muovere il ferro”. Ilozoismo: ληψυχή; non la materia e, oltre a ciò, lo spirito e la vita, bensì entrambe le cose ancora inseparate! Sta dicendo che hanno colto entrambe le cose, come se avessero colto, sì, i due momenti ma come due figure, figure che si sovrappongono, che non si integrano, che non diventano lo stesso per integrazione. Riguardo al punto due. Di che cosa consiste il mondo: di acqua; viene dall’acqua e ritorna all’acqua; l’acqua permane. I differenti stati di aggregazione: ghiaccio, acqua, vapore (approccio meteorologico). Il seme di tutto ciò che vive è umido: l’umidità è il principio della vita. Il costante, lo stabile, l’immutabile. Questa è la ricerca: l’immutabile, il costante, ciò che permane, non tanto come l’eterno, ma come un infinito presente, come ciò che non finisce mai. Si coglie qui un aspetto che a noi interessa: perché la ricerca dell’immutabile, a che scopo? Di nuovo torniamo al principio di ragione: soltanto se qualcosa è posto o immagino come immutabile, fisso, posso dominarlo, cioè conoscerlo, che come abbiamo visto è la stessa cosa. Ecco perché la ricerca dell’immutabile, e da qui tutte le varie ricerche, l’acqua, il fuoco, la terra, ecc.; non sono tanto le sostanze materiali che interessano, quanto trovare l’origine, il principio che rende le cose immutabili, che le rende quelle che sono. A pag. 130. Paragrafo 18, Il problema dell’essere. La domanda sul rapporto fra essere e divenire, e sull’antitesi in generale. Passaggio a Eraclito e a Parmenide. Scoperta dell’essere nell’ente come problema. Questo è stato il passo importantissimo del pensiero: la scoperta dell’essere nell’ente come un problema, come qualcosa da pensare. Finora si aveva a che fare con un ente contrassegnato come tale dal carattere della φύσις: λη (materia)–πειρον (indeterminato)– άριθμός (numero). Implicitamente si ha qui una comprensione dell’essere, non però un concetto. Direbbe Heidegger: è posto a tema ma non problematizzato, si vede il problema ma non lo si affronta, non lo si articola, non lo si concettualizza. Ci si trova di fronte a un assalto sempre rinnovato e respinto tenente all’essere, da intendersi tuttavia solo come ente. Se però l’essere dell’ente non sta al di fuori, ma appartiene all’ente stesso, non diviene forse a sua volta un ente? Nel contempo, tuttavia, l’essere diviene comunque esplicito e si mantiene come problema, facendosi sempre più scottante. È questo il problema: come separare l’essere dall’ente. In fondo, il problema della differenza ontologica, ci sta dicendo Heidegger, era in qualche modo già presente nei presocratici. Era presente nel senso che bisognava trovare un modo per distinguerli: distinguere la cosa da ciò per cui quella cosa è quella cosa. L’essere è ciò che è sempre lì presente, e non ciò che anzitutto diviene e trapassa. È vero d’altra parte che in ciò che è lì presente sono contenuti anche il divenire e il movimento, ρως. Ma come va inteso il divenire in quanto tale? Se è anch’esso un modo dell’essere, che ne è allora dell’essere stesso? Qui si trova di fronte a un problema: l’essere deve essere qualcosa che è sempre lì, sempre presente, ma se l’essere diviene allora cambia tutto. Il primo passo dell’ambito dell’essere comporta anche già una nuova problematica, sicché, prima che potesse essere pensata una nuova soluzione, era necessario anzitutto portare all’estremo l’elaborazione dell’essere e del divenire. Ciò che serve non è passare con un salto a una nuova causa per fornire una spiegazione in base a essa, bensì assicurarsi in modo molto più convincente di come si mostra l’ente nella sua totalità, ovvero di ciò che esso stesso offre come problema conformemente alla sua costituzione fondamentale. Non cercate un’altra risposta, un’altra causa, ma cercate di intendere bene come l’ente si mostra nella sua totalità. L’ente nella sua totalità è l’essere; quindi, dovrebbe mostrare l’essere, ciò che non muta nella mutazione. Non esiste però soltanto l’antitesi fra ciò che permane e ciò che muta, giacché all’interno dell’accadere stesso vi sono “antitesi”. Già il fatto che l’antitesi sia messa filosoficamente in risalto come tale, e per la precisione non come una cosa fra le altre ma in termini radicali, rappresenta un passo in avanti. In un primo momento ci si limita a prenderne atto: ora questo, poi quello, nella loro differenza. Ciò che è antitetico è diverso ed è tuttavia lo stesso, la massima integrazione in un intero. Vedete come ci siano già nel pensiero antico tutte le questioni che sono state poi prese e riprese nei due millenni successivi. L’antitesi è la differenza nell’identità, è l’identità in quanto differente. È, quindi, il discorso che fa Hegel; il problema dell’antitesi è il primo avvio, potremmo dire, della dialettica. A pag. 133. Qui parla di Eraclito. Risolvere mediante la fisica un problema ontologico, quello dell’antitesi. Come risolverlo? La dottrina delle antitesi non è un elemento accessorio, ma l’autentico problema. Non si tratta di una questione cosmogonica: partendo dallo stato primordiale, portare alla forma attuale mediante processi meccanici. Il mutamento avviene in forza della legge, del ταύτόν (identico). Il principio di Eraclito non è il fuoco, bensì lo ν τό σοφόν (il sapere in quanto Uno, la ricerca dell’Uno), il λόγος. Il fuoco è solo una manifestazione della ragione cosmica. Πρ πάντα ρε, piuttosto: è mutamento e stabilità. Il πάντα ρε, famoso, lo pone qui come mutamento e stabilità: entrambe le cose in antitesi. Questa unità nella contrapposizione è θεός. Non: πάντα ρε non v’è un solo frammento che dica: tutto è solo passaggio e mutamento, in nessun luogo v’è durata e persistenza, bensì: persistenza nel mutamento…Persistenza nel mutamento vuol dire che è il mutamento che persiste, è l’antitesi, è questo movimento dialettico che permane. È questo che, per dirla con Nietzsche, ritorna continuamente e sempre allo stesso posto, perché è sempre lì, nell’antitesi, che si produce nell’atto di parola. A pag. 134. Tutto è antitesi e tensione, sicché non ci si può sottrarre all’antitetico, aggrappandosi a uno dei termini dell’antitesi, dal momento che v’è solo l’intero dell’antiteticità stessa. Qui siamo già a Peirce. In fondo, quello che sta dicendo qui a proposito di Eraclito è ciò che pone Peirce. Non ci si può sottrarre all’antitetico, cioè alla relazione. Non ci si può sottrarre, nel senso che se mi aggrappo a uno dei due termini della relazione mi aggrappo a niente perché il singolo termine della relazione non esiste senza l’altro, perché, ci dice, v’è solo l’intero dell’antiteticità stessa, c’è soltanto l’intero della relazione. Questo è l’intero: la relazione. A pag. 135. Punto c) Scoperta e definizione dell’anima. Ψυχή. Comprensione, sapienza. È ciò che solo rende accessibile l’ente stesso nel suo essere. Si accresce da sé, si rivela da sé e segue ciò che è velato, dispiega da se stesso la ricchezza del senso. La ψυχή è l’esserci, è il Dasein, è il parlante. Non possiamo intenderla in un’altra maniera se non come il parlante in atto. In effetti, ciò che sta dicendo qui anticipa il pensiero di Gentile. Si accresce da sé, dice, si rivela da sé: è l’autoctisi, di cui parla Gentile. Come dire che in questa antiteticità, cioè nella relazione, lì, proprio nella relazione, si produce da sé l’atto, l’atto di parola. Atto di parola che è tale in quanto si separa, in quanto in questo atto avviene la separazione tra il dire e il detto, necessariamente, perché è il linguaggio che funziona così. Se non ci fosse questa separazione non ci sarebbe linguaggio, non saremmo neppure qui a porci queste domande. A pag. 145. Εόν γάρ έόντι πελάζει: “un ente è a contatto con l’altro”, “si avvicina”, è vicinissimo. Un ora è a contatto con l’altro, senza interruzioni. Ξυνεχές: tutto è nell’ora ed è, è esso stesso ora. Questo che sta dicendo è veramente straordinario, perché sta parlando dell’atto, né più né meno. Ξυνεχές è l’atto stesso, è l’atto di parola: tutto avviene qui nell’ora, ed è esso stesso l’atto: l’atto è l’ora, è l’adesso. Ακίνητον: “immobile”; è sempre ora; è ciò che è costante, che sta. … L’ora è costante, stabile; il tempo sta. Il tempo è soltanto nell’ora. Questa è una delle migliori definizioni dell’“atto”, dell’atto di parola. L’ora è costantemente se stesso in ogni ora. L’ora è la simultaneità, simultaneità che è insita nell’atto, simultaneità che è l’atto. Atto che è sempre lo stesso: questo “ora” è costantemente se stesso, cioè, questa simultaneità è ciò che si ripete costantemente sempre uguale. A pag. 146. Punto b) La seconda parte del poema didascalico: la via della parvenza. “Teoria della conoscenza”. Testo: κατά δξαν, ha soltanto la sembianza di ente, poiché ora è, e già non è più. Viene per così dire fissato nei nomi, che permangono, mentre il nominato svanisce. Gli uomini fanno dunque discorsi vacui, simili a gusci vuoti, che non offrono nulla di ciò che è, sicché non si può fare alcun affidamento su ciò che viene detto. Ha riassunto moto bene, e anche meglio, ciò che dicevo la volta scorsa, e cioè che parlando non si dice nulla. I nomi permangono, mentre il nominato svanisce. Il problema è che non è che propriamente permangono. Anche qui ciò che sfugge è che il nome e il nominato sono due momenti dello stesso: non c’è il nome senza il nominato e il nominato non esiste senza un nome. La cosa più importante è che il nome ora è e già non è più: nel momento in cui nomino qualcosa il nominato appare ma svanisce il nome. Questo nominato, riprendendo la tesi di Hegel, ritorna sul nome facendo del nome quello che è, ma questa integrazione, di fatto, è una negazione, in quanto si nega il nominato: il nominato nega il nome, perché il nome non è il nominato. In altri termini ancora, questo significa che nominando qualcosa, cioè dicendo qualcosa, il mio dire dice un qualche cosa che non è il mio dire e che si oppone al mio dire. È questa l’apertura di cui parliamo continuamente, questo squarcio che si apre ogni volta che si parla, che è irricucibile. La volontà di potenza nasce in conseguenza di questo squarcio con il tentativo di fermarlo. Per questo c’è il tentativo di trovare qualcosa di immutabile, di fisso, di eterno, di immobile, perché solo se qualcosa risponde a queste prerogative allora posso fermarlo, cioè posso immaginare che il mio dire e il ciò di cui dico siano lo stesso, cioè, si sovrappongano togliendo, quindi, la divisione. A pag. 152. La difficoltà non sta nel tempo, e tantomeno nello spazio, bensì nel continuo. Il continuo è l’essere. Quest’ultimo però è identificato con il tempo. Qui naturalmente Heidegger non può che rifarsi a ciò che stava scrivendo, e cioè a Essere e tempo. Eppure l’essere viene pur sempre prima dello spazio, del tempo e della grandezza, e non va quindi interpretato mediante il tempo. “Nel tempo”: qui il “tempo” stesso è inteso come ente, ούσία: Aristotele. Quando diciamo che l’essere è connesso con il tempo, intendiamo però il “tempo” in un senso originario, come ciò da cui il tempo della comprensione comune è derivato, ha tratto origine, senza che tale origine sia stata chiarita. Nondimeno, gli argomenti di Zenone, pur mantenendo una forma negativa, a ben vedere hanno comunque contribuito a evidenziare con maggior precisione l’essere stesso. Il continuo è un fenomeno che sta implicitamente a fondamento, in uguale misura, sia della grandezza, sia dello spazio, sia del tempo comune. Stava parlando di Zenone, ma ciò che a noi interessa è la questione del continuo. Dice che il continuo è l’essere, cioè l’infinito, l’infinito del significato, l’infinito del rinvio. Come posso fermare questo infinito? Ovviamente, non posso. A pag. 163. Paragrafo 28. Protagora. Πρός τι: il vero, l’ente stesso, è ciò che di volta in volta si mostra a un singolo uomo; e ogni ente si mostra a ciascuno in modo diverso. Eraclito: come ogni cosa, anche il singolo esserci è in costante mutamento, sia in sé sia in relazione alle altre cose. Non solo gli oggetti della conoscenza mutano costantemente, ma anche il conoscere stesso. Il modo di essere del conoscere è identico all’essere dell’ente che va conosciuto. L’ultima proposizione Il modo di essere del conoscere è identico all’essere dell’ente che va conosciuto .. e qui è Gentile: l’Io è quella cosa che vuole conoscere, e riesce a dirne qualche cosa perché è quella cosa lì; tutto ciò che io penso di un qualche cosa penso sempre il mio pensiero, diceva Gentile. Frammento n. 7: “Le linee percepibili sensibilmente non sono dello stesso genere di quelle con cui ha a che fare il geometra: non v’è nulla che sia esperibile come retto o curvo a quel modo. Il cerchio non tocca la tangente in un solo punto”. La cosa interessante è che tutte le questioni, su cui si è lavorato nei millenni successivi, erano già presenti; il che significa che queste questioni, l’essere, l’infinito, il vero, ecc., sono quelle questioni che servono al superpotenziamento. A questo punto possiamo azzardare una risposta alla domanda che ci siamo fatti prima: “Perché proprio queste domande”? perché vertono su quelle questioni che consentono il superpotenziamento. Trovare l’essere, cioè trovare il principio e la causa delle cose, per poterle dominare, perché dominare è conoscere e conoscere è dominare; trovare la verità, cioè trovare la ragione per cui una certa cosa è quella che è. Per quale ragione una cosa è quella che è, se non perché io voglio che sia quella cosa lì, cioè, per la mia volontà di potenza, per il mio superpotenziamento? Un’altra questione interessante la incontriamo a pag. 166. Parla di Prodico di Ceo, citato da Platone nel Protagora. Egli ci tramanda alcune tesi caratteristiche dell’atteggiamento illuministico della sofistica: l’uomo adora come divinità ciò che gli è utile: il sole, la luna, il fiume, la sorgente, il pane, il vino, l’acqua, il fuoco. Adora ciò che gli è utile, cioè, ciò che può utilizzare come strumento, ciò che è un utilizzabile. E sappiamo con Heidegger che ciascuno si trova continuamente gettato in un progetto verso un qualche cosa di utilizzabile, verso qualcosa che può utilizzare per rilanciare il progetto. In che cosa consiste propriamente questo progetto? Qui solo Nietzsche ha saputo rispondere: il progetto è il superpotenziamento, e cioè avere potere sulle cose, conoscere le cose e, quindi, dominarle. A pag. 169. Punto c) L’importanza di Socrate per la ricerca filosofico-scientifica. Socrate mira sempre in modo radicale ed essenziale al sapere, a risvegliare la comprensione, e infonderne l’istinto. Egli non propone nuovi contenuti, nuovi ambiti di ricerca, o una nuova tendenza in filosofia: lascia tutto com’è, ma al tempo stesso lo scuote alla radice, creando una nuova possibilità e, quindi, un’esigenza radicale di sapere e di fondazione del sapere. È un fatto che all’assenza di risultati scientifici abbia però corrisposto una rivoluzione della scienza senza la quale non vi sarebbero stati né Platone né Aristotele. Con Socrate è stata dimostrata una volta per tutte nella storia del sapere e della ricerca l’importanza della definizione metodica: il metodo non è una tecnica, ma la capacità di guardare al fondamento delle cose e alla possibilità della loro comprensione e definizione. Qui, in modo ancor più radicale, si pone la questione del sapere, di un sapere che è alla ricerca dei fondamenti di se stesso. Non c’è più la ricerca dei fondamenti degli enti, delle cose, ma il fondamento del sapere stesso, cioè di quell’attività che consente appunto la ricerca dei fondamenti delle cose. Il testo prosegue poi con Platone e la cosa si farà interessante soprattutto quando parlerà del mito della caverna, di cui diremo un po’ di cose. Il mito della caverna è fondamentale rispetto al pensiero contemporaneo.