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31 gennaio 2018

 

M. Heidegger, Essere e Tempo

 

Essere e tempo è il testo principale di Heidegger, quello con il quale è diventato famoso, scritto nel 1927. Possiamo riassumerlo in due parole per Simona. Heidegger si pone la questione dell’essere: che cos’è l’essere, l’essere delle cose? Questo è un posacenere, anche quest’altro è un posacenere, ma sono diversi. Hanno però in comune qualche cosa, e cioè di “essere” entrambi dei posacenere. Quindi, c’è un qualche cosa che li accomuna. E, allora, da sempre gli umani si sono chiesti: ma questo essere, che cos’è esattamente? Platone lo metteva nell’iperuranio, come idea, l’idea del posacenere, che non è un posacenere. Questo posacenere è chiamato dalla filosofia un ente, un qualche cosa che è. L’essere nella filosofia è sempre stato considerato qualcosa di fermo, di fisso, di stabile, come essenza di qualche cosa che rimane; qualunque siano le mutazioni dell’ente, l’essere rimane lo stesso, qualunque posacenere io faccia, l’essere del posacenere sarà sempre lo stesso, perché saranno sempre tutti dei posacenere. Heidegger fa una cosa che nessuno aveva fatto prima di lui, ha considerato che l’essere non è qualche cosa di fermo, di fisso, di stabile, di sempre identico, ma a che fare con l’unico ente che può chiedersi che cos’è l’essere. Qual è l’unico ente che può chiedersi che cos’è l’essere? L’uomo. A Heidegger non piace la parola uomo, perché è un termine inflazionato nella filosofia, e allora lo chiama Esserci, Esser-ci, dove questo “ci” indica l’essere qui, adesso. Individua in questo Esserci non più la immobilità e la stabilità ma l’essere sempre un progetto, cioè l’uomo è un progetto, nel senso che, qualunque cosa faccia o non faccia, comunque vuole fare qualcosa di qualcosa. Quindi, per lui l’essere non è più qualcosa di fermo, di fisso, ecc., ma è questa cosa che è l’umano in quanto sempre gettato verso un progetto e, infatti, lo chiama progetto gettato. Questo ovviamente ha cambiato molto nella filosofia perché a questo punto, essendo l’uomo un progetto, ovviamente ha a che fare con delle cose di cui si occupa, che Heidegger chiama utilizzabili, qualunque cosa è un utilizzabile. Si tratta, quindi, di trovarsi sempre gettati verso qualche cosa, ma sempre gettati verso un prendersi cura di qualche cosa. Questo è l’uomo per Heidegger, l’Esserci, che è qui e adesso, certo, ma è qui e adesso in quanto gettato. Gettato verso dove? Verso un utilizzabile, ma questo utilizzabile è in un mondo di cose. Ora, questo mondo di cose è ciò dentro cui si situa l’Esserci, però queste cose le incontra sempre come degli utilizzabili, qualcosa di cui occuparsi, di cui prendersi cura. Giunge a dire che ciascuna cosa appare così come a te, per esempio, (rivolto a Simona) appare perché è un utilizzabile per te in questo momento. Non soltanto, dice Heidegger, per te in questo momento, certo, ma questo momento comporta anche tutto ciò che tu sei stata fino ad adesso, come dire che tu, in questo istante, sei il prodotto di tutto ciò che sei stata, delle tue scelte, delle tue avventure, delle tue disavventure, ecc., tutto. Tutte queste cose ti hanno portata ad essere qui, in questo istante, sentire me che ti sto parlando. Quindi, ci sono questi due aspetti: uno è il fatto di essere sempre e comunque presa in qualche progetto, cioè volere fare qualche cosa di qualche cosa; l’altro è quello di essere qui, in questo momento, ma essere anche tutto ciò che sei stata. Tutto ciò che sei stata fa sì che tu adesso, in questo istante, sia quello che sei. Ora, tutte queste cose possiamo chiamarle il “mondo”, il mondo di cui sei fatta. Quindi, questa cosa ti appare così come ti appare qui e adesso, non soltanto per l’utilizzo che vuoi farne ma anche per tutto ciò che sei stata, e ciò che sei stata è ciò che condiziona, in un certo senso, anche l’uso che vuoi farne adesso. Ecco, questa è un po’ la questione che ha incominciato a interrogare Heidegger. Lui giunge a considerare la questione del tempo fondamentale, perché il tempo da dove viene fuori, secondo lui? Considerate che stiamo riassumendo Essere e tempo in cinque minuti… Il tempo, dunque. Quando tu progetti qualche cosa sei indirizzata, mossa, verso qualche cosa, che stai per fare ma che non è ancora, ma questo progetto, al tempo stesso, viene da tutto ciò che tu sei stata, quindi, dal passato. Abbiamo, quindi, già individuato un futuro che è nel progetto, un passato, che è ciò che ti muove a essere gettata in un certo modo. La gettatezza, l’essere gettati, è una cosa che in fondo tu sei sempre stata, anche se non vi hai mai fatto caso. Essere questa gettatezza, Heidegger la chiama estasi. Estasi vuol dire star fuori, quando tu sei progettata sei già fuori. Quindi, il tempo è ciò che consente tra il progetto, cioè l’essere gettato innanzi verso qualche cosa di cui vuoi occuparti, e ciò che tu sei sempre stata, che qualche cosa appaia, si presentifichi, così come a te appare. In effetti, per Heidegger, la verità non è altro che l’apparire di ciò che appare così come appare. Ecco perché il tempo per Heidegger è importante, tanto che alcuni hanno considerato che il titolo Essere e tempo potrebbe anche scriversi Essere è tempo, con la copula, cioè l’essere è il tempo, è questo movimento prodotto ininterrottamente dal progetto e dalla gettatezza e in cui qualche cosa si presentifica, che può presentificarsi proprio perché in quanto te ne stai occupando, e te ne stai occupando per via di tutto ciò che tu sei sempre stata. Heidegger si interroga su come accade che, invece, il tempo venga inteso così come si intende generalmente, cioè come cronologia. C’è un aspetto che non ho detto ma che è importante nel suo lavoro. Lui considera due aspetti dell’Esserci: l’uno autentico e l’altro inautentico. Quello inautentico è quello della chiacchiera, lui la chiama deiezione, del Si, cioè si fa, si dice, si pensa. Tutte queste cose sono quelle che si ascoltano quotidianamente: “perché si fa una certa cosa? Si fa”, “perché si pensa così? Perché è così, perché si dice che è così”. Nessuno, di fatto, si prende cura di capire se è veramente così, lo fa perché si fa. Come accade molto spesso alle fanciulle: perché si sposano? Perché si fa, e ci sono molte occasioni nelle quali è l’unico motivo. Non dovrebbe, però può accadere. Si fa perché è uso così, perché se non si fa non si è a posto, ecc. Questa è la chiacchiera. L’aspetto autentico, invece, è quello della persona che riflette su di sé e si accorge di essere un progetto gettato continuamente, cioè che esiste in quanto si sta prendendo cura delle cose, quindi, esiste in quanto si rapporta a degli utilizzabili, si rapporta con il mondo.

Siamo a pag. 492, § 81, L’intratemporalità e la genesi del concetto ordinario del tempo, da dove viene il concetto ordinario del tempo. E si domanda In qual modo innanzi tutto qualcosa come il “tempo” si temporalizza per il prendersi cura quotidiano e preveggente ambientalmente? Il che vuol dire semplicemente: come accade che ci si occupi del tempo così come lo consideriamo quotidianamente, cioè come una successione di eventi che scorre in una direzione. Se con l’apertura del mondo… Il mondo che si apre e, quindi, puoi vedere le cose. …il tempo è reso pubblico e se con la scoperta dell’ente intramondano (scoperta inerente all’apertura del mondo) ci si prende già cura del tempo (in quanto l’Esserci, facendo i propri calcoli, calcola il tempo), ne viene che il comportamento in cui ci “si” regola secondo il tempo consiste nell’uso dell’orologio. Ha soltanto che il modo in cui ci si regola secondo il tempo è quello dell’orologio. Come si presenta il tempo? Come una lancetta che si muove. Questa presentazione si temporalizza nell’unità estatica… Che vuol dire che si rapporta al tempo originario, come lo intende lui, cioè alla gettatezza, al progetto, ecc. Come si rapporta, dunque, questo tempo, inteso normalmente, con invece il tempo che si produce come progettualità, come storicità? E dice Ritenere l’“allora” presentando … Ritenere l’“allora”, fermarlo, fissarlo, cioè si fissa qualcosa del tempo… significa: dicendo-ora essere aperti all’orizzonte del “prima”, cioè dell’ora-non-più. Sta considerando cose che possono apparire banali. Dicendo “ora” ti riferisci a qualcosa che riguarda un “poi” e anche un “prima”, se dici “ora” sono previsti anche questi altri due aspetti. Ciò che si manifesta in questa presentazione è il tempo. Quando dici “ora”, “non ancora”, ciò che si manifesta, ciò che ti appare, è il tempo. Quale sarà dunque la definizione del tempo che si manifesta nell’orizzonte dell’uso dell’orologio, uso ambientalmente preveggente, prendentesi tempo e prendente cura del tempo? Esso è il NUMERATO che si manifesta nell’osservazione presentante e numerante della lancetta che si sposta, tale che la presentazione si temporalizza in unità estatica col ritenere e con l’aspettarsi, orizzontalmente aperti secondo il prima e il poi. Il che vuol dire semplicemente che si manifesta attraverso una numerazione che lascia aperti a un “prima” e a un “poi”: guardi le lancette, dici “sono le 9,23. Questo lascia aperto al fatto che siano state prima le 9,10 e che saranno fra un po' le 9,40, cioè, resto aperto a tutto ciò che accade e che è accaduto. Ma questa definizione è null’altro che l’interpretazione ontologico-esistenziale della definizione del tempo dataci da Aristotele: “questo infatti è il tempo, il numerato nel movimento che si incontra nell’orizzonte del prima e del poi”. Per quanto questa definizione possa sembrare strana a prima vista, essa si rivela “evidente” e genuina se si tiene presente l’orizzonte ontologico-esistenziale da cui Aristotele la desunse. Ma Aristotele non si pose mai il problema dell’origine del tempo così manifesto. È vero, certo, è il numerato di un movimento, e quindi, numerando questa successione di stati, definisco il tempo, inteso appunto come una successione di stati. Però, dice, non si è mai chiesto da viene questa cosa e perché magari debba essere proprio così. La sua interpretazione del tempo si muove invece nell’ambito della comprensione “naturale” dell’essere. Le cose “sono”, questa è la posizione metafisica. Ma che cosa vuol dire che “sono”? se non si intende la questione dell’essere, questa affermazione non significa niente: che cosa vuol dire che “sono”, perché “sono”, in che modo “sono”? Andiamo a pag. 495. Sta parlando degli “ora”, quei punti, quei momenti, in cui qualche cosa si presentifica. Se io guardo questo aggeggio so che lo sto vedendo ora: questo è un “ora”, un adesso. Gli “ora” sono quindi in qualche modo semplicemente-presenti-con: si incontrano gli enti e anche gli “ora”. Verrebbe da pensare che gli “ora” si incontrino insieme con gli enti, se gli enti non ci sono diventa un problema. Benché non si affermi esplicitamente che gli “ora” sono semplicemente-presenti come le cose, essi sono “visti” ontologicamente nell’orizzonte dell’idea della semplice-presenza. Si considera che gli “ora” siano delle cose semplicemente presenti, però non ci si accorge che ciascuna volta sono presenti in connessione con qualche cosa. Gli “ora” sopravvengono, e gli “ora” sopravvenienti costituiscono l’“avvenire”. Quelli che stanno venendo in qua sono l’avvenire, il futuro. L’interpretazione ordinaria del tempo-mondano come tempo-ora è del tutto estranea all’orizzonte nel quale sono accessibili il mondo, la significatività e la databilità. Queste strutture restano necessariamente coperte, e tanto più in quanto l’interpretazione ordinaria del tempo ribadisce questo coprimento a causa del modo in cui essa elabora concettualmente la sua caratterizzazione del tempo. Queste strutture, tutte queste cose che renderebbero possibile una riflessione intorno al tempo, non accadono perché si considera il tempo ordinariamente, secondo il famoso Si della chiacchiera. Quindi, non c’è un pensiero intorno al tempo. Una delle caratteristiche di Heidegger, forse la più importante, è quella di porre come problemi delle cose che sono comunemente e assolutamente prese come ovvie. Lui le pone come problemi, così come in questo caso il tempo, ma non solo: perché dovrebbe essere un problema il tempo? È una sequenza di momenti che numero, che dato sul calendario o sull’orologio, non ho bisogno di sapere altro. Questa per Heidegger è la chiacchiera, la deiezione. A pag. 496. La successione degli “ora” è continua e senza lacune. Per quanto si progredisca “ulteriormente” nella “divisione” dell’“ora”, esso è ancor sempre “ora”. Cioè, io possa dividere l’“ora” in sessanta minuti, poi in sessanta secondi, posso fare tutto quello che voglio, ma ciò che avrò di fronte sarà sempre un “ora”, un adesso. Non potrò mai avere di fronte ciò che è stato o ciò che sarà, ciò che ho di fronte, ciò con cui mi confronto, ciò che è presente, è sempre un “ora”. La continuità del tempo è vista nell’orizzonte di una semplice-presenza indissolubile. Questo è il modo con cui si vede il tempo, il modo comune, La continuità del tempo è vista nell’orizzonte di una semplice-presenza indissolubile, ogni ora è ciò che è sempre presente qui. In ogni caso la struttura specifica del tempo-mondano resta inevitabilmente coperta (cioè, non ci si accorge), essendo esso esteso insieme con la databilità estaticamente fondata. Non ci si accorge del tempo perché questo rimane sempre coperto dal fatto che, come dice lui mi rapporto al tempo perché ha la possibilità di essere un qualche cosa per me. Questa è la condizione perché esista il tempo, ma non solo. La prima condizione affinché qualcosa mi appaia è che mi appaia come un qualche cosa, perché se nulla apparisse come un qualche cosa non ci sarebbe nulla. Se si toglie il qualche cosa, cosa rimane? Nulla. Che in ogni “ora”, per quanto momentaneo, ci sia già sempre l’“ora”… È momentaneo per nel momento che lo si dice già non è più quell’ora lì. …deve essere inteso in base al “prima” ancora da cui scaturisce ogni “ora”: cioè in base all’es-tensione estatica della temporalità, che è estranea a ogni continuità del genere della semplice-presenza, ma che rappresenta a sua volta la condizione della possibilità di accesso a qualcosa di continuo nel senso della semplice-presenza. Quando si dice “ora” ci si riferisce a qualche cosa che è stato, che adesso non è più, perché quando si dice “ora” questo “ora” sta già passando. Ma, dice lui, che questo pensiero è possibile perché ciascuno non è soltanto progettato verso un futuro ma è anche tirato indietro verso il passato, verso ciò che è sempre stato. Ciò che è sempre stato è essere sempre un progetto gettato. Questo è ciò che è sempre stato, come dire che da sempre si occupa di qualche cosa. Non c’è mai stato un momento della sua vita in cui non si è occupato di niente; anche stando sul divano guardando il muro, anche in quel caso si sta occupando di qualcosa: di quello che vede, di quello che pensa, di quello che sente, ecc. Non può non occuparsi di qualcosa. Potrebbe occuparsi di nulla a condizione che cessi di parlare, per sempre. Il Si non muore mai perché non può morire… Per Heidegger la morte è importante, perché di tutti i progetti che ciascuno può avere, quello che più gli appartiene, quello al quale non può sottrarsi, è la sua morte. È l’unica cosa che gli appartiene propriamente, uno non può morire per conto di altri. La mia morte è qualcosa che mi appartiene in modo assolutamente personale. Per Heidegger accogliere questa idea, che la morte sia il progetto più autentico, è importante perché ciò che consente di accogliere ciascun momento della propria esistenza, ciascun “ora”, come la cosa più importante. Dice che il Si non muore mai, non muore perché nel Si sono sempre gli altri che muoiono. Certo, lo so che muoio anch’io ma non adesso. Sono sempre gli altri che muoiono e, difatti, l’esperienza della morte che ciascuno ha è quella della morte altrui. A pag. 498. Perché diciamo che il tempo passa e non diciamo con uguale accentuazione che sorge? È una bella domanda, perché non diciamo che il tempo sorge ma diciamo, invece, che il tempo passa? Infatti nella prospettiva della pura successione di “ora” le due asserzioni hanno uguale diritto. Quando dico “ora vedo questo” potrei anche dire che “questo ora è sorto in questo momento”, perché no? Quando dice che il tempo passa, l’Esserci, in fondo, comprende il tempo più di quanto vorrebbe ammettere; cioè la temporalità in cui si temporalizza il tempo-mondano non è mai nascosta del tutto, a dispetto di ogni coprimento. Con temporalità Heidegger intende il tempo originario, cioè quel tempo che è dato dal progetto, verso il futuro, dall’essere stato, cioè dalla storicità, e ovviamente dal presente, che sorge dai primi due. Quando si parla del passare del tempo ci si riferisce all’“esperienza” dell’impossibilità di fermare il tempo. Ma questa “esperienza” è a sua volta possibile solo sul fondamento di una volontà di fermare il tempo. Perché si dice che il tempo non si può fermare? Perché lo si vorrebbe fermare, sennò a nessuno verrebbe in mente di fare un’affermazione del genere. In ciò è insita un’aspettazione inautentica degli “attimi” che ha già anche dimenticato quelli trascorsi. In questo modo, quello della chiacchiera, della deiezione, tutti gli attimi sono trascorsi, è come se non ci fossero più. Per Heidegger, invece, è importante che questo essere stato ci sia sempre, il passato sia sempre, perché l’essere stato, che è presente in ciascun atto, in ciascun progetto, è ciò dal quale qualche cosa appare, si presentifica, perché appare così come appare anche per ciò che si è sempre stati. L’aspettazione inautentica degli attimi è un aspettarsi, attimo dopo attimo, senza cogliere e accogliere questi attimi che sono passati. Ricordate il celebre detto di Nietzsche: “ciò che fu, volli che fosse”, per cui ciascuno di questi attimi non è che siano passati e non se ne parla più. No, ciascuna cosa che è accaduta io ho voluto che accadesse. È un modo molto interessante di vedere la propria esistenza: tutte le cose belle, brutte, edificanti, devastanti, felici, ecc., tutto quello che è successo nel corso della propria vita, tutto questo è ciò che si è voluto. Questo dice Nietzsche, che a mio parere è più interessante della famosa frase di Freud, Wo Es war soll Ich werden, dov’era l’Es occorre che l’Io giunga. Però, nel caso di Nietzsche, e tra le righe anche di Heidegger, trovo la cosa più interessante, è il modo di rendersi conto che tutto ciò che io ho fatto l’ho fatto perché l’ho voluto, non perché è accaduto. Nella chiacchiera, nel Si, tutto ciò che ho fatto, tranne magari poche cose di cui mi compiaccio, sono accadute; magari, dico che non le volevo, che mi sono accadute così. Invece no, tutto ciò che fu io volli che fosse. L’aspettarsi presentante e obliante… L’aspettarsi di tutti gli attimi; presentante, nel senso che ciascun attimo presenta un qualche cosa; obliante, perché qui siamo nella chiacchiera, quindi, mentre arrivano questi attimi passano e si dimenticano. …proprio dell’esistenza inautentica, è la condizione della possibilità dell’esperienza ordinaria del passare del tempo. Poiché l’Esserci, in quanto avanti-a-sé, è ad-veniente (cioè, è sempre gettato innanzi) esso deve, aspettando, comprendere la successione degli “ora” come fuggente e trascorrente. L’Esserci, in quanto sempre progettato, quindi, sempre avanti a sé, dice Heidegger, deve, aspettando che le cose accadano, comprendere la successione degli “ora”. Comprendere la successione degli “ora” significa accogliere ciascun “ora”, ciascun punto nel tempo, come un qualche cosa di importante, e di cui si è fatti. È importante per questo, perché è qualcosa di cui l’Esserci è fatto. L’Esserci prende conoscenza del fuggire del tempo a partire dalla conoscenza “fuggitiva” che esso ha della morte. Il fuggire del tempo, perché gli sfugge la morte, gli sfugge che ciascun attimo, ciascun istante, la dico un po' alla Severino, è per sempre, ciascun attimo è per sempre. È per sempre in quanto è qualche cosa che comunque ci appartiene, non si può cancellare, fa parte di ciascuno, è uno degli infiniti elementi che fanno essere, quello che si è così come si è, in questo istante. Ma come tu Simona appari a me non è come appari a Cesare. Sei un utilizzabile, nel senso heideggeriano del termine, cioè come un qualcosa di cui ci si prende cura, con cui si ha a che fare. Io mi prendo cura di te, ho a che fare con te, rispetto a un progetto in cui mi trovo e a ciò che sono sempre stato e che mi fa essere quello che sono, per cui ti vedo così in seguito a tutte queste cose, è così che mi appari. A pag. 499. La temporalità estatico-orizzontale… Temporalità: progetto, essere stato e presentificazione delle cose. Estatico in quanto questa temporalità comporta un essere progettato, quindi, gettato fuori. Per Heidegger estatico vuol dire essere gettato fuori. L’Esserci, nel momento in cui si progetta, cioè sempre, essendo pro-getto è gettato fuori per qualche cosa, ma è gettato fuori di sé. In questo senso è estati, dal latino ex stare, stare fuori. Estatico orizzontale, nel senso che c’è una durata in questo movimento, ed è orizzontale nel senso che va verso un qualche cosa che innanzi a sé. La temporalità estatico-orizzontale si temporalizza primariamente a partire dall’avvenire. Cioè, dal progetto, da ciò che ancora non c’è ma che sarà, da ciò che tu stai progettando, ma se stai progettando qualche cosa ti stai anche prendendo cura di qualche cosa, quindi, c’è un utilizzabile di cui ti stai prendendo cura. Quindi, l’avvenire è avvenire ma sempre in relazione a un qualche cosa di cui ti stai occupando. Ecco, questo sarebbe il modo autentico, e cioè questa temporalità si temporalizza, diventa parte del tempo, rispetto all’avvenire, perché io mi sto progettando e so di essere un progetto sempre. Mentre, dice, L’interpretazione ordinaria del tempo ravvisa invece il fenomeno fondamentale del tempo nell’“ora”, e precisamente nell’“ora” puro, resecato dalla sua struttura integrale, detto “presente”. Nella temporalità, nel tempo autentico, io so che questo tempo non è altro che il prodotto del pro-gettarmi verso qualche cosa e del mio passato. Nella coincidenza delle due cose qualcosa si presentifica. Questo è il tempo pensato in modo autentico, per Heidegger, quindi, all’interno di questo movimento che l’Esserci è: progetto, gettatezza, cioè passato, e presentificazione. Invece, per l’uomo comune, per il Si, questo “ora” è tagliato fuori dal mio progetto, cioè, ciò che mi si presentifica non è più in relazione a ciò che io voglio farne, cioè al mio progetto, e al perché ne voglio fare qualche cosa, cioè al mio passato, ma è quello che è per virtù propria. È la posizione filosofica classica, platonico-aristotelica, cioè l’essere della cosa è quello che è indipendentemente da qualunque altra considerazione. È la posizione metafisica per eccellenza, cioè la cosa ha in sé la sua ρχe la sua ατα, la sua origine e il suo principio, mentre per Heidegger no. Questa è stata la sua rivoluzione straordinaria: questa cosa non è così come io la vedo perché vedo così come è; ma la sto vedendo così come è perché io mi sto occupando di questa cosa, in questo momento la sto usando come esempio, e perché una serie infinita di altre cose mi hanno portato a essere qui, in questo momento, a parlare di questa cosa in questo modo. È per questo che questa cosa è quella che è, ma è quella che è per me, non è quella che è in assoluto. Questa è la grande “rivoluzione” di Heidegger. Se ne evince dal fatto che il presente del pensiero comune è qualche cosa che non ha a che fare con il mio futuro né con il mio passato ma è quella che è… In effetti, generalmente si pensa così: questo posacenere non è dipendente dal mio futuro e dal mio passato. Può essere dipendente dal mio futuro, se lo sbatto per terra e lo rompo, sennò è quello che è, indipendentemente da qualunque altra cosa, secondo la posizione metafisica. Se ne evince che è inevitabilmente vano il tentativo di chiarire o addirittura di dedurre dall’“ora” così concepito il fenomeno estatico-orizzontale dell’attimo, proprio della temporalità autentica. È impossibile, dice, a questo punto, se io intendo la cosa che si presentifica per quello che è, così com’è, indipendentemente dal mio occuparmene e dal motivo del mio occuparmene, se io lavoro così non possiamo farci niente, rime quello che è e non abbiamo modo di andare oltre la cosa. Parimenti non è possibile far coincidere l’avvenire estaticamente inteso, il “poi” datato e significativo, col concetto ordinario di futuro… È impossibile far collimare il concetto, dice Heidegger, che è il mio, cioè quello del futuro in quanto progetto, in quanto progettarsi continuamente, essere sempre progettato, con il futuro inteso comunemente. …nel senso del puro “ora” non ancora venuto e che sta venendo. Un puro “ora”, cioè senza la mia presenza. Sarebbe la presenza di qualcosa senza l’Esserci. Quante volte si è sentito dire: le cose esistono anche se io non ci sono. Ecco, Heidegger ha qualche obiezione a questo riguardo. Intanto, chiederebbe subito che cosa si intende con “esistono”, ovviamente, e poi, perché si fa un’affermazione del genere, da dove viene, da quale contesto, da quale mondo viene fuori questa affermazione che dice che le cose esistono indipendentemente da me, quante cose si devono avere sentite, immagazzinate, quante informazioni si devono avere per affermare una cosa del genere, e queste informazioni come si sa che sono vere? Tutte queste cose meriterebbero di essere prese in considerazione, come dice Heidegger: tematizzate, messe a tema. Altrettanto poco coincidono l’essere-stato estatico, l’“allora” datato e significativo e il concetto di passato nel senso del puro “ora” semplicemente trascorso. Non è l’“ora” a essere gravido dell’ora-non-ancora, ma è il presente a scaturire dall’avvenire nell’unità originaria ed estatica della temporalizzazione della temporalità. (pagg. 499-500) Ecco, questa è la questione. Non è l’”ora” semplicemente presente che comporta il non ancora, non è questo “ora” qui, che ho davanti che comporta il non ancora, ma è il presente a scaturire dall’avvenire, cioè dal non ancora. Questo è importante perché occorre tenere conto che il futuro è il progetto, il futuro è l’essere sempre gettato innanzi. Ci sta dicendo che il presente, ciò che mi si presentifica adesso, non è la condizione del futuro, di ciò che sarà, ma dal mio progetto, da ciò che io voglio fare di questa cosa, che mi consente vedere questa così come io la vedo ora. Ecco che l’“ora” sorge dal futuro, in questo senso, non però in altri, solo in questo modo. Cioè, l’“ora” in cui io vedo questa cosa, che cosa fa? Mi dice che io vedo in questo modo perché in questo momento io ho un progetto verso questa cosa, ed è questo progetto, cioè il futuro, che mi fa vedere questa cosa così come la vedo ora. La vedo così come la vedo perché mi sto prendendo cura di lei, è un utilizzabile, direbbe Heidegger. Benché l’esperienza ordinaria del tempo, innanzi tutto e per lo più, conosca soltanto il “tempo-mondano”, essa gli conferisce pur sempre un particolare riferimento all’“anima” e allo “spirito”. Lo spirito, il Geist, è il pensiero.