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30-12-2014

 

L’essere, la “φύσις” proprio per il fatto che consiste nell’apparire, nell’offrire degli aspetti e delle prospettive può in base alla sua stessa essenza e per conseguenza in modo necessario e permanente, rendere possibile un’evidenza che in realtà occulta e cela quella che è la verità dell’essente ossia quello che l’essente è nella sua non latenza. (non latenza: αλήθεια letteralmente) Tale modo di prospettarsi dell’essente è l’apparenza (che è diverso dall’apparire) nel senso di sembrare (appunto) laddove sussiste la non latenza (sempre l’αλήθεια e cioè la verità) dell’essente c’è anche la possibilità dell’apparenza e viceversa, laddove l’essente si trova nell’apparenza e vi si mantiene a lungo e sicuramente l’apparenza può sempre infrangersi e cadere (sta dicendo che l’apparenza, cioè il sembrare delle cose è connesso direttamente con l’apparire delle cose). Con la parola “δόξα” vengono designate molte cose: la considerazione in quanto “gloria” (è poco usato in italiano che si parli della δόξα in questa accezione) 2) il semplice aspetto offerto da una cosa 3) l’esser considerato nel senso di avere soltanto l’“aria di …” ossia l’apparenza come semplice apparenza 4) il punto di vista che uno si forma al riguardo l’opinione (che è il modo più usato e più corrente di intendere δόξα anche nelle traduzioni. Vediamo perché introduce questa δόξα, parla di apparenza è ovvio) Questa pluralità di significati non discende da una perfezione della lingua ma è un gioco profondamente radicato nella maturata saggezza di una grande lingua (greco antico) nella cui parola si custodiscono tratti essenziali dell’essere, qui per potere fin da principio una giusta visione delle cose bisogna guardarsi dall’assumere sbrigativamente l’apparenza come qualcosa di puramente immaginato, di soggettivo falsandola, bisogna invece tenere soprattutto presente che come l’apparire anche l’apparenza appartiene all’essente stesso (non all’essere ma all’essente, ora qui c’è una piccolissima cosa che lui dice ma a mio avviso abbastanza importante) Questa pluralità di significati non discende da una perfezione della lingua ma è un gioco profondamente radicato nella maturata saggezza della grande lingua nella cui parola si custodiscono tratti essenziali dell’essere (questo è importante, è importante perché è la matrice di buona parte del pensiero di Heidegger cioè l’idea che in quelle parole antiche, alcune parole come “ φύσις” “λόγος” “αλήθεια” eccetera in queste parole antiche si custodisca qualcosa dell’essere, dentro a queste parole (criptato?) criptato fino a un certo punto perché se lo fosse del tutto lui non ne avrebbe accesso, però c’è da dire che queste parole antiche di 3000 anni grosso modo che significato hanno esattamente? si tratta cioè di pensare di avere determinato, individuato un significato di una parola o meglio di avere individuato il significato che quella parola aveva tremila anni fa. è un compito arduo ovviamente, come facciamo a sapere con certezza quale fosse il significato? Ovvio che esiste una filologia, esiste una scienza nota come etimologia eccetera che per vari sincretismi e encatalisi – l’encatalisi è quella operazione che i linguisti compiono quando traggono dalle parole circostanti il significato di una parola che sta in mezzo, che non c’è che è mancante per esempio nelle epigrafi c’è un coccetto con delle parole latine, ne manca una, questa che manca è facilmente desumibile dal contesto, questo procedimento è noto come encatalisi. Ecco quindi questa operazione è un’operazione che potremmo anche indicare come fantasmatica e cioè è un’idea quella che dice ad Heidegger che quella parola significava esattamente questo, non soltanto ma che in quella parola c’è l’essere. Ovviamente lui non mette mai in discussione una cosa del genere, se l’avesse fatto questo gli avrebbe creato non pochi problemi in tutta la sua opera, perché a questo punto avrebbe dovuto rendere conto del perché immagina che quella parola di tremila anni fa avesse esattamente quel significato che vuole lui (dove l’ha saputo?) dove l’ha saputo questo avrebbe potuto rispondere facilmente ma il fatto di sapere che è così non garantisce che fosse proprio così.) (sempre parlando dell’apparenza dice:) Pensiamo al sole esso sorge ogni giorno, solo una minima quantità di astronomi, fisici, filosofi e anche questo solo in base a un particolare punto di vista per loro più o meno familiare, sperimentano immediatamente questo stato di cose in maniera diversa ossia come un movimento della terra intorno al sole, tuttavia l’apparenza che assumono il sole, la terra, per esempio la campagna all’alba, alla sera, alla notte eccetera è pur sempre un apparire, questa apparenza (non apparire, ma apparenza) non è nulla e non è nemmeno non vera, (il modo in cui mi appare il sole alla mattina, per esempio son di buon umore e mi appare in un modo, sono di cattivo umore e mi appare in un altro) non è neanche una semplice apparizione di rapporti di natura in realtà costituiti altrimenti, questa apparenza è storica, è storia essa stessa, è manifestata e fonda nella poesia e nel dire ed è così un aspetto essenziale del nostro mondo (c’è un altro aspetto importante del pensiero di Heidegger … dice questa apparenza è storica, cosa vuole dire? Che il modo in cui io vedo il sorgere del sole quando mi alzo la mattina, questo è storicamente determinato perché io non vedo le cose come sono ma le vedo in base al mio “essere nel mondo” che è determinato da tutto ciò che so, tutto ciò che spero, tutto ciò che ho visto, che ho sentito, che ho ammirato, che ho detestato, tutto ciò che mi costituisce oggi come sono è un fatto storico, cioè è qualcosa che determina il mio essere in questo momento, quella cosa che Heidegger chiama “esserci” (Dasein). L’ “esserci”, (Heidegger non parla mai dell’uomo, dell’io, parla di “esserci” per lui l’uomo è “essere nel mondo”, non c’è un altro modo per Heidegger di pensare l’uomo se non come un essere nel mondo che, questa è un’altra questione di cui non parla qui perché non gli interessa, ma il modo in cui l’uomo è questo essere nel mondo, cioè questo esserci, essere qui adesso con tutto ciò che mi concerne, comporta l’essere continuamente “progettato”, l’essere un “progetto gettato” “Geworfener Entwurf”. Il “progetto gettato” è una delle principali posizioni teoriche di Heidegger, dire che l’uomo è un progetto gettato significa che l’uomo si pone è nel mondo non come un puro spettatore ma è sempre nel mondo in quanto ha qualche cosa da fare, ha un progetto, ha un’intenzione, e quindi è lì nel mondo come progetto gettato, si trova come un progetto attivo, come un qualcuno che vuole fare qualcosa, per esempio anche stare dove è, anche questo è un voler fare qualcosa, ma comunque sempre un progetto che è gettato nel mondo. Questo per dare un’idea del pensiero di Heidegger in due parole (…) si trova chiaramente ma. Dice:) I greci dovettero sempre strappare l’essere all’apparenza e proteggerlo contro di essa, l’essere è infatti come non latenza (quando parla di non latenza ne parla sempre come αλήθεια, cioè verità) solamente nel perdurare della lotta tra essere e apparenza essi sono giunti a conquistare l’essere all’essente e a condurre l’essente alla stabilità e alla non latenza. (cioè soltanto lottando contro l’apparire, contro ciò che appare sono riusciti a sganciare l’essere appunto da ciò che essere non è) gli dei e la città, i templi e le tragedie, gli agoni ginnici e la filosofia ma tutto ciò nel bel mezzo dell’apparenza dovunque in agguato assumendola seriamente, cosciente della sua potenza (è questo che secondo Heidegger di grande hanno fatto gli antichi: distinguere tra ciò che appare e ciò che è) è solo con la sofistica e con Platone che l’apparenza viene intesa come mera apparenza così declassata, contemporaneamente l’essere viene come idea (questa è un’altra delle determinazioni di Heidegger dell’essere, essere come “ φύσις” cioè come il dischiudentesi permanere, l’altra determinazione è l’idea. Ιδέα sarebbe per i greci antichi la forma, il modo in cui qualcosa si mostra, la sua forma, il suo aspetto, questa è l’idea) dunque l’essere viene come idea innalzato in luogo ultra sensibile, (quello che ha fatto Platone per esempio) viene a delinearsi così la separazione (χωρισμός) tra l’essente meramente apparente quaggiù, e l’essere reale situato in qualche luogo lassù (capite immediatamente che questo è il fondamento della religione, noi siamo qua e dio è lassù) in tale frattura – fra ciò che è quaggiù e ciò che è lassù – si stabilirà in seguito la dottrina del cristianesimo la quale reinterpreterà nel contempo il termine inferiore come “creato” quello superiore come “creatore” , con le quali armi così rifuse si rivolterà contro l’antichità, intesa come paganesimo, fino a snaturarla, Nietzsche ha dunque ragione di dire “il cristianesimo è il platonismo del popolo”. A questo punto risulta chiaro che l’apparenza compete all’essere inteso come apparire (non all’essere come essere ma all’essere come apparire, è lì che troviamo l’apparenza, cioè in ciò che appare nell’ente) l’essere come apparenza non è meno potente dell’essere come non latenza – come verità – l’apparenza si verifica nell’essente stesso e si produce assieme ad esso, ma l’apparenza non si limita a far sì che l’essente appaia quello che propriamente non è (se una cosa appare vuole dire che non è quella cosa di cui è apparenza) essa non si contenta di dissimulare l’essente di cui è apparenza ma occulta come tale se stessa in quanto si mostra come essere (è questo che fa l’apparenza si mostra nell’apparire delle cose, ma mostrandosi in questo apparire si occulta proditoriamente e si manifesta come l’essere. Dato che l’apparenza dissimula così essenzialmente se stessa (perché si dissimula? Perché si mostra come essere, sta qui l’inganno) occultando e travisando diciamo giustamente che l’apparenza inganna, questo inganno risiede nell’apparenza stessa e solo per il fatto che l’apparenza stessa inganna che può ingannare l’uomo collocandolo così in una illusione ma l’illudersi non è che uno dei modi fra gli altri per cui l’uomo si muove nel triplice mondo ove si intersecano l’essere, la non latenza e l’apparenza (non latenza, ricordatevi sempre, è “ἀ-λήθεια”) lo spazio per così dire che si dischiude nell’intersecarsi dell’essere, della non latenza e dell’apparenza (quindi ciò che emerge da queste tre istanze) lo intendo come lo sviamento o sviarsi, apparenza, inganno, illusione, sviamento sono fra di loro per ciò che concerne la loro essenza, il loro accadere in certi rapporti che sono stati per lungo tempo fraintesi ad opera della psicologia e della gnoseologia così che non siamo più in grado di coglierli e ravvisarli chiaramente nell’esserci quotidiano come delle potenze, il nostro compito era in primo luogo di far vedere chiaramente in che maniera sulla base dell’interpretazione greca dell’essere come “ φύσις” e solo a partire da ciò (“φύσις” è sempre lo schiudentesi permanere) tanto la verità nel senso della non latenza, quanto l’apparenza come modo determinato del mostrarsi schiudentesi, appartengono necessariamente all’essere.

(Ci si è dimenticati di tutto questo, l’apparenza dissimula, fa credere di essere la verità ma c’è un rapporto dice Heidegger molto stretto e antico tra l’essere, la non latenza e l’apparenza) Siccome essere e apparenza si implicano vicendevolmente - non sono la stessa cosa, si implicano – e in questo implicarsi vicendevole insieme si accompagnano e in tale accompagnarsi altresì e di continuo si possono scambiare l’uno nell’altro, donde una costante confusione e la possibilità di smarrimento e di equivoco che essi comportano, così all’inizio della filosofia. (era, così dice lui) Lo sforzo principale del pensiero è stato quello di cercare di dominare il rischio dell’essere insito nell’apparenza e di cercare di distinguere l’essere dall’apparenza. (questo è il compito della filosofia antica) Nella prima manifestazione dell’essere dell’essente (l’essere dell’essente per Heidegger è ciò che sta dietro l’essente, è l’apparire dell’essente, l’essere, questo orizzonte che consente l’apertura dell’ente e dunque il suo apparire, questa apertura, cioè l’essere non ha fondamento, è senza fondamento.) Questo cercare di distinguere l’essere dall’apparenza ha richiesto dal suo canto di far prevalere la verità come non latenza sulla latenza (cioè come non nascondimento, “latenza” è nascondimento) e lo svelare sul velare inteso come un coprire e un dissimulare preesistenti, siccome per altro ciò che si richiede è di separare l’essere dall’altro da sé (quindi ciò che diceva prima a proposito di Eraclito e Parmenide “πόλεμος”, la guerra, il combattere, l’essere per Heidegger è debitore di “πόλεμος”, perché? Perché è in guerra con ciò che è altro dall’essere, è ciò consente di distingue l’essere dal non essere) e consolidarlo come “φύσις” (consolidarlo, perché “φύσις” è il dischiudentesi permanente) avviene che con la separazione di essere e non essere compaia anche quella del non essere e dell’apparenza, anche se le due distinzioni non si corrispondono esattamente (distinzione tra essere e non essere e poi quella di non essere - apparenza. Il non essere è ciò che è altro dall’essere, ma anche ciò che è altro dall’essere. È l’apparenza, è ciò che appare, che non è l’essere, infatti se una cosa appare è perché non è) Stando così le cose in quanto all’essere dalla non latenza all’apparenza e al non essere, per l’uomo che si trova in mezzo all’essere che gli si schiude (cioè all’ente) e che sempre da tale posizione e che è in grado da rapportarsi in questo e quel modo all’essente tre vie si dimostrano necessarie, bisogna che l’uomo se vuole assumere il suo “esserci” nella chiarità dell’essere (“esserci” è essere nel mondo, nella “chiarità dell’essere” cioè tenere aperto questo orizzonte che consente l’apparire dell’ente) collochi quest’ultimo (cioè l’essere) al suo posto, lo sostenga nell’apparenza contro l’apparenza, sottraendo in pari tempo l’essere e l’apparenza all’abisso del non essere. (cioè quest’uomo che tiene aperto l’essere e come si tiene aperto questo orizzonte? Con la domanda, con il domandare, e questo lo diceva all’inizio. Dunque l’uomo, questo uomo saggio, mantiene aperto l’orizzonte dell’essere e quindi lo sostiene sia nell’apparenza, in ciò che appare, sia contro l’apparenza, cioè lo sostenga in ciò che appare nel senso che sa che ciò che appare comunque ha a che fare con l’essere, ma contro l’apparenza perché sa che l’apparenza, come diceva prima, tende a nascondere se stessa mostrandosi proditoriamente come essere, cosa che non è, “sottraendo in pari tempo l’essere e l’apparenza all’abisso del non essere” e cioè fa esistere sia l’apparenza sia l’essere, in quanto l’essere è come quell’orizzonte di cui dicevamo e l’apparenza ciò che comunque dice qualcosa di questo essere, e quindi li mantiene entrambi, chiaramente ponendoli, collocando l’apparenza nella sua giusta posizione e quindi sottraendoli all’abisso del non essere e cioè non dicendo che l’apparenza semplicemente è qualche cosa che appare, quindi non serve a niente e va buttato via, no perché comunque dice qualche cosa dell’essere) Occorre che l’uomo distingua queste tre vie e decida conformemente in pro o contro di esse. All’inizio della filosofia il pensiero non consiste che nell’apertura e nel percorrimento di queste tre vie (ed è questo il motivo per cui ad Heidegger è così cara la filosofia antica, quella pre aristotelica, pre socratica,) perché all’inizio il pensiero consiste che nell’apertura (che è questo che lui propugna) … tre vie l’essere, non latenza, apparenza (…) tale distinguere colloca l’uomo quale essere consapevole all’incrocio di queste tre vie ponendolo così nella costante de-cisione, è con questa che ha inizio precisamente la storia (cioè con questa decisione, la decisione per esempio che decide di mantenersi nell’apertura, nel domandare) è in essa e soltanto in essa che si decide altresì riguardo agli dei … Se ne desume che qui de-cisione (de-cidere è tagliare, come uccidere, de-cidere tagliare fuori, tagliare via qualche cosa, quando decidi tagli via le cose che non decidi fra le varie possibilità) Qui de-cisione non significa giudizio né scelta dell’uomo ma indica una divisione, quel complesso costituito dall’essere, dalla non latenza, dall’apparenza e dal non essere. (quindi decidere è tenere divise le cose: l’essere, la verità, l’apparire, tenderle sempre divise, tenendo sempre conto che questi elementi partecipano a modo loro dell’essere e quindi non fare come fa l’uomo inautentico per Heidegger, e cioè immaginare che l’apparenza sia l’essere e quindi non c’è più l’essere, questo comporta l’oblio dell’essere, la deiezione, come la chiama lui. Poi legge il frammento 4 di Parmenide – quello che dice che l’essere è. Su questa via devi metterti, sulla via dell’essere, mentre il non essere non è, e su questa via non dovrai mai avventurarti perché ti porta alla perdizione. Essere/non essere. Vero/falso. 1/0. Abbiamo fatto tutto il percorso in una frazione di secondo. Allora così dice Parmenide:) “Dirò allora così: prendi in tua custodia la parola che odi su questo argomento, quali vie? Le uniche meritino di essere prese in considerazione per un domandare, (domandare è la questione fondamentale) la prima: com’è questo, ciò che esso, l’essere è? E come altresì è impossibile il non essere? (cioè sta dicendo, come è possibile che qualcosa sia e come invece è impossibile che qualcosa non sia) della fondata fiducia il sentiero è questo, esso segue infatti la non latenza (ora non c’è qui il testo greco ma sicuramente la parola che usa è αλήθεια non latenza/verità. Infatti nelle traduzioni viene posta proprio così, “segue infatti la verità” “questa è la verità” “questo è il sentiero giusto”) l’altra invece come ciò non sia, e altresì come necessario sia il non essere (queste sono le due vie essere e non essere, è necessario che ciò che è sia, e ciò che non è non sia) questo d’altronde lo dico chiaro è un sentiero per niente consigliabile (quello del non essere) per via che né potresti fare conoscenza con il non essere giacché non può essere mostrato, né con parole potresti neppure indicarlo (se non è, non è non puoi indicarlo perché non è, non puoi dirlo, di nuovo, perché non è, è per questo che Parmenide dice “su questa via non devi incamminarti, perché stai solo perdere tempo”) Si notano qui anzi tutto due vie nettamente separate e opposte, la via che conduce verso l’essere e che è in pari tempo la via che porta nella non latenza (cioè porta alla verità, tenete conto che αλήθεια per Heidegger e per le traduzioni comuni è sempre verità, è uno dei tre modi in cui i greci indicavano la “verità”. Αλήθεια come non latenza che generalmente viene tradotta come non nascondimento, ρθτης che è l’adeguamento della parola alla cosa e πιστήμη, che è la verità della scienza, la verità certificata e dimostrata, da qui epistemologia, che sarebbe il discorso sulle verità dimostrate) è per via che l’essere riveste il significato di “apparire schiudentesi” (vedete qui che lo definisce come aveva definito la “ φύσις” “dischiudentesi permanere”) di sortire dal nascondimento che a lui competono essenzialmente la latenza e la provenienza da quella (se l’essere viene dalla latenza è ovvio che la latenza cioè il nascondimento gli appartiene) questa provenienza costituisce l’essenza dell’essere, dell’apparente come tale (cioè il provenire dalla latenza, dal nascondimento, questa è una parte importante della filosofia di Heidegger: l’essere non viene da sé. La prima cosa fondamentale è che lui pone l’uomo come essere nel mondo ed è l’uomo con il suo domandare, questo lo diceva nelle prime pagine “perché esiste l’ente anziché il nulla? Perché ci sia questa domanda occorre appunto il domandare, perché ci sia domandare occorre che ci sia l’uomo, per cui c’è essere in quanto c’è qualcuno che pone una domanda fondamentale, è ponendo la domanda fondamentale che l’essere può mostrarsi come quell’orizzonte in cui le cose autenticamente appaiono, attraverso la domanda fondamentale) questa provenienza costituisce l’essenza dell’essere dell’apparente come tale, l’essere permane incline a ritornarvi (a tornare nella latenza) nel nascondimento, sia nel grande occultamento che silenzio, sia nella più superficiale finzione e dissimulazione, la stretta contiguità di φύσις e di κρπτεσθαι (cioè nascondimento; quindi c’è una contiguità stretta tra ciò che appare permanendo “ φύσις” e nascondimento, per questo lui parla dell’essere anche come quella luce nella radura che illumina, per un momento, qualche cosa per tornare nel nascondimento, cioè nel buio) è insieme manifestazione dell’intimità di essere e apparenza e del loro conflitto (ecco perché l’apparenza per Heidegger è importante e non la riduce al mero apparire, al sembrare dell’uomo inautentico. C’è sempre un conflitto tra essere e apparenza nell’accezione heideggeriana, non nell’accezione corrente, l’apparenza come ciò che appartiene all’essere, come ciò che consente anche il manifestarsi dell’essere, l’apparire dell’ente, l’ente appare da questo orizzonte che costituisce la possibilità stessa dell’apparire di qualcosa, e questo orizzonte che è la possibilità dell’apparire dell’ente è l’esserci “Dasein”. Giungerà poi a dire che l’essere è nulla. Come ci arriverà a dire che Das Sein ist nicht? L’essere è niente” ma non un niente assoluto, è ni-ente in quanto non ente, perché l’essere non è l’ente, e da qui la differenza ontologica che l’ha reso celebre. Bisogna dunque che nella iniziale apertura dell’essere dell’essente (il che vuol dire che questo spazio si apre e consente l’apparire) il divenire risulti, questo è ciò che occorre dire, alla stessa stregua dell’apparenza contrapposto all’essere (quindi sta dicendo che il divenire è posto alla stessa stregua dell’apparenza, l’apparenza è il divenire e viceversa) d’altra parte il divenire in quanto dischiudimento (perché il divenire, badate bene, è una cosa che riguarda anche l’essere, non pone il divenire nei termini di Severino, ma per lui l’essere, come abbiamo visto prima, è ciò che si dischiude, quindi si apre e consente l’apparire dell’ente, ma anche si richiude e cioè torna nella latenza, nel nascondimento (perché non c’è domanda?) nel domandare tu apri la possibilità dell’essere quindi dell’apparire di qualcosa di autentico, però in questo apparire, in questa cosa che viene incontro c’è anche la condizione stessa del suo dischiudersi, nel senso che l’ente pur essendo qualcosa che l’essere mostra, perché è la condizione dell’apparire dell’ente, una volta che l’ente appare occulta l’essere, non c’è più l’essere, è occultato dall’ente e ancora a maggior ragione dall’apparenza, quindi a quel punto hai l’ente, non c’è più l’essere, l’essere è occultato, è tornato nella latenza, tornerà a ricomparire nel momento in cui il domandare consentirà di nuovo questa apertura all’interno della quale l’ente apparirà, ma apparendo l’ente, l’essere scompare perché ha di fronte appunto l’ente e non l’essere. Sta qui tutto il problema per Heidegger del filosofare da quando esiste, e cioè l’avere scambiato l’essere con l’ente. Heidegger dice che tutto il filosofare da quando esiste è stato preso in un errore grossolano, e cioè di avere scambiato l’essere per l’ente, l’essere come un oggetto di indagine, ma ponendolo come oggetto di indagine si trova di fronte un ente, un quid, un che, ma questo “che” questo “quid” non sono l’essere, sono l’ente, e l’ente che ti appare nasconde l’essere pur essendo l’essere la condizione o, per usare il suo termine, la “precondizione” dell’apparire dell’ente, ma quando ti appare l’ente, ti appare l’ente non l’essere, l’essere non può apparire se non come ente. Questa differenza fondamentale che lui pone tra essere e ente è detta “differenza ontologica”, che è un caposaldo di tutto il suo pensiero: l’essere e l’ente sono due cose diverse, l’essere è la condizione, la precondizione dell’ente e l’ente viene dall’essere, da questa apertura, da questo aprirsi che è l’essere, ma non sarà mai l’essere che è un’altra cosa appunto essere /ente (e quindi questo “dischiudersi permanente”?) questa è la “φύσις” l’essere in quanto “φύσις” (ma ciò che permane è ente?) no, ciò che permane cioè il “dischiudentesi permanere” è l’essere, è lui che si dischiude e permane, se non permanesse non ci sarebbe l’apparire dell’ente, l’ente fintanto che è quello che è, è debitore dell’essere che rimane sempre nascosto dietro l’ente (ciò che permane è il “dischiudersi” questo chiamiamolo “movimento” che consente l’apparire) sì, proprio così. Ho detto che l’essere è questa apertura, un’apertura che permette l’apparire di qualche cosa per Heidegger, senza questa apertura che precede l’apparire di qualunque cosa, che lui chiama “essere”, non c’è nessuna possibilità che qualcosa appaia: il qualcosa che appare è l’ente, ciò che tu vedi, che tocchi questo è un ente, e l’ente è esattamente ciò di cui si occupa la metafisica. La matematica si occupa di numeri ma si occupa del numero in quanto numero, la metafisica si occupa anche del numero, ma non in quanto numero, ma in quanto ente, che è diverso, perché il numero ha certe proprietà, l’ente ne ha altre.) Se intendiamo alla maniera dei greci il divenire come un venire e un andare via dalla presenza, l’essere come una presenza apparente nello schiudersi (quindi considera l’essere come una presenza apparente nello schiudersi, una presenza che appare nel momento in cui si schiude e il non essere, come assenza, ne viene che l’alternanza di schiudersi e di svanire è l’apparire, l’essere stesso, è un continuo schiudersi e svanire, è un’oscillazione tra latenza e non latenza, che è diverso dall’oblio dell’essere di cui parla altrove, che invece è l’operazione che compie l’uomo inautentico e cioè quello che non si pone nella domanda, e non ponendosi nella domanda fondamentale è come se non avesse accesso all’essere, o meglio non consente all’essere di aprirsi, non consente questa apertura che è quella che permette all’ente autenticamente costituito di mostrarsi e quindi ha a che fare, questo lo dice altrove, ha a che fare con i “si dice” “mi sembra” “mi pare” con l’orecchiare qualche cosa ma non c’è mai nulla di autentico in lui cioè non si costituisce mai come essere autentico, nel senso che non si rapporta mai con l’essere perché si accontenta di ciò che sembra, che appare. “Appare” nel senso di “apparenza” di sembrare (δόξα) sì nel senso banale del termine. (non ho capito quando qualche volta fa lei diceva di Heidegger e il nazismo) beh potresti averlo desunto da queste ultime pagine in teoria. L’uomo autentico quello è che vive nella “tradizione” per usare un termine di Heidegger. A quel tempo la Germania era relativamente poco tecnologizzata, anche se poi con Hitler si tecnologizzò molto rapidamente nella produzione di cannoni, gas nervino, mitragliatrici, areoplani da combattimento, navi da guerra, battelli sottomarini eccetera, però l’uomo autentico sarebbe dovuto essere il tedesco per Heidegger, perché essendo poco tecnologizzato era ancora quello più prossimo, più vicino alla poesia, perché la poesia nel suo dire per Heidegger è autentica, cioè consente questa famosa apertura, questo orizzonte in cui avviene l’apparire dell’ente e quindi contrariamente agli anglosassoni, agli americani, i russi che stringono a morsa la Germania, la Germania avrebbe avuto, a causa di essere così ancorata alla tradizione, la possibilità di costruire l’uomo autentico, non tecnologizzato. Non dunque l’uomo della chiacchiera ma l’uomo autentico, e questo uomo sarebbe dovuto essere il nuovo tedesco, solo che poi si accorse che le cose che il nazismo aveva promesse poi non furono mantenute, cioè l’idea originaria di riproporre l’uomo autentico, quel pensiero autentico che si rifà alla Grecia antica è stato miseramente abbandonato a vantaggio della produzione industriale di mitragliatrici e cannoni. Questo in due parole perché Heidegger aderì al nazismo: un uomo nuovo che avrebbe potuto, dovuto rilanciare quel pensiero autentico greco anziché ridursi a semplice chiacchiera definita, inautentica, che lui ravvisava nei paesi altamente tecnologizzati. Heidegger aveva un rapporto particolare con la tecnica, da una parte all’inizio l’aveva condannata, poi invece ravvisò nella tecnica la possibilità di liberazione per una serie di motivi che non sto ad elencarti.