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30 dicembre 2020

 

L’attualismo di G. Gentile

 

L’interessante in tutto ciò che stiamo facendo è il fatto che Gentile abbia portato alle estreme conseguenze, abbia radicalizzato un pensiero. Pensiero che era sorto molto prima di lui, però, in termini così radicali, così come l’ha posto Gentile, non era mai stato fatto da nessuno. Ciò che dice intorno all’atto è notevole, non fa altro che ripeterlo, ma importa qui intendere come in ciascuna cosa di cui si parla, si pensa, si è comunque in quel momento nell’atto. In questo atto c’è da una parte ciò che sto pensando, cioè l’astratto, ma al tempo stesso c’è il concreto, e cioè il fatto che sto pensando. Il mio pensare e il ciò che penso sono la stessa cosa, sono lo stesso, avvengono simultaneamente, anche se sono distinti. Lui ci dice una cosa di cui bisognerebbe sempre tenere conto, e cioè che quando penso qualche cosa, di fatto, lo sto pensando, con tutto ciò che questo comporta. Si tende – generalmente avviene così – a immaginare che l’astratto, cioè ciò che sto pensando, costituisca il tutto, eliminando il fatto che lo sto pensando. È una cosa che sembra una banalità, ma non lo è, perché tenendo conto di questo, e cioè che lo sto pensando, mi ritrovo, certo, nell’astratto ma non escludo il concreto: penso una cosa ma, al tempo stesso e necessariamente, penso anche al suo contrario; come dire che mentre sto pensando A c’è anche non A, il suo contrario. C’è un passo di Nietzsche, verso la fine della Volontà di potenza, dove dice che l’Übermensch, l’Oltreuomo, vive la contraddizione, vive negli opposti. Ovviamente Nietzsche non poteva conoscere Gentile, però ciò che dice Nietzsche rispetto all’Oltreuomo non è lontano da ciò che in un certo senso raccomanda Gentile, e cioè di abitare la contraddizione, ma abitarla nel senso di tenere conto che ciascuna cosa, per essere quella che è, è sempre anche il suo contrario. È ciò che anche Gentile invita a fare continuamente – senza parlare dell’Übermensch, ovviamente – però, istiga a essere la contraddizione; non nel senso di essere contraddittori, di dire il tutto e il contrario di tutto, no, ma nel senso di tenere conto che ciascun elemento ha sempre il suo opposto per potere essere quello che è e che soltanto nel discorso religioso – e qui siamo con Hegel – le due cose sono separate. Soltanto nel discorso religioso, e cioè nel discorso comune, corrente. Detto questo, veniamo a Gentile. Siamo al paragrafo 11, L’equivoco contro il concreto. La difficoltà non sarebbe sorta mai, se si fosse posto mente all’accurata distinzione su cui l’idealismo attuale ha sempre insistito, tra fatto e atto, tra storia passata o astratta e storia eterna o concreta, tra la comune esperienza, di cui si suol parlare dallo empirista, e l’esperienza pura in cui quest’idealismo risolve la realtà storica. E a dissipare tale difficoltà basterebbe ora avvertire che la concretezza dell’esistente di cui si vuol parlare, è la concretezza dell’esistente attuale, del vero e unico esistente, che non è fatto, ma atto; e non è perciò storia posta innanzi allo spirito nella sua meccanica brutalità, priva di libertà e quindi di valore: ma la storia che sola esiste, la storia in atto. In queste poche righe c’è tutto il pensiero di Gentile. Dicendo che non c’è il fatto, ma l’atto, a parte evocare ancora Nietzsche – non esistono fatti ma solo interpretazioni – potremmo cogliere tutto ciò anche in questo modo: sono io che colgo il fatto in quanto atto, e cioè in quanto lo sto pensando e non in quanto pensato. Paragrafo 12. Errore e verità nel pensiero attuale. L’esistente nella sua reale attualità, come pensiero che pensa, è valore assoluto in quanto si distingue realiter dal suo opposto. E tutte le difficoltà nascono, in fondo, dalla incapacità o incuria di collocarsi a quello che vuol essere il punto di vista dell’idealismo che si combatte, e dalla confusione che ne deriva di problemi differentissimi, che si pretende perciò di veder risoluti con la stessa soluzione. L’idealista dell’immanenza assoluta non deve spiegare con la dialettica dell’atto spirituale qualunque verità e qualunque errore; ma la verità e l’errore di quel pensiero che solo per lui è veramente tale: la verità mia nell’atto che penso, e il mio errore nello stesso atto. Dice: non serve a niente sapere della verità di una certa cosa, perché la verità pensata fuori è sempre qualcosa all’interno di un pensiero religioso. La verità che interessa Gentile è la verità del fatto che sto pensando: la verità è dell’atto non del fatto – il fatto non è né vero né falso, non è niente –; nell’atto c’è la verità ma anche la falsità, e la verità è solo uno dei due momenti dell’atto. Chiedergli che con la stessa spiegazione egli renda conto di quello che, volgarmente e secondo altri sistemi filosofici da lui criticati, è pure pensiero, e importa un corrispondente modo di concepire verità ed errore, è certamente pretesa assurda. L’errore attualmente superato dal suo contrario (che è il solo errore di cui il nostro idealismo possa parlare) non è certamente l’errore, per es., di chi è contro di noi, e resiste ai nostri argomenti, e persiste nella sua asserzione, per noi evidentemente falsa; né è l’errore commesso, per recare un altro esempio, da Platone con la sua teoria della trascendenza delle idee. E appunto perché si tratta di errori diversi, sarà facile convenire che l’errore attualmente superato è un semplice momento ideale del pensiero, laddove questi altri non sono superati, e hanno una loro esistenza storica. Se non che l’idealista fa poi osservare che questa opposizione di me e del mio avversario, io in possesso della verità e lui in preda all’errore, e quest’altra posizione di Platone separato da noi che lo giudichiamo da ventiquattro secoli d’intervallo, si reggono sopra un modo di concepire il mondo, che è ingenuo e che bisogna esso stesso superare; e che infatti noi superiamo in ogni attimo della vita spirituale, vissuta sempre come libertà. Noi viviamo come spirito universale e infinito, e perciò libero. Nell’universalità dello spirito questa opposizione tra me e il mio antagonista, questa distanza tra me e il vecchio Platone, vengono annullate. Annullate all’infinito, e annullate di colpo. All’infinito, perché la distinzione risorge sempre, e vien sempre annullata: e l’unità così è sempre da instaurare. Ma anche di colpo, perché il mio antagonista è antagonista mio, interno a me, e reale (poi che esso è e vale per me) in me; e il vecchio Platone non è il figliuolo di Aristone che giace da ventiquattro secoli sotterra, ma il vivo Platone da me letto, e inteso, e pensato insieme con quelli che l’hanno interpretato; egli e i suoi commentatori, risorti e viventi nella vita stessa del mio spirito. E il suo errore, nell’atto che io lo penso e realizzo, mi si presenta appunto (in quanto mio errore) come momento ideale e ipso facto superato nel giudizio vero di cui esso è materia. In conclusione, la nostra dottrina dice agli uomini: – Badate a non trascendere voi stessi, né in cerca di verità, né in cerca di fantastici errori. Il bene e il male sono dentro di voi. Liberatevi! – Perciò batte sul principio della concretezza dell’esistente; e pur riconoscendo il diritto di una logica dell’astratto, non se ne appaga, e propugna la necessità di riportare l’astratto logo nel concreto: nel solo pensiero che possa restituire la vita a quella specie di pensiero cristallizzato, di cui esponemmo precedentemente la teoria liberata da tutte le superfetazioni e intrusioni del suo millenario travaglio. /…/ Platone, il vero creatore del logo astratto con quella sua teoria delle idee a cui fa riscontro esatto nell’aristotelismo la dottrina dell’intelletto attivo, in fondo si contentava di un cosiffatto ideale del pensiero, immoto e sottratto a ogni possibilità di svolgimento e di progresso. E non ignorava che il pensiero dell’uomo pensante – il nostro pensiero, il solo esistente – è movimento (γένεσις); ma pensava che fine del moto fosse un ritorno graduale al punto di partenza ideale, al presupposto necessario e consapevole di ogni pensiero: la verità assoluta. Che cosa c’è nello stesso logo astratto che induce il pensiero a superarlo? O in altri termini: come si deduce il logo concreto dall’astratto? Questo ora è il problema. Lui dice che, come sempre ha fatto la filosofia, si parte sempre dall’’astratto, anzi, nella filosofia si parte dal sensibile. È il problema dell’incominciamento: da che cosa incominciamo? Generalmente, almeno fino a Kant, si parte dall’esperienza, cioè da ciò che mi appare, da ciò che io esperisco, dal sensibile. Quindi, come posso dall’astratto, dal sensibile, giungere al concreto, pensarlo, ammesso che si possa pesarlo? Questo salto dall’astratto al concreto è un salto che io compio arbitrariamente o è invece inevitabile. Naturalmente, appare inevitabile. L’astratto rende conto del concreto in quanto l’astratto è preso in un movimento, che Hegel chiamerebbe dialettico, e cioè un elemento per essere quello che è, per essere fissato, deve possedere anche il suo contrario, ciò che non è, per eliminarlo, per toglierlo, ma deve esserci: solo a questa condizione qualcosa è veramente sé. Quindi, anche l’astratto è in un movimento, movimento dialettico. Però, per Gentile si pone il problema di come sia lecito passare dall’astratto, cioè dal sensibile, al concreto. Come si fa? Cosa ci autorizza a compiere questo passaggio? Allora dice nel Capitolo II, Spiritualità del logo astratto, Paragrafo 1. Riepilogo: circolarità del logo astratto. Bisogna tornare sul concetto di questo logo astratto. Esso è circolo, abbiamo detto: circolo chiuso, ossia punto che si muove e torna a se stesso. Torna a se stesso allontanandosi da se stesso; e quanto più s’allontana, lungo la circonferenza, tanto più s’avvicina; e la massima distanza di sé da se stesso coincide con la negazione d’ogni distanza. In altri termini, il pensiero astratto è riflessione e però alienazione da sé, dove la massima differenziazione coincide con l’identità. Qui è sempre Hegel: essere e non essere. L’essere è essere in quanto non è non essere: la massima distanza dall’essere ritorna e diventa essere, e quindi questa distanza si chiude. Dire A = A è lo stesso, nella funzione logica, che dire, per es., Dio è spirito. Nel primo come nel secondo caso un pensiero è determinato in quanto torna a sé allontanandosi da sé, e si rispecchia. Il secondo A di quel rapporto simbolico è lo stesso A di prima, ma differenziatosi da se stesso; e in questa differenziazione che precipita nell’identità, consiste il pensamento di A. Io posso pensare A a partire da A=A, cioè, devo separare la A da se stessa per dire che A è A. Solo così la posso pensare: soltanto separandola. Paragrafo 2. II principio del circolo. La verità per la logica dell’astratto non è del pensiero che intervenga nell’oggetto suo, ma dell’oggetto, in cui il pensiero deve riconoscerla. Per la logica dell’astratto, chiaramente, la verità sta nell’oggetto, è lui che deve essere riconosciuto come vero o falso. E nell’oggetto la verità non può essere, e non è, elemento o termine di pensiero: ma elemento e coelemento, termine terminante e terminato, sintesi, relazione. Non solo il punto, dunque, ma il punto, insieme col suo movimento generatore del circolo. E se il punto c’è in quanto si muove, ed esso non si muove perché altri lo faccia muovere, il punto si muove da sé, ed ha natura di semovente. In A = A non siamo noi a ragguagliare A con se stesso: A si ragguaglia o si riflette. La logica del logo astratto non conosce nulla che possa stare di fronte o dietro al logo: esso è tutto, infinito. La mente lo vagheggia in una sconfinata solitudine. Che altro infatti si può pensare secondo verità, che non sia la verità stessa? Qui incomincia a porre la questione, e cioè, dice, il logo astratto non conosce nulla che possa stare di fronte o dietro al logo. Sta incominciando a dire in modo abbastanza preciso che il logo astratto sta comunque all’interno del logo. Poi, vedremo che si tratta del logo concreto. Questo logo astratto partecipa chiaramente del logo, partecipa dell’astratto. Paragrafo 3. Spiritualità dell’oggetto nello stesso logo astratto. La logica comincia quando la natura si idealizza, riflettendosi in modo che non sia più semplice natura, ma natura identica a se stessa, e però avente una essenza, una intelligibilità, come un terreno in cui l’uomo possa poggiare il piede, un essere che cessi di essere eterogeneo ed impenetrabile al pensiero. Qui si sta effettivamente discutendo del funzionamento del linguaggio. Per funzionare il linguaggio ha la necessità che qualcosa sia fissato, fermato. Questo qualcosa che è fermato naturalmente non è tale per natura, ma è una delle condizioni del funzionamento del linguaggio. Come dire che perché qualche cosa possa essere se stessa, quindi possa essere affermata, è necessario che questa cosa, esca da sé e ritorni su di sé. Esca da sé nel senso che deve riflettersi, deve pensarsi come qualche cosa: se qualche cosa è qualche cosa, allora abbiamo due qualche cosa che è lo stesso qualche cosa, ma sono due. Solo a questa condizione, dice Gentile, qualche cosa è intelligibile. È come se solo a quel punto la natura potesse dire “Io sono natura” o “Io sono io”: solo se c’è questa riflessione, solo se il dire, se ciò che dico si sdoppia. Si sdoppia, in effetti, fra il dire e il detto, fra il significante e il significato, che sono ovviamente inseparabili. Il motivo per cui si sdoppiano è quello che ci ha indicato Hegel: per potere affermare qualche cosa devo escludere che questo qualche cosa non sia tutto ciò che non è. Ecco il primo sdoppiamento. E soltanto escludendo che quella cosa sia ciò che non è, posso affermare con certezza che allora è quella che è. Per affermare qualcosa questo qualcosa si deve sdoppiare. Questa natura, diventata pensiero, finalmente risponde al pensiero, e dice: – Io sono natura. – E non può dire che così. Non può rispondere da prima: – Io sono pensiero, – perché ancora non ha acquistata coscienza della profonda trasformazione in sé prodotta da questa sua riflessione su se stessa. È il primo passo. Dicendo “Io sono natura” è come se si rivelasse qualcosa, ma ancora non c’è la possibilità di accorgersi che questo qualcosa che si sta rivelando sono io: sono io che lo penso. Il suo primo riflettersi è nient’altro che questo ragguaglio: natura = natura, A = A. (Perciò Platone non giunge a intendere la spiritualità delle sue idee, e le lascia di fronte al pensiero in quella stessa posizione, che aveva sempre avuta la natura dei Presocratici). La natura è natura, A è A. Risponde come natura e dicendosi tale, ma risponde pronunziando la gran parola: – Io. – Senza di che non risponderebbe, e per lei dovrebbe rispondere altri. Ciò che è escluso rigorosamente dalla posizione del logo astratto. Il logo astratto esclude che possano rispondere altri, perché il logo astratto non è niente altro il determinare qualche cosa. Nella quale il nostro pensiero si colloca allora soltanto, quando non distingue più sé dall’oggetto, ed è alla presenza di questo, riempiendosene e lasciandolo parlare, ascoltandolo esso religiosamente. Bisogna dunque che parli l’oggetto. Ed esso infatti parla al nostro pensiero, solenne, come la divina Verità, a cui non possiamo che prostrarci, quando pensiamo. Parla e si definisce, e diventa giudizio, sillogismo, sistema, scienza, concetto, manifestando da ultimo quello che essa è fin da principio, tracciando quel tale circolo in cui la nostra mente rimane chiusa. Parla, come può parlare chiunque si provi a parlare: ponendo se stesso, esprimendosi, facendosi conoscere mediante quello che dice, e facendosi conoscere per quello che esso è facendosi a parlare. Si specchia nel suo discorso, e quindi si svela. In effetti, qui dice già della questione del linguaggio pur senza accorgersene. Dice: Parla, come può parlare chiunque si provi a parlare: ponendo se stesso, esprimendosi… Si pone mentre parla, si fa conoscere e conosce soltanto parlando, non c’è un altro modo. Paragrafo 4. L’Io nel logo astratto. A chi si svela? Chi parla si svela ad altri e a se stesso; ma ad altri non si svelerebbe se non si svelasse prima di tutto a se stesso; ed in verità nessuno mai si svela propriamente ad altri che a se stesso (e agli altri solo in quanto questi s’immedesimano con lui). E il logo astratto non può svelarsi ad altri che a sé nella infinita solitudine, che abbiamo detto spettargli. E comunque, ci sia o non ci sia altri ad ascoltare la sua parola disvelatrice, egli la dice a se stesso: perché solo udendo la propria parola egli si riflette su se stesso, e da natura passa a logo. Qui occorre naturalmente fare delle precisazioni perché qui sta dicendo delle cose che parrebbero ricondurci di nuovo alla questione del logo e della natura, ma ci ha già avvertiti che la natura non c’è se non è pensata, è solo con il pensiero che abbiamo la natura. Il motivo, ce lo ha spiegato bene, è che se qualcosa fosse fuori del pensiero, in effetti, non sarebbe pensiero, quindi, non sarebbe pensabile; sarebbe come l’essere di Parmenide, che non si può pensare, immaginare, misurare, non si può niente. D’altra parte qui non sta nemmeno contrapponendosi a Wittgenstein, il quale diceva che non esiste il linguaggio privato, ma esiste solo il linguaggio pubblico, vale a dire, il linguaggio è tale in quanto è condiviso da tutti i parlanti. Il fatto è che Gentile qui non sta dicendo questo, non sta parlando di una sorta di solipsismo radicale, dove il linguaggio appare in quanto privato. Ciò di cui parla Wittgenstein viene prima, mentre qui Gentile sta dicendo qualcosa che accade nel momento in cui il linguaggio è già in atto e, quindi, è già pubblico. È perché è pubblico che posso parlare, ed è parlandomi che io mi ascolto, che io mi comprendo. Questo parlare a se stesso, e così riconoscersi, è la riflessione propria dell’Io, che non ha altro significato che questo interno rispecchiarsi, non agli occhi altrui, ma ai propri, questo assoluto riflettersi, onde veramente l’omega coincide con l’alfa. Il logo astratto, questo contrapposto od obietto dell’Io, non è altro che l’Io stesso. A = A non può essere se non Io = Io. L’oggetto del pensiero, se non è natura inattingibile al pensiero, ma natura luminosa, intelligibile, è lo stesso soggetto del pensiero. L’oggetto del pensiero è il soggetto del pensiero: questa è la sua conclusione. Tutto questo discorso Gentile lo fa per condurci, passo dopo passo, a intendere che il logo astratto non c’è senza il logo concreto. Paragrafo 5. La solitudine infinita della verità. Così il pensiero che è pensato non può essere altro che il pensiero del pensante, il quale pensa se stesso: né più né meno della realtà dei nostri sogni, in cui non si sogna altro che lo stesso sogno del sognante, il quale rappresenta a se stesso i suoi propri stati, e cioè se stesso. Tutto ciò che sogno sono sempre io. Più o meno negli stessi anni Freud diceva grosso modo la stessa cosa, ignorandosi a vicenda, come spesso accade. E come nel nostro sogno tante persone, mèri oggetti del nostro pensiero, parlano, e non parlano altro che il nostro linguaggio, così tutte le cose pensate parlano la nostra stessa lingua, e s’appropriano in faccia a noi la nostra anima. Non c’è Socrate e la virtù da lui definita; ma Socrate che definisce il suo concetto della virtù, la quale è uno degli elementi della sua personalità, anzi la sua personalità sotto questa specie. È interessante se si coglie in un’accezione più ampia. Dice Non c’è Socrate e la virtù da lui definita… cioè, non ci sono io e le cose che io definisco, ma io che definisco queste cose, che a questo punto siamo lo stesso. E il concetto di Socrate trascende la sua persona, in quanto la sua vera personalità trascende cotesta persona, che noi infatti non abbiamo bisogno di ricordare per intendere il concetto suo, e realizza un pensiero universale, in cui ogni individuo vive la sua vera vita. Io definisco qualche cosa, ma nel definire questa cosa, di fatto, sto definendo me stesso, un aspetto di me, di me che sto definendo questa cosa. Paragrafo 6. Immediatezza dell’Io nel logo astratto Ma quando nel logo astratto noi scopriamo l’Io che pensa,… Ecco, qui sta la risposta da cui siamo partiti. …siamo già fuori dell’astratto, e siamo passati al logo concreto:… Cioè: quando scopriamo l’Io che pensa, quando mi accorgo che sto pensando - quando mi accorgo che definendo qualche cosa sono io che sto definendo qualche cosa e che la mia definizione e ciò che voglio definire sono sempre nel pensiero, non sono fuori – allora scopro il concreto, cioè, quando mi scopro facente parte, per usare un termine di Heidegger, del mondo di cui sono fatto. …dal pensiero che è pensato abbiamo fatto passaggio al pensiero che pensa. Il quale non è estraneo pertanto al pensiero pensato; ma neppure si confonde con esso. Anzi tutta la logica dell’effettivo pensiero si regge sulla distinzione di pensato e pensare. Abbiamo detto infatti che A = A è Io = Io. Ma non bisogna intendere superficialmente questo duplice ragguaglio. Io = Io è la concretezza di A = A, che, nella sua astrattezza, resterebbe inintelligibile, come relazione immediata;… Questo passaggio è importante. Dice che A=A non significherebbe niente se non ci fossi io in quanto io a dire A=A, a pensare questa cosa. …ed è l’Io che, intervenendo nella relazione, la media, e la rende quindi pensabile, ossia vera relazione. Quindi, quand’è che c’è vera relazione? Quando c’è qualcuno che la pensa, cioè, quando ci sono io che la penso. La relazione, ci sta dicendo, non è un ente di natura, la relazione è un concetto, è un pensiero. La relazione esiste nel momento in cui io penso la relazione. Ora, relazione che esista immediatamente, non c’è; se ci fosse, la relazione immediata che è A = A, esisterebbe, e non sarebbe niente di astratto. La sua astrattezza importa appunto che da sé la relazione immediata non esiste, ed esiste soltanto mediandosi, e facendosi Io = Io. Ma questa relazione, che esiste in quanto è mediazione o libera riflessione, cioè Io, appunto perché mediazione, è, per dir così, se stessa e il suo opposto: mediazione e immediatezza, Io e non-Io, libertà e meccanismo, logo concreto e astratto, in uno. L’Io non è altro che l’autocoscienza di cui parla Hegel. Dice bene perché, in effetti, A=A di per sé non significa assolutamente niente. Qualcosa incomincia a significare quando io mi accorgo che sto pensando. Solo a questo punto, nel momento in cui penso, io posso porre una relazione; se non penso, non esiste A=A, non esiste niente. E questo non è irrilevante, l’incominciare a considerare che ciascuna cosa è in quanto è pensabile, ma pensabile da me, sono io che la penso: pensandola, la relazione è relazione. A questo punto posso anche pensare che la relazione esista di per sé; anzi, molti lo pensano. Ma il pensare questo è un altro mio pensiero, che riguarda la relazione solo in quanto pensata da me. Ci sta dicendo che le cose non esistono in natura. Paragrafo 8. Necessità della mediazione. Chi infatti non si arresti al logo astratto, che è la sostanza di tutta la logica tradizionale, ripugna naturalmente a credere che con quella logica si possa pensare. Il logo astratto nella sua identità o circolarità, cioè nella sua oggettività, fissato nella sua astrattezza, è una verità perfetta, nella quale il pensiero una volta entrato posa e rimane irremovibile: vi si immedesima esso stesso, come abbiamo notato. È l’ideale della beatitudine trascendente. È l’ideale platonico della contemplazione sinottica dell’intero mondo delle idee, ed è anche l’ideale, o l’apparente ideale, della scienza esatta. Una sorta di circolo d’Orbilio. Ma, posto pure che il pensiero non avesse nessuna ragione per aspirare quando che sia ad uscire dal circolo (nel fatto, a quanto pare, i concetti sono più d’uno, ed è perciò natura del pensiero di non chiudersi mai in nessun circolo), resterebbe sempre una difficoltà insormontabile al pensiero: come entrare nel circolo, se non ci si è fin da principio? Questa è la questione posta da Hegel sin dalla Prefazione: come posso cercare la verità se la verità non c’è già, se non è già qui? Come la raggiungo e attraverso che cosa? Attraverso tutti i passaggi? E come so che questi passaggi sono veri? È il problema del terzo uomo di Aristotele: c’è l’uomo e l’uomo che io vedo, che penso. Però, ci vuole un terzo uomo che faccia da tramite, e poi ce ne vuole un altro che faccia da tramite al tramite, ecc. Platone con l’innatismo spostò, non eliminò la difficoltà: se ci siamo dentro ab æterno, e non lo sappiamo (se n’è ottenebrato il ricordo, com’ei diceva), come fare per cominciare a saperlo, ed entrare davvero? La logica dell’astratto perciò è sterile. E meglio sarebbe dire che è impossibile, se non si integra con quella logica che con la sua fecondità le dà vita e funzioni imprescindibili nell’effettivo pensiero. Allude ovviamente alla logica del concreto. Paragrafo 9. Valore dell’immediato. L’oggetto del pensiero è sterile; l’abbiamo detto: la creatura non crea. Pure, malgrado la sua sterilità, anzi grazie alla sua sterilità, esso è coefficiente di vitale importanza nella generazione eterna del pensiero pensante e creatore: poche in esso, così sterile, chiuso in sé, determinato, fermo, saldo come diamante, si specchia l’Io, e specchiandovisi vive ed è Io. Guai se l’oggetto stesso, come tale, avesse la mobilità e la vita eternamente inquieta dell’Io! Non ci sarebbe Io, e ogni realtà insieme con questo sprofonderebbe nell’abisso senza fondo del nulla. Ci sta dicendo qui una cosa molto semplice: abbiamo bisogno dell’astratto per determinare qualcosa, perché se l’oggetto non fosse determinabile noi non potremmo pensare niente, non avremmo nulla su cui appoggiare il piede per fare un passo oltre. Tutto sarebbe assolutamente impensabile, addirittura sarebbe come l’essere di Parmenide, impensabile, sarebbe nulla. Ecco, quindi, il precipitare nell’abisso senza fine; non ci sarebbe neanche l‘abisso, sarebbe impensabile anche quello, a dirla tutta. Il pensiero vive abbracciandosi alla colonna adamantina del vero: e ha bisogno di essa come di sostegno affatto indispensabile. Eterno inquieto, non turbina nel suo astratto movimento (che non sarebbe tale, anzi l’opposto), ma fluisce e s’incorpora in una quiete eterna. Eterno insoddisfatto, vagheggia sempre la sua creatura che è perfezione intera e interamente appagante. Il pensiero che vagheggia la sua creatura… Lo diceva qualche capitolo fa, facendo l’esempio del bambino che insegue ciò che costruisce, vuole il suo giocattolo, ma questo suo giocattolo, che sarebbe metaforicamente l’astratto, non è mai appagante perché il concreto lo supera sempre, va sempre oltre, è sempre di più, e quindi ha bisogno di un altro giocattolo, all’infinito. E quello che ha lo distrugge, perché ha mentito, e ha mentito perché non ha soddisfatto, non ha mantenuto la promessa che aveva fatta di appagamento totale. Questa la nostra vita: anche il vero, che dia la gioia di un istante nella rapida vicenda del nostro spirito (e il vero in fondo è sempre quello di un istante) Io cogliamo, appena ci sfiori l’animo, e lo abbracciamo come la vita stessa del nostro spirito, verità che è verità assoluta,… Qui sta dicendo come in effetti tutto sarebbe transeunte se non ci fosse il determinabile e il determinato, cioè, qualcosa di fermo, di stabile. Il pensiero ha bisogno di abbracciare qualcosa di solido, di fermo, di adamantino, perché sennò crolla, non c’è pensiero. È la questione del cominciamento: devo partire da qualche cosa. Da cosa partiamo noi? Dal fatto che stiamo parlando. Anche Gentile, in fondo, parte da questo, dal fatto che stiamo pensando. Parte da qui, ma dicendo che parto dal fatto che sto pensando, già ho inserito anche il pensato, ho prodotto già il pensato, perché il fatto che sto pensando è un pensato. Gentile si accorge che il pensato, che c’è e non può togliersi, in ogni caso è inserito nel pensante, e che non c’è un pensato senza un pensante. Quindi, se c’è il pensato, come punto di partenza, è perché c’è un pensante. Paragrafo 10. Unità del logo astratto e del logo concreto. Sottraete il logo astratto al suo nesso col logo concreto, e avrete l’antica logica dell’essere, che non è spirito. Rannodate il primo logo al secondo, e avrete una logica assoluta, che non nega né l’astratto pel concreto, né il concreto per l’astratto; ed è perciò la logica del vero concreto, lo spirito. La logica dell’essere conosce solo il logo astratto; la logica dello spirito alloga l’astratto nel concreto, e facendo scaturire l’identico dal diverso, la fermezza del pensato dal movimento del pensare, non ha bisogno di trascendere lo spirito e la sua storia per attingere quella verità,… Cioè: attinge la fermezza del pensato, quindi il punto di partenza, dal movimento del pensare. Questo punto di partenza è prodotto dal movimento stesso. Prima diceva del punto e del movimento: il punto è tale in quanto è anche movimento, sennò non c’è nessun punto.