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30-12-2015

 

Nello scritto Della grammatologia Derrida incomincia rilevando che almeno da Platone in poi la scrittura ha sempre avuto una connotazione negativa rispetto alla parola, Platone nel Fedro, ma anche nella celeberrima Lettera VII, parla della scrittura come di qualche cosa che non ha la vivezza, la forza della parola parlata, infatti Platone dice che è nel dialogo che si apprende, si impara, la scrittura invece è morta, se la si interroga non risponde. Questa considerazione della scrittura è durato fino a Derrida praticamente, infatti lui cita una serie di personaggi che criticano la scrittura in vario modo. Secondo Derrida la scrittura non è secondaria rispetto alla parola ma è originaria, cioè c’è prima la scrittura e dopo la parola, naturalmente con “scrittura” lui intende qualcosa di particolare, intende la scrittura come “archi traccia” (da ρχή “originario”) comunque lo vedremo nel prosieguo. Parla dell’esteriorità del significante, ciò che si manifesta, l’interiorità invece è il dialogo interiore, siamo sempre tra “interno/esterno”: L’esteriorità del significante è l’esteriorità della scrittura in generale (la scrittura rappresenta sì il significante ma è esterno al significante stesso) e più avanti cercheremo di dimostrare che non c’è segno linguistico prima della scrittura, senza questa esteriorità cade in rovina l’idea stessa di segno (cioè senza la scrittura) considerando che tutto il nostro mondo e tutto il nostro linguaggio franerebbero insieme ad essa e che la sua evidenza e il suo valore servono ad un dato punto di derivazione una solidità indistruttibile, sarebbe abbastanza sciocco dalla sua appartenenza ad un epoca concludere che si deve passare ad altro e sbarazzarsi del segno, di questo termine, di questa nozione (la scrittura è precedente al segno, però questo non vuol dire che togliamo di mezzo il segno) La voce intende se stessa (quando parli tu ti intendi in genere), non c’è dubbio che si tratti di ciò che si chiama la coscienza (discorso interiore) nel suo punto meno distante da sé come la cancellazione assoluta del significante (nel momento in cui la voce intende se stessa si trova nel punto meno distante da sé, come nella cancellazione assoluta del segno) cioè pura auto affezione che ha necessariamente la forma del tempo e che non trae da fuori di sé nel mondo e nella realtà alcun significante accessorio, alcuna sostanza di espressione estranea alla propria spontaneità (questo è ciò che accade nel momento in cui ti parli a te) è l’esperienza unica del significato che si produce spontaneamente dall’interno di sé e non di meno in quanto concetto significato nell’elemento dell’idealità o dell’universalità (dice che il significante nel dialogo interiore è la coscienza, è la voce che intende se stessa, tuttavia in quanto concetto significato immediatamente presente questo concetto è ideale, non è presente nel mondo, il concetto è ideale, è universale, quindi c’è qualche cosa che è assolutamente presente a sé ma anche qualche cosa che non è presente a sé) il carattere non mondano (cioè non esteriore) di questa sostanza d’espressione è costitutivo di questa idealità (questo ideale, questo concetto, cioè il significato non è mondano se fosse mondano, se fosse cioè una cosa del mondo, concreta, reale muterebbe continuamente così come cambiano le cose del mondo che divengono, invece il significato è quello che è, in questo senso “ideale”però il fatto di porlo come ideale significa già non porlo lì dove c’è la parola detta, c’è la parola detta ma c’è anche qualche altra cosa che non è propriamente lì, in ciò che si sta dicendo, diciamo che trascende la parola, è qualcosa che è ideale, un concetto, un significato) questa esperienza della cancellazione del significante nella voce non è un illusione fra altre poiché è la condizione dell’idealità stessa di verità, vi mostreremo però in un altro modo di che cosa essa si illude (parlando il significante che dico, mentre lo dico, è come se si cancellasse, è come se svanisse, svanisce nella voce perché la voce è qualche cosa di concreto, di “mondano”. Derrida sta dicendo che il fatto che il significante si cancelli nella voce è la condizione della verità, cioè il significante, la mondanità che si cancella nella voce, perché questa voce si porta appresso il significato ovviamente, è la condizione della verità, il fatto che il significante sia qualcosa di mondano quindi di concreto, quindi di qualcosa che accade qui e adesso deve cancellarsi perché possa sussistere l’idealità, il significato. Ci troviamo qui in presenza di due cose: il significante che è concreto, che è reale, che è immanente, che è qui hic et nunc, e del significato che invece non c’è, non è lì mentre lo dico. Questo significato è ideale, trascende il significante, quindi dice Derrida il significante si cancella a vantaggio del significato, ma questa illusione è la storia della verità perché la cancellazione del significante a vantaggio del significato è un’illusione in realtà, non è che scompare, rimane, l’illusione è che il significante si cancelli a vantaggio del significato cioè che il significato compaia per quello che è senza significante, il significante si è tolto, cioè la sonorità, come direbbe De Saussure “l’immagine acustica”, questa impronta che tu senti, l’ideale è di cancellarlo a vantaggio del significato che rimane lì puro, senza il significante, cioè senza qualche cosa di mondano, di immanente. Questo è il motivo per altro di tutte le critiche alla scrittura, perché la scrittura immette qualche cosa di concreto, di mondano, da cui dovrebbe trarsi invece qualche cosa di ultra mondano: è il significato) nella chiusura di questa esperienza la parola è vissuta come l’unità elementare che indecomponibile del significato e della voce, del concetto e di una sostanza di espressione trasparente, questa esperienza verrebbe considerata nella sua maggiore purezza e al tempo stesso nella sua condizione di possibilità come esperienza dell’essere (lui parla di una chiusura dell’esperienza, di una chiusura in quanto è come se si compisse un processo, significante\ significato, se questi due elementi si fissano, si inchiodano l’uno all’altro ecco che allora si avrebbe quell’accesso all’essere, alla cosa stessa. Se anziché parlare del significante\ significato parliamo di ente e di essere come faceva Heidegger per esempio, allora si intende che l’ente, cioè il significante, per essere quello che è necessita dell’essere, cioè del significato, se io intendo in modo preciso qual è il significato colgo l’essere, colgo cioè che cos’è una cosa, perché il significato è il che cos’è veramente una cosa) la parola “essere” o in ogni modo le parole che nelle differenti lingue designano il senso dell’essere sarebbe insieme ad alcune altre la parola originaria (la prima parola, quella che dice l’essenziale, l’essere) la parola trascendentale che garantisce a tutte le altre parole la possibilità dell’essere parola (cioè è quella parola trascendentale che non è qui e adesso ma che allude a un qualche cosa che deve essere la cosa fondamentale, che decide di tutto) essa sarebbe pre compresa in un linguaggio in quanto tale e così si apre Sein und Zeit (Essere e Tempo) solo questa pre comprensione permetterebbe di aprire alla domanda sul senso dell’essere in generale, al di là di tutte le ontologie regionali e di tutta la metafisica, domanda che inaugura la filosofia per esempio nel Sofista, per lascarsene possedere questione che Heidegger ripropone sottomettendovi la storia della metafisica (la parola “essere” sarebbe la parola di tutte le parole, quella che dà un senso a tutte le parole perché ciascuna parola è qualche cosa, e quindi se so che cos’è “essere”, so che cos’è tutto quanto, e quindi sarebbe come dire che quando conosco il significato delle cose a questo punto ho il significato di tutto e il significato è l’essere, da qui tutta la ricerca filosofica della metafisica e questa sarebbe, questa conoscenza dell’essere, sarebbe una “pre comprensione” (Heidegger) perché è attraverso la comprensione dell’essere che è possibile comprendere qualunque altra cosa. Heidegger diceva che l’essere è quello schiudersi, quell’aprirsi di un orizzonte che consente all’ente di apparire, cioè al significante di dirsi. Sta dicendo che c’è la necessità quindi del significato per incominciare a parlare, deve apparire questo significato perché i significanti possano darsi. Qui c’è un’obiezione al fatto che la parola venga prima della scrittura perché è in questa sorta di “pre comprensione” che Derrida porrà la sua traccia, la sua scrittura, la sua archi-traccia, in questa sorta di “pre comprensione” che Derrida non chiamerà più così, però dirà che questa archi-traccia è la condizione della parola, esattamente come Heidegger diceva che l’essere è la condizione perché possa apparire qualunque cosa, possa apparire un significante) Richiamiamo la definizione aristotelica “i suoni emessi dalla voce sono i simboli degli stati dell’anima e le parole scritte i simboli delle parole emesse dalla voce” (le parole sono “simboli degli stati d’animo” mentre la parola scritta, dice sempre Aristotele, è il simbolo della parola emessa dalla voce, questo dice Aristotele nel περὶ ἑρμηνείας, poi cita De Saussure:) Linguaggio e scrittura sono due sistemi distinti di segni, l’unica ragione d’essere del secondo (la scrittura) è di rappresentare il primo (De Saussure qui pone la parola parlata come prioritaria rispetto alla scrittura, la scrittura è soltanto un modo di rappresentare il primo, cioè la parola parlata, qui è di nuovo Derrida che parla) questa determinazione rappresentativa oltre il fatto di comunicare senz’altro essenzialmente con l’idea di segno non traduce una scelta o una valutazione, non traduce una presupposizione psicologica o metafisica propria di De Saussure ma descrive o piuttosto riflette la struttura di un certo tipo di scrittura cioè la scrittura fonetica (quella che fai tu quando scrivi) quella di cui ci serviamo è un elemento della quale l’episteme in generale scienza e filosofia e la linguistica in particolare hanno potuto instaurarsi (senza la scrittura sicuramente non ci sarebbe stata la scienza) d’altronde bisognerebbe dire modello piuttosto che struttura, non si tratta di un sistema costruito funzionante perfettamente ma di un ideale che dirige esplicitamente un funzionamento che di fatto non è mai interamente fonetico, di fatto anche per ragioni di essenza su cui ritorneremo spesso (perché, di fatto non è mai un funzionamento interamente fonetico? Perché nella scrittura ci sono gli spazi, ci sono le interpunzioni, e questo modello, questo funzionamento non è mai interamente fonetico, quindi non è come dice De Saussure che la scrittura è una rappresentazione della parola parlata, no, dice Derrida, perché nella scrittura ci sono cose che nella parola parlata non ci sono, sono segni che non hanno voce. Ciò che dico, mentre lo sto dicendo non ha nessuna pausa, non c’è stato nessuno spazio tra una parola e l’altra. Quindi non ha torto a dire che non è mai interamente fonetico questo modello di scrittura, la parola non rispecchia mai esattamente la scrittura e viceversa, quindi incomincia a insinuare tra le due cose una differenza) Anche se la parola è a sua volta articolata, anche se implica altre divisioni tanto che si porrà la questione dei rapporti tra parole e scrittura nel prendere in considerazione delle unità indivisibili nel pensiero suono, la risposta sarà subito pronta, la scrittura sarà fonetica essa sarà il fuori, la rappresentazione esterna del linguaggio e di come questo pensiero suono (“la scrittura fonetica sarà il fuori” sempre, comunque, quindi si tratterà a un certo punto di cogliere la differenza tra il dentro e il fuori, cosa fondamentale per Derrida, giungerà a dire che questa differenza non è colmabile, mai in nessun modo) ciò che può guardare se stesso non è uno, e la legge dell’addizione dell’origine e la sua rappresentazione della cosa alla sua immagine è che uno più uno, fa almeno tre (chi ha frequentato Verdiglione si ricorderà di questa cosa, cioè tu ti guardi allo specchio e siete in tre, ci sei tu, l’immagine che vedi, potremmo dire con Derrida la differenza tra te che guardi e l’immagine che vedi, per Verdiglione questo “terzo” è l’Altro, freudianamente l’inconscio. Qui sta parlando dei limiti tra questo pensiero che cerca di trascrivere, pensare che la scrittura non sia nient’altro che la trasposizione del parlato) questi limiti hanno già cominciato ad apparire perché un progetto di linguistica generale concernente il sistema interno in generale della lingua in generale (quindi una linguistica generale) disegna i limiti del suo campo escludendo come esteriorità in generale un sistema particolare di scrittura (qualunque teoria generale del linguaggio evita, esclude la scrittura, qualunque trattato di linguistica generale non parla della scrittura se non in modo molto sommario e comunque come una rappresentazione simbolica del parlato, come voleva de Saussure, come voleva già Aristotele) un sistema particolare (la scrittura) che ha appunto come principio o almeno come progetto dichiarato di essere esterno della lingua parlata (perché mentre leggo quello che c’è scritto è esterno a me) dichiarazione di principio, pio desiderio e violenza storica di una parola che sogna la sua piena presenza a sé, che vive se stessa come il proprio riepilogo, storicamente la parola vorrebbe essere presente a sé, la parola che si sente, che sente se stessa, piena tutta presente qui e adesso, (cosa vuole fare questa parola per essere piena, presente e qui e adesso? Per Derrida deve escludere la scrittura, cioè eludere ciò che è estraneo alla parola) dunque linguaggio sé dicente, autoproduzione della parola cosiddetta viva, capace, diceva Socrate, di portarsi assistenza da sé stessa, logos che crede di essere padre di sé stesso elevandosi così al di sopra del discorso scritto, l’infans è malato per non saper rispondere quando lo si interroga e che avendo sempre bisogno dell’assistenza del padre (come dire che la parola scritta ha sempre bisogno dell’assistenza del padre, ha sempre bisogno della parola parlata, non ce la fa da sé) deve essere dunque nato da una cesura e da un’espatriazione originarie che la destinano ad errare, all’accecamento e al lutto, linguaggio sé dicente ma parola che si illude credendosi assolutamente viva e violenta per non essere capace di difendersi se non scacciando l’altro ed anzi tutto il suo altro (che a questo punto ovviamente è la scrittura, il suo altro della parola, questo altro che la parola deve eliminare per essere parola piena, per essere parola certa, per essere parola che si produce da sé “sé dicente” appunto che si dice) ma per quanto importante sia fosse anche di fatto universale o chiamato diventarlo quel modello particolare che è la scrittura fonetica non esiste (non esiste cioè la scrittura che traduca il parlato, che lo traduca perfettamente) mai una pratica è fedele in modo puro al suo principio, ancor prima di parlare come faremo più avanti di una infedeltà radicale e necessaria a priori, se ne possono già notare i fenomeni massivi nella scrittura matematica o nella punteggiatura, nella spaziatura in generale che è difficile considerare come semplici accessori della scrittura (perché nella scrittura sono fondamentali) che una parola detta viva possa prestarsi a una spaziatura nella propria scrittura è proprio ciò che la mette originariamente in rapporto con la propria morte (se una parola viva per potersi assoggettare alla scrittura deve inserire una spaziatura questa la mette in rapporto con la propria morte, cioè con il proprio annullamento) infine l’usurpazione di cui parla De Saussure, la violenza con cui la scrittura si sostituirebbe alla propria origine (che è la parola parlata) a ciò che dovrebbe, non solo, averla generata ma essersi generato da sé (la parola parlata) un tale rovesciamento di potere non può essere un’aberrazione accidentale, ciò che De Saussure non interroga è la possibilità essenziale della non intuizione, come Husserl Saussure determina teleologicamente (teleologico è un discorso dei fini, τέλος “fine”, quindi teleologico sarebbe tutto ciò che si dice intorno ai fini di qualche cosa) questa non intuizione come crisi il simbolismo vuoto della notazione scritta nella tecnica matematica per esempio (pensate ai simboli una “A” o un “~”, una “B”, o un “É”, c’è qualcosa di intuitivo qui?) e anche per l’intuizionismo husserliano ciò che ci esilia lontano dall’evidenza chiara del senso cioè dalla presenza piena del significato nella sua verità e apre così la possibilità della crisi (c’è la parola, la parola detta “se A allora B” (A É B), qual è il senso pieno di questa espressione? È difficile a dirsi, qui si apre una crisi tra l’idea che la parola parlata “sé dicente” sia la parola piena, sia la parola che significa, sia la parola tutta e dice “questo è esattamente la crisi del logos” la crisi del discorso, della parola) ciò non di meno questa possibilità rimane legata per Husserl al movimento stesso della verità e alla produzione dell’oggettività ideale, essa infatti ha un bisogno essenziale della scrittura /…/ Occorre pensare ora che la scrittura è a un sol tempo più esterna alla parola non essendo la sua immagine o il suo simbolo e più interna alla parola che è già in se stessa una scrittura (quindi sta incominciando a dire che la scrittura è qualcosa di esterno alla parola, pur non essendo né la sua immagine o il suo simbolo, perché abbiamo visto che non è l’immagine della parola parlata la scrittura, perché la scrittura contiene cose che nella parola parlata non ci sono, e dice anche “più interna” alla parola che è già in se stessa una scrittura, perché dice questo?) ancor prima di essere legato all’incisione, all’impressione, al disegno o alla lettera o a un significante che rinvia in generale a un significante da esso significato, il concetto di grafia implica come possibilità comune a tutti i sistemi di significazione l’istanza della traccia istituita, il nostro sforzo tenderà ormai a strappare lentamente questi due concetti al discorso classico dal quale necessariamente lo prendiamo (sta dicendo che la scrittura è esterna alla parola, in quanto rappresentazione, ma è anche interna alla parola che è già in se stessa una scrittura, perché dice che è già in se stessa una scrittura? Cosa sta scrivendo la parola mentre io la dico? Lo dice chiarissimamente: “il concetto di grafia implica l’istanza della traccia istituita” c’è una traccia che è istituita perché io possa dire delle cose, queste cose seguono a qualcosa che è già istituito, è la pre-comprensione se volete dirla così, quindi qualche cosa si è già istituito e se si è istituito c’è una grafia, c’è una struttura, cioè qualcosa che si può tramandare, qualcosa che quindi non è più dipendente dalla mia voce in questo istante. Qualche cosa è già scritto perché io possa dire, perché io per dire devo già conoscere delle cose, devo già sapere qualche cosa che deve essersi già scritto, essersi già istituito perché io lo possa conoscere e quindi io lo possa sapere. Quindi incomincia a dire che anche nella parola parlata c’è la scrittura, c’è comunque, c’è nella parola scritta che abbiamo visto che comunque non coincide mai con la parola parlata, ma c’è anche nella parola parlata perché la parola parlata non può esimersi da questa traccia istituita, se volete dirla in modo più spiccio, la parola parlata non è che venga dal niente, viene da qualche cosa) la traccia istituita è immotivata (questa traccia istituita non è altro che la barra tra significante e significato, è quella la traccia istituita e cioè la differenza tra significante e significato, ciò che consente quindi la costruzione del segno, è questo che deve già essere istituito, per questo lui tra poco lo porrà come l’“archi-traccia”) è immotivata ma non è capricciosa (la traccia istituita) come la parola “arbitrarietà” di De Saussure essa non deve far pensare che il significante dipenda dalla libera scelta del parlante (no, non è che tu usi un significante così a caso, se vuoi un bicchiere d’acqua chiedi un bicchiere d’acqua e non che ore sono, quindi c’è un’arbitrarietà, certo chiamare acqua quella cosa che ti disseta è arbitrario, infatti si può chiamare anche “water” o “Wasser”, quindi non dipende dal capriccio del soggetto parlante l’utilizzo di un significante, e allora l’arbitrarietà in che cosa consiste? semplicemente dice) essa non ha nella realtà alcun aggancio naturale col significato (la parola acqua o Wasser non hanno un aggancio naturale con quella cosa che bevi ovviamente) la rottura di questo aggancio naturale rimette secondo noi in questione l’idea di “naturalità” più di quella di aggancio, per questo la parola “istituzione” non deve essere interpretata troppo in fretta nel sistema delle opposizione classiche (ci sta dicendo che non c’è nessuna naturalità tra la parola e il suo significato, tra significante e significato non c’è niente di naturale e poi ci sta dicendo che la parola “istituzione” di cui abbiamo detto prima va presa un po’ con attenzione, vediamo perché) non si può pensare la traccia istituita senza pensare la ritenzione della differenza in una struttura di rimando in cui la differenza appaia come tale e permetta così una certa libertà di variazione tra i termini pieni (quindi dice che è questa barra tra significante e significato che permette il movimento tra le parole, perché questa differenza tra significante e significato definisce il segno e il segno è ciò che rimanda a qualche cos’altro, però ci dice che questa differenza non può non essere ritenuta, cioè non può mantenersi in definitiva, ma ci deve essere sempre questa differenza, non può togliersi questa differenza, senza la differenza non c’è più segno, senza segno non c’è rinvio, senza rinvio non c’è parola) L’assenza di un altro hic et nunc di un altro presente trascendentale, di un’altra origine del mondo che appaia come tale, che si presenti come assenza irriducibile nella presenza delle tracce non è una formula metafisica sostituita ad un concetto scientifico della scrittura (sta dicendo che c’è un’assenza nella parola parlata, che non è tutta, che non riesce a essere completamente rappresentata e significata) oltre a essere la contestazione della metafisica stessa descrive la struttura implicata dall’arbitrarietà del segno dal momento che se ne pensa la possibilità al di qua dell’opposizione derivata fra natura e convenzione, simbolo e segno (assenza di una presenza immanente, non c’è la presenza immanente, la presenza immanente è quella che cercava Husserl, cioè la cosa in sé, presente, tutta qui e adesso, senza nessuna interferenza, senza nessuna mediazione, sarebbe la parola tutta, la parola che dice la cosa, sarebbe l’Essere) L’immotivazione del segno richiede una sintesi in cui il totalmente altro si annuncia come tale senza alcuna semplicità, alcuna identità, alcuna rassomiglianza, alcuna continuità in ciò che non è esso stesso (dice che il motivo per cui a un significante corrisponde un significato non è calcolabile, non procede da un qualche cosa di naturale, nella immotivazione che ha mostrato per primo De Saussure tra significante e significato, lì si insinua la crisi stessa del logos, cioè tutta quella serie di considerazioni e di operazioni che hanno portato Derrida in particolare alla decostruzione di tutto il pensiero: se c’è arbitrarietà nel segno e cioè a un significante corrisponde un significato arbitrariamente, come dice lui “immotivatamente”. L’idea originaria era di trovare quel significante che avesse un significato, è l’idea husserliana di inchiodare il significante al significato, come se il segno non fosse più immotivato ma fosse motivato, da che? Questa è una bella domanda, per Husserl si riusciva, almeno fantasmaticamente, riusciva quell’operazione quando riusciva a cogliere la semplice presenza immediata di qualche cosa applicando la riduzione, l’eliminazione di tutto ciò che poteva costituire un mezzo, un tramite tra me e la cosa, togliendo via tutto si sarebbe potuta raggiungere la cosa stessa immediatamente, quindi cancellando il segno, il segno a questo punto non c’è più. L’intendimento di Husserl era di eliminare il segno, perché il segno è la mediazione, la mia percezione della cosa è sempre mediata, è sempre differita, è sempre rinviata, quindi non percepisco mai la cosa per quello che è ma sempre come altra) l’immotivazione del segno si annuncia come tale, qui c’è tutta la storia a partire da ciò che la metafisica ha determinato come non vivente fino alla coscienza passando per tutti i livelli dell’organizzazione animale ()La traccia in cui si segna il rapporto all’altro articola la sua possibilità su tutto il campo dell’ente che la metafisica ha determinato come ente presente a partire dal movimento occultato dalla traccia (dice che la traccia è la condizione, cioè l’articolazione, la traccia intendetela come il segno di De Saussure “significante-barra-significato” quindi questa traccia articola la possibilità su tutto il campo dell’ente, cioè è la condizione di ogni parola, ogni ente, di qualunque cosa, di ogni pensiero. La metafisica per trovare ciò che è immediatamente presente ha dovuto cancellare la traccia, ha dovuto cancellare questa barra, ha dovuto cancellare l’arbitrarietà del segno perché se il segno è arbitrario la presenza immediata della cosa non ci sarà mai, perché sarà sempre mediata, differita, spostata, rinviata a qualche altra cosa all’infinito. Derrida dice: “la traccia quindi la possibilità di qualunque cosa in base a tutto questo bisogna pensare alla traccia prima dell’ente” perché a questo punto è chiaro che per Derrida la traccia è la condizione dell’ente, perché l’ente non si può manifestare in quanto semplice presenza a sé, abbiamo visti tutti i fallimenti di questa operazione, è il fallimento della metafisica né più né meno, quindi si presenta all’interno del segno, ma perché ci sia segno occorre che ci sia la barra. Dunque questa barra, questa traccia è la condizione del segno, cioè dell’ente, la traccia è la condizione dell’ente. Qui si incomincia a vedere la posizione di Derrida in modo più preciso, infatti dice) il movimento della traccia è necessariamente occultato, si produce come occultamento di sé (questo è ciò che avviene parlando, cioè questa traccia, questa barra, si produce nel momento in cui si occulta, perché questa barra non si dice, non è dicibile, non è pronunciabile. È un po’ come pronunciare lo spazio tra una parola e l’altra, questo è l’esempio che fa lui, puoi dire, pronunciare lo spazio fra una parola e l’altra? Con quale parola dirai questo spazio? Non c’è la parola per dirlo, non c’è la parola per dire l’Essere, questo già Heidegger lo diceva infatti quando scriveva l’essere, Sein lo barrava, si dice ma in realtà non si può dire, è ciò che dicendosi si sottrae. Diceva Heidegger che l’Essere è ciò che permette all’ente di apparire, perché senza l’Essere l’ente non appare, perché l’Essere è l’orizzonte che consente l’apparire dell’ente. La barra è un po’ la stessa cosa, è quella cosa dalla quale si produce il significato delle cose, si produce il segno, ma così come l’Essere non si può dire, puoi dirlo certo, dici “essere” perché non hai un’altra parola, Heidegger l’ha cercata un’altra parola, perché questa parola “essere” sia detta in italiano, in tedesco, in greco eccetera è comunque una parola che viene dalla metafisica, è una parola metafisica e lui voleva una parola che non fosse una parola metafisica, ma quale? Non c’è, e in effetti anche Derrida alla fine dice che non esiste questa parola, non c’è, sarebbe come trovare quella parola che dice la barra, dice ciò che non può dirsi perché scompare dicendosi, così come l’Essere scompare nel momento in cui appare l’ente. Ciò di cui stiamo dicendo è che c’è un qualche cosa, adesso non diciamo che cosa, che è la condizione per il darsi di altre cose, ma questa cosa non si riesce a individuare.  È l’idea del trascendente di Platone, ci sono gli enti e poi c’è l’essere; perché questo ente è quello che è? Come fa a essere quello che è? Perché c’è l’essere che garantisce all’ente la sua enticità, cioè il suo essere ente, come dire che c’è sempre un qualche cosa che non c’è, che è trascendente quindi, ma senza il quale non potrebbe esserci ciò che è presente. Dopo tutto è questo che continuano a dire tanto Heidegger quanto Derrida, in modo differente, ma si tratta sempre di questo, di dare voce a questa cosa che non si riesce a dire. Questa archi-traccia tra significante e significato, questa barra tra significante e significato è la condizione del segno, ma come la dico? Eppure c’è, perché se non ci fosse non ci sarebbe il segno, se non ci fosse il segno non potremmo parlare.