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31 gennaio 2024

 

Aristotele Topici

 

La questione che insiste nel testo di Aristotele è quella dell’uno e dei molti. Facciamo una breve epitome. Partiamo dall’omonimia, dal fatto che le cose si dicono in tanti modi. Cosa significa questo? “In tanti modi” significa che hanno tanti significati. Ciascuna cosa è ciò che se ne dice – nelle Categorie la sostanza è i suoi predicati – quindi, una parola è tutte le parole di cui è fatta quella parola e, difatti, quella parola non esisterebbe senza tutte quelle altre parole. Questo significa che ciascuna volta in cui si afferma qualcosa, che cioè si pone qualcosa come uno, questo uno dovrebbe eliminare tutto che non è quella cosa che io affermo: per poterlo affermare devo fare come se tutte quelle cose, i molti, non ci fossero. Ma i molti ci sono, e perché ci sono inesorabilmente? Perché una parola è fatta di tante parole. Se prendo la parola “libro”, questa parola non dice niente se questo libro non è connesso, non è in relazione, non rinvia a una infinità di altre cose. È questo che rende l’omonimia, di cui parla Aristotele, necessaria; non è una cosa che accade casualmente, è necessaria. Ciascuna parola – Aristotele lo dice nelle Categorie – la sostanza è ciò che se ne dice – ciascuna parola è quella che è per il fatto che rinvia ad altre parole, per cui quando affermo qualche cosa, affermando quello, affermo anche tutto ciò che quella cosa non è, e cioè i molti. Ecco perché Aristotele ci dice perché è così facile confutare mentre è più difficile dimostrare, perché dimostrare significa porre l’universale, ma come lo garantisco? Lui lo dice: lo pongo come la realtà. Ovviamente, se lo pongo come realtà, l’altro dovrà essere convinto ad accoglierla perché la realtà è questa. Sta qui l’abilità del retore: far passare l’universale come la realtà. È chiaro che chi dovrà confutare questa affermazione dovrà negare che questo è l’uno. Come? Con il quadrato logico, è sempre questo che si utilizza, attraverso la particolare negativa: no, non è vero che sono tutte così, ce n’è una che non lo è e, se una non lo è, non è più un universale ma diventa un particolare anche quello. Potremmo quindi dire che tutto ciò che Aristotele ci ha detto fino a questo punto, in fondo, non è altro che una separazione continua dell’uno e dei molti: l’uno come l’universale affermativo o negativo, i molti come il particolare affermativo o negativo. Ci sono l’uno e i molti: i molti si oppongono all’uno – dice “tutte le A sono B; no, una non lo è”, e qui l’universale crolla, non è più sostenuto, appunto perché non è più universale ma particolare. Quindi, tutto l’Organon potremmo anche intenderlo così, come una notevole e poderosa elaborazione di ciò di cui è fatto il linguaggio. Lo abbiamo detto tante volte che il linguaggio è relazione, ma è relazione tra che cosa? Tra l’uno e i molti. Questo è il linguaggio: relazione tra l’uno e i molti, e cioè il fatto che l’uno rinvia ai molti e i molti all’uno, in questa sorta di simultaneità. Il lavoro di Aristotele ci ha condotto a delle considerazioni importanti. Perché la logica non regge? Perché la logica vorrebbe stabilire l’uno elidendo i molti: per potere affermarsi deve fare questo. Ma non lo può fare, la logica è fallimentare strutturalmente, non può sostenersi in nessun modo. È questo che in un certo senso percorre tutte le pagine di Aristotele: l’impossibilità di autofondarsi della logica. Certo, si fonda, la fondiamo, ma la fondiamo sulla δόξα, cioè, sui molti e dai molti traiamo l’uno per induzione, quindi, per analogia, ecc. Ma questo uno è in un certo senso fittizio. Questo uno che sorge dall’induzione non potrebbe in teoria essere posto – viene posto per comodità, per convenienza, ecc. – ma non potrebbe essere posto. È per questo che dicevamo tempo fa che parlare è impossibile perché parlando affermo cose, ciò che affermo lo pongo come universale, ma questo universale non lo posso affermare; dunque, parlare è impossibile. Ma come lo so? Parlando. Soltanto parlando mi trovo di fronte all’impossibile della parola.

Intervento: Si tratterebbe di precisare che cosa significhi parlare. Dopo millenni di logica, parlare sembrerebbe voler dire la verità.

Questa era l’intenzione originaria di Aristotele. Parlare non è che la possibilità di rinviare una cosa a un’altra e che abbiamo solo noi umani, è quel rinvio per il quale si apre una distanza per cui posso dire che io non sono quelle cose che ho di fronte e, quindi, se le ho di fronte e non sono io, le posso manipolare, le posso utilizzare, diventano utilizzabili. Per un animale no, non c’è nulla di utilizzabile, non c’è la possibilità di questa distanza tra lui e ciò che lo circonda, lui è ciò che lo circonda. L’umano, invece, ha questa prerogativa. Ci sono due cose che gli umani fanno da sempre: il sesso – se i nostri avi non l’avessero fatto noi non saremmo qui – e la guerra; infatti, non c’è un periodo storico in cui non ci siano state guerre. Ora, mentre il sesso lo abbiamo in comune con gli animali, la guerra invece è qualcosa di assolutamente peculiare agli umani: solo noi che parliamo possiamo organizzare una guerra; gli animali non si riuniscono in eserciti contro un nemico, mentre noi sì, ci organizziamo in eserciti per marciare contro Tizio o Caio, a seconda delle mode. Ogni volta il nemico è il rappresentante dei molti, Platone lo aveva detto: l’uno è il bene, i molti sono il male, i cattivi, che vanno estinti. Il fatto è che io posso estinguere tutte le persone che voglio, ma rimane il fatto che parlando questi molti si producono e, se si producono, o li accolgo – ma allora tutto ciò che dico è necessariamente autocontraddittorio, il che è un problema – oppure devo trovare qualcuno che rappresenti i molti, e cioè il nemico. E si trova, naturalmente. Tutto ciò che Aristotele dice qui, in effetti, va in questa direzione, cioè, continua a dirci come è fatto il linguaggio, e cioè che è fatto dell’uno e dei molti. Lui lo dice quando vuole mostrare come si consolida una tesi e come la si demolisce: si consolida ponendola come uno e mostrando che quest’uno è ineluttabile; chi confuta, invece, mostra che questo uno è fatto di molti e che tra questi molti c’è anche quello che lo nega. A pag. 1543. …quando due caratteristiche contrarie appartengono ad una realtà nella stessa misura e l’avversario abbia definito qualcosa per mezzo di una delle due, è evidente che non c’è stata definizione. Perché io ho definito una attraverso quell’altra. In caso contrario, sarebbe opportuno che vi fossero parecchie definizioni della stessa realtà. Questa è in fondo la questione di tutta la retorica e, quindi, della logica: esistono molte definizioni della stessa cosa, un’omonimia. Effettivamente, che cosa ha detto di più colui che ha definito per mezzo dell’altra, dato che entrambe le caratteristiche si presentano naturalmente nella stessa realtà nella stessa misura? Che cos’è la metà? È la metà di un doppio. E il doppio? In questo modo non è che andiamo molto lontano. Di questo tipo risulta essere anche la definizione dell’anima, quando si dice che essa è “la sostanza che può accogliere la scienza”: l’anima, infatti, può accogliere la scienza tanto quanto può accogliere l’ignoranza. E, quindi, l’anima non è già più quella cosa lì, se cioè accoglie la scienza e anche il suo contrario. Il problema è sempre questo: come gestiamo i contrari, come gestiamo i molti? Come gestiamo la contraddizione? Inoltre, quando uno non sia in grado di attaccare la definizione nella sua totalità, dal momento che l’espressione complessiva non risulta chiara, sarà necessario attaccare una delle parti della definizione ogni volta che tale parte sia chiara e sembri non essere stata formulata correttamente. Vale a dire, si attacca sul particolare: ogni volta si attacca l’universale sul particolare, non c’è un altro modo, è sempre lo stesso. Poi, riguardo a tutte le definizioni oscure, bisogna rettificarle e formularle diversamente, in modo da chiarire qualcosa e in modo da creare la possibilità di un attacco, conducendo poi, su questa base, l’indagine: in realtà, chi risponde dovrà necessariamente o accogliere l’interpretazione proposta da chi interroga, oppure chiarire egli stesso che cosa voglia indicare con ciò che è indicato nella definizione. Questo è un artificio retorico: uno afferma una certa cosa, l’altro gli contrappone una definizione più chiara, più semplice – quella che a lui serve, naturalmente – e domanda all’avversario “o accogli questa definizione oppure fornisci tu una che sia migliore di questa”, mettendolo in difficoltà. E poi: esattamente come capita nelle assemblee, in cui si è soliti presentare una legge e, se la legge proposta risulta migliore di quella vigente, allora capita che si abroga la legge precedente, allo stesso modo bisogna procedere anche per le definizioni, proponendo una definizione diversa. Obiettando all’altro “io propongo questa definizione che mi pare migliore di quella”; quindi, l’altro è quasi costretto ad accettare la nuova definizione, che è quella che ho data io e che serve a me per dimostrare una serie di cose. Sono artifici retorici. A pag. 1549. Per stabilire se una realtà sia identica ad un’altra o diversa da essa, secondo il significato principale tra quelli formulati a proposito dell’identità (infatti, si diceva che, nel suo significato principale, l’identità è un’unità numerica), occorre condurre l’esame sui casi dei termini, sui termini linguisticamente collegati e sugli opposti. È interessante qui la questione dell’identità “posta numericamente”, che ci rimanda alla seconda categoria di Aristotele, ποσόν, la quantità, cioè, il numero. L’identità è fondamentale perché, quando io voglio porre un’affermazione, la pongo, se ho evitato la contraddizione, come identica a se stessa – la contraddizione, infatti, dice che non è identica a sé ma è un’altra cosa. Questo rende anche conto del motivo per cui Aristotele giustamente pone il ποσόν, la quantità, la numerabilità, subito dopo la sostanza. Come dire che per potere determinare l’identità – che è la cosa più importante – occorre il numero, il quanto. A pag. 1555. Qui dà la definizione di identità. Infatti, tutto ciò che si attribuisce ad essi si dovrà attribuire anche all’altro, e a tutto ciò a cui uno di essi si attribuisce, si dovrà attribuire anche all’altro. È il problema dell’identità, che si figura generalmente con il segno “=”. Che cosa comporta il segno “=”? Che c’è un elemento a sinistra e uno a destra, ma già questo fatto non soddisfa le richieste di Aristotele perché questi due elementi non hanno tutte le proprietà identiche. Lo diceva anche Peano: se un elemento è a destra e l’altro a sinistra, già solo per questo non sono uguali. C’è il particolare che nega l’universale: A=B oppure A=A non sono uguali; per essere uguali dovrebbero avere tutte le caratteristiche in comune, ma queste non ce l’hanno e, quindi, non sono uguali. Poi, fa degli schemi sull’identità, ma l’unico schema valido in tutto l’Organon è il quadrato logico, tutto gioca intorno al quadrato logico. A pag. 1557. Quindi, per demolire una definizione, bisogna procedere in questa direzione e con gli strumenti che abbiamo indicato. Se invece vogliamo consolidarla, dovremo innanzitutto sapere che tra coloro che discutono sono pochi a dedurre la definizione – o addirittura non c’è nessuno –… Come dire che la consolido perché non c’è nessuno in grado di obiettare qualcosa. In retorica non è una cosa da poco, è una cosa molto frequentata: fare affidamento sull’ignoranza altrui. Come dicevamo tempo fa, in effetti, tutta la retorica è una scommessa sulla stupidità dell’altro, cioè, io riesco con le parole a ingarbugliarlo, metterlo in difficoltà in modo tale che non sappia più da che parte girarsi, per cui alla fine mi dà ragione, se non altro per farmi stare zitto. …e che, al contrario, tutti l’assumono come principio, come accade, ad esempio, a coloro che si occupano di geometria, dei numeri e delle altre scienze simili. Tutti danno per acquisito che ci siano i numeri, ecc. Se ci si basa su queste cose acquisite, si avrà il consenso generale. Facciamo come se tutti sapessimo che cos’è il numero, ma c’è qualcuno che lo sa? No, però facciamo come se tutti quanti lo sapessimo… e funziona perfettamente. Così come funziona perfettamente in un’assemblea politica: se sono tra persone di sinistra, tutti sappiamo che cos’è il bene, perché noi condividiamo questo sapere e, quindi, siamo tutti d’accordo e, partendo da lì, andare avanti. Naturalmente, la stessa cosa accade in un’assemblea di destra. Inoltre, stabilire in modo esatto sia che cos’è la definizione sia il modo in cui è necessario definire, spetta a un’altra trattazione, mentre ora si deve parlare di tali questioni solo per quanto ci serve rispetto alla trattazione che stiamo conducendo; pertanto, diciamo solo che è possibile dedurre sillogisticamente la definizione e l’essenza. C’è un problema perché Aristotele ci ha detto in svariate occasioni che la definizione non è dimostrabile. Adesso, invece, ci sta dicendo che è dimostrabile, cioè, procede per deduzione; se procede per deduzione allora è dimostrabile, se è dimostrabile vuol dire che ci sono una serie di sillogismi dove ci sarà una premessa maggiore che è superiore alla definizione. E, allora, la domanda è: la definizione è dimostrabile oppure no? Quando serve sì, quando non serve no. Infatti, se la definizione è il discorso che esprime l’essenza della realtà, e se i predicati contenuti nella definizione devono essere i soli predicati immanenti all’essenza della realtà in questione, e i predicati dell’essenza sono i generi e le differenze specifiche, allora, nel caso in cui uno assuma quei predicati che sono i soli ad essere immanenti alla realtà, sarà evidente che tale discorso costituisce necessariamente la definizione della realtà in questione. Infatti, non è possibile che ci sia di essa un’altra definizione, dato che non c’è nessun altro predicato immanente all’essenza della realtà. Che cosa ci sta dicendo qui? Che la definizione è non dimostrabile ma anche dimostrabile. E, allora, o si è dimenticato di quello che aveva detto prima, oppure si trova di fronte a delle questioni che ha difficoltà a gestire perché, in effetti, quando diceva che la definizione non è dimostrabile, lui stesso lì avvertiva un certo disagio, come dire: se non è dimostrabile posso solo crederla. Adesso, invece, aggiunge questo, che anche la definizione può essere il risultato di un sillogismo, ma se è un risultato allora non è più un principio primo. Per il momento lasciamo in sospeso la questione. A pag. 1565. …occorre acquisire la massima padronanza rispetto a tali schemi e tenerli sempre a portata di mano; infatti, essi, nella maggior parte dei casi, risultano più utili di qualsiasi altro schema. Lo schema, che bisogna sempre avere a portata di mano, è il quadrato logico, è questo lo schema fondamentale – universale e particolare, universale affermativo e particolare negativo è questa la base di ogni affermazione e di ogni confutazione. Questa, ad esempio, è la caratteristica dello schema che si riferisce all’indagine sulle realtà singole, come pure quello che si riferisce alle specie, permettendo di riflettere sul fatto che la definizione vi si adatti, dal momento che la specie e la realtà in essa contenute sono sinonime. Questo schema, peraltro, è utile, come si è detto anche precedentemente, contro i sostenitori dell’esistenza delle Idee. Si deve inoltre fare attenzione al fatto che l’avversario abbia usato o meno un termine in senso metaforico, oppure se abbia attribuito ad una realtà la stessa realtà come se si trattasse di qualcosa di diverso. Inoltre, nel caso in cui uno schema risulti essere utile e dotato di un vasto campo di applicazione, ci si dovrà servire di esso. La critica qui è questa: infatti, la specie e la realtà in essa contenute sono sinonime, cioè, stanno dicendo la stessa cosa e, quindi, non c’è bisogno di riferirsi a un’idea che stia da qualche parte. Inoltre, che il consolidare una definizione sia più difficile che demolirla, risulterà chiaro da quanto diremo ora. Infatti, per chi interroga non è facile né trovare la definizione, né ottenere il consenso di chi è interrogato su certe proposizioni che indicano, come uniche parti della definizione, il genere e la differenza, e inoltre che indicano, come predicati immanenti all’essenza della realtà in questione, il genere e le differenze specifiche. D’altro canto, senza assumere tali proposizioni, è impossibile dedurre sillogisticamente una definizione. Se non si trovano i predicati immanenti a una certa cosa, come faccio a dedurre sillogisticamente? È impossibile dedurre sillogisticamente una definizione, che prima aveva detto essere assolutamente impossibile perché, se deduco una definizione, vuol dire che non è più un principio primo. Quando infatti si diano altri predicati immanenti alla natura della realtà in questione, rimane oscuro se a dover essere considerata “definizione” della realtà debba essere la caratteristica formulata oppure se debba esserlo un’altra caratteristica, dal momento che la definizione è un discorso che esprime l’essenza. Se tu definisci esprimi l’essenza, quindi, non puoi avere più significati: l’essenza è quella. Vedete come gioca sempre con l’uno e i molti, incessantemente, sia per consolidare, sia per confutare. D’altronde la questione si può comprendere chiaramente anche da quanto segue. Infatti, stabilire una conclusione è più facile che stabilirne molte. Ora, per chi vuole demolire una definizione, è sufficiente assodare, tramite la discussione, un solo elemento. Quell’elemento particolare negativo che confuta l’universale affermativo. È sufficiente trovarne uno. Infatti, una volta demolito un solo elemento, qualunque esso sia, sarà stata demolita la definizione. Al contrario, chi vuole consolidare una definizione, dovrà necessariamente provare che tutte le caratteristiche contenute nella definizione appartengano alla realtà in questione. Chi vuole consolidare una definizione deve inoltre stabilire un sillogismo universale: è infatti necessario che di tutto ciò di cui si predica il nome della realtà si predichi pure la definizione e, per di più, è necessario che valga anche il contrario, se la definizione fornita vuole essere peculiare. Invece, per chi vuole demolire una definizione, non è necessaria una prova universale. In questo caso, infatti, basta mostrare che la definizione non si predica in modo vero di una qualche realtà compresa tra quelle indicate dal nome. È più facile trovare l’inghippo che provare che tutte la realtà in questione è universale, che le cose stanno come dico io. A pag. 1571. …è anche chiaro il motivo per cui, nelle discussioni, la cosa più facile consista nel demolire una definizione. Infatti, poiché sono enunciati molti elementi, in essa viene fornita una enorme quantità di spunti e il sillogismo scaturisce più velocemente da essi. Un enorme quantità di spunti per attaccare; più cose si dicono e più cose ci sono rispetto alle quali obiettare. Ora, poiché è verosimile che gli errori nascano da molti elementi piuttosto che da pochi, un sillogismo volto a demolire potrà svilupparsi più velocemente a partire da un maggior numero di spunti. Più l’altro mi offre spunti e più sono facilitato a trovare un elemento che non va. A pag. 1573. Inoltre, la definizione universale è la più facilmente consolidabile… Sta dicendo che è più facile consolidare l’universale. Vediamo come. …infatti, negli altri casi occorre mostrare non soltanto che la definizione appartiene alla realtà, ma anche che vi appartiene “in un certo modo”; invece, se si tratta della definizione universale, è sufficiente provare che essa appartiene semplicemente alla realtà. Qui ci ha detto a che cosa serve la realtà: a consolidare un’affermazione universale. Basta trovare un qualche cosa che appartiene alla realtà, universalmente riconosciuto, prenderlo come premessa maggiore e da lì dedurre quello che io voglio dedurre. Ottenuto l’accordo sulla realtà – è impossibile non essere d’accordo sulla realtà –, se sono sufficientemente abile a fare in modo che l’universale che pongo passi come la realtà, sono a posto, tutti quanti accoglieranno la premessa maggiore e, di conseguenza, accolta la premessa maggiore, saranno anche disponibili ad accoglierne tutte le implicazioni, le derivazioni. Al contrario la demolizione, rispetto alla definizione universale, è più difficile che in qualsiasi altro caso, dal momento che in essa viene offerto il numero minimo di elementi; nel fornire la definizione universale non si aggiunge, infatti, l’indicazione del modo in cui essa appartiene alla realtà. pongo un elemento: questa è la realtà. Questo meccanismo rende più difficile il demolire la tesi perché, se io pongo la realtà come premessa maggiore, quindi, come un universale, è come se costringessi l’altro a negare la realtà; l’altro si troverà a mal partito se dovrà negare la realtà perché solo i matti negano la realtà, come si diceva un tempo; quindi, non volendo passare per matto, accoglierà questa realtà, cioè, la premessa maggiore spacciata per realtà. È spacciata abilmente perché si mette l’altro nell’impossibilità di obiettare alcunché. Mentre generalmente, quando si parte dall’universale, l’altro ha buon gioco, perché l’universale deve raccogliere tutte le definizioni che vertono intorno a questa realtà, metterle tutte insieme e formare un universale per induzione, ma di tutte queste basta un unico elemento sufficiente a contrastare tutto quanto: ne basta uno per demolire tutto. Che è un po’ ciò che si diceva rispetto all’esperimento scientifico – il verificazionismo, il falsificazionismo. Per il verificazionismo quando si deve smettere di verificare un fenomeno? In teoria, si potrebbe andare avanti all’infinito. Per il falsificazionismo, invece, è sufficiente un elemento che nega ciò che è stato verificato in precedenza e tutto l’esperimento precipiti nel nulla.

Intervento: …

Cercare la verità: è ciò che ha cercato di fare Aristotele in tutto l’Organon attraverso la logica, per cui la logica è quella cosa che consente di arrivare alla proposizione vera. Poi, abbiamo visto la miriade di problemi che ha incontrati in questo tragitto, non ultimo questo della definizione: la definizione non può essere dimostrata; a questo punto noi si diceva che tutta la dimostrazione è sorretta da una definizione che non può essere dimostrata. Ora, però, ci dice che la definizione è il risultato di un sillogismo, ma questo sposta solo il problema perché o si regredisce all’infinito con i sillogismi, sennò questa definizione da dove salta fuori, come la sostengo? Con i sillogismi, i quali a loro volta muovono da una definizione, quindi, ecco il cattivo infinito! Aristotele ci ha detto una serie di cose, ma più che altro, e questo è l’aspetto interessante, ci ha costretti a riflettere su alcune questioni, in questo caso sulla logica e sulla validità delle affermazioni logiche, fino a che punto sono utilizzabili, tenendo conto che ogni argomentazione logica, proprio perché è logica, deve eliminare i molti. Se vuole arrivare a una conclusione che sia quella, deve sbarazzarsi delle contraddizioni. Era Wittgenstein che diceva da qualche parte che verrò un giorno in cui potremo sbarazzarci delle contraddizioni. Non sapeva quando, ma noi possiamo dire che è oggi, 31 gennaio 2024, perché la contraddizione è la parola stessa, è la parola che dicendosi comporta molti significati. La parola si contraddice nel senso che non è quella cosa lì o comunque non è soltanto quella, ma il fatto che non lo sia soltanto comporta che non lo sia; è come reperire quell’unico elemento che confuta l’universale. La parola è necessariamente autocontraddittoria. Lo dicevo all’inizio: ciascuna parola dicendosi afferma necessariamente delle categorie, che non sono quella cosa lì, sono altro; ma quella cosa lì non può essere che detta da categorie. Le categorie sono fondamentali e non è un caso che Porfirio abbia scritto molto sulle categorie, perché è lì che si gioca tutta la partita. La sostanza non è altro che ciò che se ne dice o la sostanza è quello che è per virtù propria? Lì si è giocata tutta la partita, che ha vinto Plotino, quindi, Platone, mentre Aristotele ha perso. Ha perso perché, se la sostanza non è altro che ciò che se ne dice, posso dirne all’infinito e, quindi, non saprò mai che cosa è veramente quella cosa. Dicevo, dunque, che non è casuale che i neoplatonici, Porfirio in particolare ma anche Proclo, abbiano insistito tanto sulle categorie, perché lì Aristotele dice qualche cosa che ha molto infastidito e, quindi, bisognava limare, sistemare, rendere innocuo il testo di Aristotele. Questo andrebbe reperito in tutti i testi di logica del Medioevo e vedere nelle citazioni che fanno in latino dell’Organon aristotelico e confrontarlo con il testo greco, per vedere fino a che punto si discostano. In effetti, posta la questione nelle Categorie e posto il quadrato logico, tutto ciò che dice dopo non aggiunge nulla di fatto a ciò che diceva nelle Categorie e a proposito del quadrato logico. Il quadrato logico non è altro che l’uno e i molti, la loro contrapposizione, il come giocano fra loro. Per esempio, nel sillogismo Barbara ci sono tre universali affermative, tre Uno che si susseguono senza nessuna contraddizione.

Intervento: Questo è ciò che vuole l’essere umano: non contraddirsi.

Sì e questo è interessante. Lo pensa naturalmente o lo pensa perché è stato addestrato a pensare così? Fino a che punto il neoplatonismo c’entra in questo? È vero quello che dice, e cioè che ciascuno non vuole essere contraddetto, soprattutto da qualcun altro. Ma l’idea che non ci debba essere la contraddizione non so se sia così naturale; per esempio, non c’era in Eraclito, in lui la contraddizione permane, così come in Parmenide, tutto sommato.

Intervento: In Eraclito all’origine c’è il πόλεμος, il conflitto.

È questo conflitto tra l’uno e i molti, la contraddizione, che non può togliersi in nessun modo. Dice che πόλεμος, la contraddizione, è la madre di tutte le cose. È da lì che sorgono le cose, dal fatto che l’uno e i molti sono simultanei ed è da lì che sorgono le cose perché è da lì che sorge il linguaggio e il linguaggio è fatto di quello.