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30 novembre 2022

 

L’inizio della filosofia occidentale di M. Heidegger

 

Stiamo procedendo bene, e in questo debbo dire che Heidegger ci sta dando una mano, in quanto sta ponendo delle questioni molto importanti, alcune incominciamo a vederle ma il meglio deve ancora arrivare. Ci sta mostrando, in effetti, come procedere. Ciò che stiamo da tempo facendo ha tenuto e continua a tenere conto di molte discipline, anche se propriamente ciò che facciamo non è filosofia, non è linguistica, non è psicoanalisi, non è logica, non è retorica, meno che mai è filosofia del linguaggio, però ha tenuto e tiene conto di tutti questi aspetti. In effetti, siamo passati da una posizione teorica a quella teoretica. Da tempo ormai non ci interessa più costruire una teoria, non abbiamo più quella velleità né allo stesso tempo l’ingenuità di pensare di potere dire come stanno le cose, che è quello che fa una qualunque teoria. L’approccio teoretico, come sappiamo, non dice come stanno le cose ma si chiede quali siano le condizioni per potere affermare come stanno le cose. E in questo Heidegger è stato importante. Con queste ultime letture che abbiamo fatte qualcosa si è modificato nel modo in cui stiamo procedendo; modificando il modo di pensare si modifica indubbiamente anche la persona, perché la persona è quello che pensa, quello che dice, non è altro che questo. La volta scorsa avevamo posto l’accento su una questione importante che Heidegger ha rilevato, e cioè che ἀλήθεια e δόξα sono due momenti della stessa cosa. Naturalmente, questa cosa non va senza implicazioni. Adesso riprenderà la questione in termini sempre più interessanti, ma già questo fatto, questa affermazione di Heidegger ci mostra in fondo che l’essere e l’ente sono due momenti dello stesso, cosa della quale lui stesso non si accorge pienamente, non riesce a trarne le conseguenze più evidenti, e cioè che non c’è propriamente nessuna differenza ontologica, nell’accezione che intende lui, perché l’essere e l’ente si “coappartengono”. Che si “coappartengono” significa che se c’è una c’è necessariamente l’altra e che se non c’è l’una non c’è necessariamente l’altra. La volta scorsa stavamo leggendo dell’essere e del non-essere. A pag. 156. L’essere infatti non genera alcun “non”. Se c’è l’essere non c’è alcun “non”, niente che lo neghi, niente che manchi. A sua volta però il “non” scaccia l’essere, quindi sostiene solo il nulla. La via che porta al nulla è però assolutamente da sconsigliarsi, su di essa non si può assolutamente costruire nulla, dato che in essa non è in nessun caso possibile produrre nulla, quindi nessuna possibile conoscenza, né alcuna indicazione in merito. Abbiamo visto che la via del non-essere sarebbe la via del fuori-linguaggio. E qui si allaccia immediatamente il frammento 5 (pensare ed essere sono lo stesso), che fornisce la fondazione del genere così nettamente differente delle due vie e delle loro peculiari prospettive: dove c’è essere c’è anche percepire, e viceversa, dove c’è percezione c’è essere. Invece, dove c’è il nulla non c’è nemmeno percepibilità, quindi nessun percepire, nessuna via, e viceversa. Dove nulla può essere ap-preso e percepito, là non c’è nemmeno essere. Si potrebbe dire: dove nulla è pensato o anche detto. Parmenide lo dice: il non-essere è inesprimibile, con cosa lo esprimo? Per-cepire rende il greco νοεῖν, che significa: cogliere con lo sguardo, e precisamente: a) guardare e recepire la veduta; b) cogliere con lo sguardo, guardare qualcosa in profondità, pensare a fondo, ap-prendere. La separazione tra le due vie si fonda sull’essenza dell’essere, che qui viene concepita già da un punto di vista decisivo. Questa caratteristica essenziale possiamo esprimerla in sintesi così: l’essere si dà solo al comprendere, e ogni comprendere è comprendere l’essere. Infatti, lui parla dell’essere dell’ente come comprensione dell’essere, ma cosa vuol dire comprensione dell’essere? Comprendere che esiste solo il linguaggio, è questa la comprensione dell’essere. Essere e comprensione dell’essere sono lo stesso, si coappartengono facendo tutt’uno. A pag. 157. La tesi dell’ultima coappartenenza di essere e percepire… Intendete percepire come pensare, dire. …contiene una asserzione fondamentale sull’essere. (Da molto tempo si è soliti considerare tale tesi come la asserzione fondamentale di Parmenide, vedendo in essa il suo peculiare “punto di vista”, per di più interpretandola in un senso che non e si addice affatto, cioè in termini idealistici: l’ente sarebbe posto solo nel pensiero, sicché non vi sarebbe nessun ente in sé). Ciò sia detto solo tra parentesi, dato che nelle riflessioni di Parmenide il significato di quella tesi punta in tutt’altra direzione: ne risulta chiarito anzitutto questo nesso essenziale tra l’accesso a qualcosa e questo stesso qualcosa, cioè la cosa stessa. Sta dicendo che, in effetti, non è che l’ente proceda dal pensiero, sì anche, ma lui sta ponendo la questione dell’essere e non dell’ente; infatti, dice, pensiero e essere sono lo stesso, e non pensiero ed ente. 1) la via del domandare fondato. Che cosa si domanda in questo caso? πως ἓστιν – “come è” = come l’ἓστιν, come l’ “è”; che ne è dell’“È”. È questo “è” che interessa a Parmenide, non l’ente. Ci si chiede che cosa intendo quando, rivolgendomi all’ente e putando l’attenzione su di esso, dico: esso, l’ente, è. Come la si pensa in merito all’“è”? ἓστιν (è)… /…/ Non si tratta però solo di questo, cioè di come stanno le cose riguardo all’essere, ma anche di quest’altro, di come l’essere non possa non-essere; il “non” non si addice all’essere, l’essere scaccia da sé qualsiasi “non”. Il linguaggio scaccia da sé qualunque cosa che non è linguaggio. 2) Dove conduce l’altra via? Che ne è del “Non-È”… Una è la via dell’essere, certo, l’altra la via del non-essere, poi ci sarà la terza, quella della δόξα, ma per adesso considera le prime due. …cioè che ne è di ciò che assolutamente non è “è”, non è “essere”, il nulla. E come qui domina la necessità, dove domina il “non”, l’essere μή, l’essere non ci deve essere. Il non scaccia ogni essere. Il “non” sostiene solo il nulla. Potremmo dire che fuori del linguaggio c’è il nulla, il nihil absolutum. Nondimeno questa seconda via non è affatto una via, poiché già all’inizio è alla fine essa conduce letteralmente a “nulla”. Su questa via quindi nulla si produce. Dove non è possibile alcuna conoscenza non è possibile asserire nulla. Questo è il punto centrale: non è possibile nessuna conoscenza, perché non c’è linguaggio, non c’è pensiero, non c’è nulla, quindi, non posso affermare assolutamente niente, né che questa cosa c’è né che non c’è. Ma perché le due vie sono separate in modo così radicale? L’una ricca di prospettive su tutto (la via dell’essere), l’altra completamente priva di prospettive! La fondazione di ciò ci è offerta dal frammento D 5: “Dove c’è essere, là c’è anche percepire, e viceversa”. Invece dove c’è il nulla, là non c’è percepire, e viceversa. νοεῖν, “percepire”; cogliere in assoluto con lo sguardo, e precisamente a) guardare – accogliere, recepire con lo sguardo… /…/ La fondazione del carattere differente delle due vie fa riferimento a εἶναι = νοεῖν (essere = pensare), quindi all’essere, e precisamente in modo tale che si dice qualcosa su di esso. Che cosa? Che l’essere e il percepire sono lo stesso. L’essere è esso stesso ciò che è in quanto percepire, e viceversa (asserzione fondamentale sull’essere). Entrambi si coappartengono, ma si badi bene: non viene detto che l’essere ha, tra le altre cose, anche una relazione con il νοεῖν, bensì che l’essere in quanto tale esplica le sue potenzialità solo nel percepire e viceversa. “In quanto tale” l’essere esplicare alcuna potenzialità, non è affatto in gradi di dispiegare la sua essenza in quanto essere. Non è che all’essere si aggiunge la relazione, ma l’essere è relazione, l’essere è essere in relazione. A pag. 159. Da un lato, l’interpretazione idealistica: tutto l’ente è posto dal pensiero, sicché l’ente non è “in sé”, ma è solo per grazia del pensiero. Dal lato opposto, il richiamo al fatto che le cose “sono” anche quando non le pensiamo. Questa constatazione è giusta, eppure in tal modo la tesi di Parmenide non viene confutata: egli infatti non dice per nulla che l’ente è pensiero, bensì che essere e percepire si coappartengono. Qui c’è una considerazione da fare: sì, è vero, Parmenide non dice che l’ente appartiene al pensiero, ma dice che essere e pensare sono lo stesso; tuttavia, l’ente non c’è senza l’essere, dunque anche l’ente appartiene al pensiero. A pag. 161. Si parla delle vie: 1) dell’unica ricca di prospettive (la via dell’essere); 2) di quella assolutamente priva di prospettive (via del non-essere)… Dunque bisogna tenersene lontani. Nondimeno, questo tenersi-lontano non chiude la questione, al contrario: la dea afferma espressamente αύτάρ πειτα! Esiste quindi una seconda via da non percorrere, sicché – incusa quella praticabile e percorribile – abbiamo a che fare con tre vie. Qual è la terza via, cioè la seconda non percorribile? L’unica percorribile per adesso è la prima, quella dell’ἀλήθεια, della verità, dell’essere. Ci accorgiamo immediatamente che questa terza via viene descritta nel dettaglio e in modo assai più convincente di quanto finora non sia stato fatto per le due vie precedentemente nominate. Per la precisione, tale caratterizzazione giunge a compimento dopo che, dapprima, è stata insistentemente ribadita la già menzionata asserzione fondamentale, la tesi-originaria. È necessario illustrare brevemente il concetto fondamentale che emerge qui: bisogna che τό λέγειν permanga in quanto λέγειν (legare) “dell’essere”, τό έόν (l’essente) è il participio di εἶναι. Evidentemente non si tratta di un participio qualsiasi (ma τό έόν costituisce un passo nuovo e peculiare. Il participio riguarda un aspetto essenziale e del tutto determinato). Cita Omero rispetto a questo uso del participio. Per esempio, “splendente”, “volante”, ecc. Ma a noi invece interessa quest’altro. A pag. 162. Questa terza via è quella che si plasmano gli uomini, e per la precisione gli είδότες ούδέν (coloro che non sanno), in evidente contrasto con lo είδός φώς (coloro che sanno), l’uomo che possiede il sapere, l’uomo singolare, il singolo che sa ciò che ha importanza e sta nell’essenziale (esser-ci con νούς e λόγος!). quindi non è la via degli uomini in generale, dato che anche la prima e unica via ricca di prospettive è una via dell’uomo; solo che adesso vengono nominati gli uomini come essi sono comunemente, e come quindi comunemente si plasmano la loro via attraverso il tutto: “gli uomini”, appunto! Non l’uomo, che deve seguire la via dell’ἀλήθεια, ma qui parla degli uomini, di quello che pensano, che fanno. Ciò che importa qui è che costoro si plasmano la via badando solo a se stessi, ovvero senza preoccuparsi a sufficienza verso dove e attraverso dove essa debba condurre. La terza via, la via degli uomini comuni, contrapposta alla prima, mentre la seconda via d’ora in poi non viene più in nessun caso nemmeno menzionata: assolutamente priva di prospettive. Una volta detto che la via del non-essere non è praticabile, perché non ha nessuna possibilità nemmeno di essere compresa, viene abbandonata e si dedica alla terza. A pag. 164. Manca loro quella conoscenza della via che deve anticipare e precedere ogni giusto modo di intraprendere e percorrere una via; si mettono in cammino senza conoscere la via, lasciandosi guidare dalla loro ignoranza, sicché il loro recepire e apprendere, l’insieme del loro percepire è un “ora così-ora colà”, “ora qui-ora là”, un procedere errante, senza una direzione precisa, poiché ap-prendono e percepiscono errando! Guidati dall’ignoranza della via vagabondano nell’erranza… …sono costantemente nell’errore, senza mai uscirne. Così è il loro destino, vengono trascinati e gettati di qua e di là, come si dice del vento e delle onde che gettano a caso qualcosa di qua e di là. /…/ …vedono eppure al tempo stesso non vedono, odono eppure al tempo stesso non odono, parlano eppure al tempo stesso non dicono nulla. Il percepire in quanto re-cepire ed essere-assorbiti-e-coinvolti – non il giusto νούς – per-cepire – essere! Comprensione dell’essere. Manca loro la comprensione dell’essere, manca il rendersi conto che sono nel linguaggio. Tutto ciò accade appunto perché a questi uomini manca fin da principio la giusta indicazione della via del percepire, ma questo percepire, come già sappiamo, è originariamente νοεῖν dell’εἶναι, comprensione dell’essere. A pag. 165. Questi uomini vedono l’ente, odono di esso e ne parlano, ma tutto ciò rimane ottuso, restando privo di quell’acume che consente di penetrare nell’essenza; il loro intero comportamento si limita per così dire a passare barcollando accanto all’ente sfiorandolo solo dall’esterno. Che cosa manca, dunque? Dice penetrare nell’essenza dell’ente, cioè, intendere che l’ente non è altro che linguaggio, che l’ente non esiste senza l’essere, che l’essere è linguaggio, che è questo tutto. A pag. 166. Cita il δοξάζειν. …ne hanno fatto fin da principio la loro legge, dove però emerge che questa statuizione non è per nulla fondata nella cosa stessa, ma viene ritenuta solo tale – una legge puramente nominata – come δοξάζειν. A pag. 167. Citando un verso, dice …questa caratteristica congrega si attiene al farsi-avanti e farsi-indietro delle cose, al mutamento e al cambiamento. Che cosa indica infatti ciò che muta? Ad esempio una mutevole colorazione del mare o di una catena montuosa… Ciò che muta è entrambe le cose: essere-così e non-essere-così sono lo stesso. Badate bene, qui dice una cosa come se fosse una banalità: essere-così e non-essere-così sono lo stesso. Di fronte a un’affermazione del genere viene da domandarsi a questo punto come possiamo proseguire a parlare se ogni cosa è così e simultaneamente non è così? È un’affermazione piuttosto forte. Ma il mutamento e il cambiamento contengono sempre al tempo stesso il divenire-altro, ed è per questo che del cambiamento – in cui essere-così e non-essere-così sono lo stesso – diciamo anche, con il medesimo diritto: l’attuale essere-così è un altro da quello precedete, essi cioè non sono lo stesso. Gli uomini oscillano quindi tra essere e non-essere, per loro sono lo stesso e nel contempo non lo sono. A pag. 168 c’è un capitolo importante da titolo Le tre vie nel loro riferimento reciproco. Con la prima via (quella della verità, dell’ἀλήθεια) – l’unica ricca di prospettive e propriamente da percorrere – la terza via (quella della δόξα) ha in comune il fatto che, a differenza della seconda - che è in assoluto priva di prospettive e non porta a nulla – conduce pur sempre a qualcosa. Dunque essa non è in ogni caso senza prospettiva, poiché procura comunque una qualche vista, la vista in ciò che muta e cambia. È la visione della δόξα in quanto opinione. Al tempo stesso però la terza via ha in comune con la seconda il fatto che la dea dissuade anche da essa, anzi nel caso della terza via il suo dissuadere assume i caratteri di una vera e propria diffida. Mentre infatti la seconda via finisce per vietarsi da sé, dato che non porta a nulla – quindi già finisce nell’atto di iniziare –, la terza via offre una certa prospettiva, appunto quella a cui, correndole dietro, senz’altro la congrega degli uomini:… Gli uomini, come dicevamo, corrono sempre dietro agli enti, sempre alla ricerca di un nuovo ente da dominare, cioè, da conoscere. …essa seduce e incanta. Perché questa via è quella che mostra sempre nuovi enti: è la tecnologia che seduce e incanta, mostrando sempre nuovi enti da dominare, da conoscere, da padroneggiare, e appena padroneggiato uno, direbbe Nietzsche, immediatamente interviene il depotenziamento e, quindi, si deve subito trovare un altro nuovo ente da dominare, e così via all’infinito. La tecnologia fa questo ed è per questo che è affascinante, perché offre su un piatto d’argento ciò che diceva Parmenide, cioè, offre la possibilità di correre dietro continuamente agli enti, di praticare quella via che la dea sconsigliava assolutamente di perseguire: bada di non percorrere questa via di correre dietro agli enti! A ben vedere però la diffida nei confronti della terza via non va intesa solo come un invito a trattenersi, perché fornisce un chiarimento in merito all’essenza di tale via, ed è questa cognizione dell’essenza della via e della prospettiva da essa offerta ciò che propriamente bisogna conquistare. Bisogna intendere questa terza via, non basta dire che non devi percorrerla. Ma non percorrere questa via in quanto via significa riconoscere e capire il motivo per cui essa non è percorribile, acquisire questa cognizione rientra quindi necessariamente nella meditazione sulla via con cui inizia il cammino lungo la via della dea. Qui si comincia ad intendere il fatto che la δόξα e l’ἀλήθεια sono due momenti dello stesso. Conoscere la δόξα significa conoscerne l’essenza o, detto in modo brutale, conoscerne la verità, non tanto i singoli enti, ai quali gli umani corrono appresso continuamente, ma intendere che cosa sono questi enti, cioè, qual è l’essere dell’ente. Solo adesso comprendiamo per la prima volta le parole con cui la dea annuncia che Parmenide deve “apprendere tutto”… Deve apprendere non solo la via dell’essere, no, deve apprendere tutto. …tutto, tanto la svelatezza quanto βροτών δόξας (ciò che pensano i più), cioè la terza via, che è l’unica, insieme alla prima, a offrire in genere una prospettiva. Al tempo stesso, però, sulle opinioni che si possono ottenere percorrendo la terza via non si può fare alcun affidamento, poiché esse si riferiscono di volta in volta a qualcosa che è così e non è così, è mutevole e oscillante. Nondimeno, Parmenide deve ugualmente fare esperienza di questa terza… “Deve” fare esperienza della terza via, non può esimersene, e tra un attimo vedremo perché. …il che però non significa che egli debba introiettare l’enorme quantità mutevole e frammentaria delle singole opinioni umane. La dea della svelatezza lo guida solo verso quest’ultima, eppure egli – come si è detto sopra – deve fare esperienza anche di quella svelatezza che costituisce l’essenza della terza via: quindi non già le singole mutevoli opinioni degli uomini, ma certo l’essenza di ciò che è in assoluto l’opinione umana. Quindi, non si tratta di una riflessione sull’opinione, nel senso di seguire le opinioni, qual è vera o quale sbagliata, ecc., ma di sapere che cos’è l’opinione.

Intervento: È un po’ come se dicesse che non bisogna fermarsi alle teorie.

Esattamente. La teoria dice come stanno le cose, la teoria è un’opinione, qualunque teoria è una δόξα, dice come stanno le cose, ma non dice perché devono essere così come dice. Anzi, più ancora, ciò che deve diventare evidente è la necessità della δόξαBadate bene, parla di necessità, quindi, della necessità della terza via. In genere, viene raccontata così nei manuali che la terza via, la δόξα, l’opinione non c’è per Parmenide. No, invece è necessaria, e qui lo dice chiaramente. La prima via, la sola propriamente ricca di prospettive, giacché offre l’intera ricchezza e la cristallina pienezza dell’essere, non sarebbe compresa né percorribile in quanto tale se non si cogliesse nel contempo l’essenziale appartenenza a essa della terza via. Questo è il punto centrale: non posso cogliere nulla della prima via, quella dell’ἀλήθεια, della verità, dell’essere, se non cogliendo simultaneamente anche la δόξα, perché cogliendo l’ἀλήθεια colgo anche la δόξα. Adesso vediamo perché. Nondimeno, per un chiarimento delle vie manca ancora qualcosa, cioè la via di cui si parla nei primissimi versi, quella che porta alla dea. Non la prima, non la seconda, né la terza via, bensì quella che conduce fuori e lontano dalla congrega – dunque dalla terza via alla prima. Dalla terza via, la δόξα alla prima, l’ἀλήθεια: questo è il percorso. Ora, non è che ci sia una quarta via, Parmenide non ne parla affatto, la pone Heidegger. La quarta via, così come la chiama lui, di fatto è la coappartenenza della prima alla seconda e alla terza, la coappartenenza di ciascuna delle tre vie alle altre: è questa la quarta via. Quindi non v’è nemmeno la prima senza la terza. Cioè, non c’è ἀλήθεια senza la δόξα. Questo può bastare. Abbiamo in sostanza quattro vie: 3) la terza; la via δόξα; 2) la via impossibile da percorrere; 1) la prima via: l’ἀλήθεια… /…/ Ma può procedere (l’esserci) solo se e quando ha abbracciato con lo sguardo tutte le possibili vie secondo la loro essenza; può camminare con passo sicuro tra gli erranti – egli stesso in quanto errante – solo se ha compreso nell’intimo l’essenza dell’erranza e la domina in anticipo in virtù di questa raggiunta chiarezza. È per questo che l’intero sforzo di meditazione si sposta sulla cognizione dell’essenza della terza via: perché mai quest’ultima, nonostante le prospettive sempre nuove che costantemente offre, non va parimenti percorsa, sempre nel presupposto che l’uomo nel suo cammino debba costruire se stesso fondandosi su qualcosa? A pag. 171. Cita le parole di Parmenide. 34) né mai l’abitudine consolidata dall’esperienza ti costringa, lungo questa via, 35) a usare, in ciò che accade, lo sguardo che non vede, l’udito che rimbomba e la lingua che chiacchiera, ma separa e distingui, ponendoti dinanzi l’indicazione della molteplice contesa 37) che da me è stata annunciata. A pag. 172. Siamo posti di fronte qui ancora una volta alla via della congrega di coloro che non distinguono, mentre viene addotto un nuovo elemento essenziale: βιάσθω – una specifica βιά, non uno stato d’animo qualsiasi, ma una violenza e una costrizione attuata lungo la via della δόξα – un genere peculiare di necessità. ἒθος πολύπειρον: quanto più gli uomini si attengono anzitutto alle parvenze e le inseguono, tanto più questo atteggiamento costante si consolida nell’errore: l’atteggiamento sbagliato diventa un’abitudine. Prendere le cose per abitudine significa però avere occhio e orecchio prioritariamente per ciò che è corrente nella quotidianità, che si dà in molteplici forme e ritorna nelle varianti più banali, di modo che l’abitudine può in ogni momento convincere se stessa di molte cose, persuadendo ciascuno ad accettarle. Come dire: è così perché è sempre stato così, e va bene così. Ma la cosa interessante è ciò che ha detto a proposito della quarta via, quella della coappartenenza. Su questo dobbiamo riflettere un momento. Intanto, ci dice che è la terza via che consente alla prima di esistere, lo dice esplicitamente: non c’è la prima senza la terza, non c’è l’ ἀλήθεια, non c’è l’essere, senza l’opinione che ne ho. Qui ci sarebbe da fare una considerazione abbastanza particolare. Non c’è linguaggio se non nel mio dire, cioè nel mio dirne del linguaggio, quindi, nella mia opinione sul linguaggio; non c’è linguaggio senza le cose che io ne dico; il linguaggio in quanto tale non c’è senza il dire, sappiamo bene che ogni λέγειν è un λέγειν τί, un dire qualcosa. Quindi, non c’è accesso all’ἀλήθεια se non tramite la δόξα, se non tramite l’opinione. Il che è un’altra modalità per dire che non c’è accesso a nulla se non come idea, come fantasia, cioè, posso cogliere la verità sempre e soltanto attraverso una relazione, e cioè affermando della verità che è altro, che quindi non è la verità. Quello che sta dicendo è che non ho l’accesso immediato, nel senso proprio di non mediato, all’essere; l’accesso che ne ho è sempre un accesso mediato, è sempre nella relazione, perché essere è essere in relazione, lo aveva detto esplicitamente: non c’è essere che non sia essere in relazione. Quindi, tenendo conto che l’essere si pone come la verità, allora la verità è tale in quanto è non-verità, non posso approcciare la verità se non come non-verità, se non come in relazione ad altro che, essendo altro rispetto alla verità, è non-verità. Parmenide – in effetti è Heidegger che lo legge in questo modo, nessuno prima lo aveva mai letto così – ha posto la questione centrale del linguaggio, ha posto il problema del linguaggio: per dire la verità devo mentire, perché ciò che dirò non sarà la verità, necessariamente, cioè, non sarà l’essere dell’ente.

Intervento: Quindi per dire la verità devo dire la δόξα.

Sì, certo. Non posso dire la verità, posso solo dire la δόξα. È attraverso una riflessione sulla δόξα che io posso intendere qualcosa della verità, dell’essere dell’ente, ma non posso partire dall’ἀλήθεια, dalla verità, non la conosco. La conosco nella misura in cui parlandone la altero, cioè, dico la non-verità. A pag. 173. La percezione dell’essere è la ponente fondante… La percezione dell’essere si pone come fondamento. …quindi concettualmente afferrante comprensione dell’essere lungo la via che porta al concetto dell’essere. La comprensione dell’essere qui per Heidegger è centrale. Comprendere l’essere è non potere non tenere conto che si è nel linguaggio. C’è poi il frammento D 8 che non leggiamo, lo abbiamo già fatto. Leggiamo invece le considerazioni che fa Heidegger. A pag. 177. Ma guarda ora come ciò che dapprima è assente sia, per il percepire, saldamente presente, poiché (nessun percepire) può spezzare la coesione dell’essere con l’essere stesso, né disperdendolo ovunque e totalmente per il secondo, né portandolo a ricomposizione. È una delle più appropriate definizioni di linguaggio. Nessun percepire possiamo intendere qui il “percepire” come il linguaggio; può spezzare la coesione dell’essere con l’essere stesso, come posso spezzare il linguaggio, farlo a pezzettini? Il linguaggio è un tutto, non posso isolare, togliere un elemento dal linguaggio per considerarlo – a parte il fatto che se immagino di poterlo togliere dal linguaggio, rimane comunque sempre nel linguaggio. Ma questo è il tentativo, la follia della linguistica, che immagina di potere togliere dal linguaggio un elemento per poterlo analizzare al microscopio. È chiaro che, primo, non lo toglie affatto dal linguaggio, perché per poterlo analizzare al microscopio utilizza il linguaggio; secondo, ciò che sta analizzando non è quella cosa che voleva analizzare, ma è un’altra, perché è inserita in un altro contesto, in un altro racconto e, quindi, non è più quella cosa lì. A pag. 178. È lo stesso il percepire e ciò in vista di cui la percezione è. Di che cosa è in vista la percezione? La percezione, potremmo dire, è in vista dell’ente, ma, in effetti, rimane l’essere dell’ente ciò che deve essere percepito, cioè il significato dell’ente: l’ente, senza l’essere dell’ente, è nulla, è come un significante senza il significato, è nulla. Poiché senza l’essere, in cui (ciò) è espresso, non troverai il percepire; infatti, null’altro è stato, è e sarà al di fuori dell’essere e accanto a esso. Non puoi percepire nulla fuori del linguaggio, non c’è niente. …– poiché dunque il destino lo ha incatenato nel Tutto e nell’Immobile, non gli resta nient’altro che il nome – quello che gli uomini hanno stabilito, confidando che fosse lo svelato. Sorgere e tramontare, essere (così) e non-essere così, cambiare di luogo e mutare superficie alla luce. Poiché però il limite è il suo estremo, esso (l’essere) è finito, racchiuso tutt’intorno da una fine, simile alla (densa) massa di una ben rotonda sfera, che dal centro preme con ugual forza in tutte le direzioni… È qualcosa, dunque, da cui non si può uscire, quindi, parrebbe limitato. Eppure, lo ha detto prima, parlando di Anassimandro, l’essere è πειρον, indelimitato. Potremmo, quindi, dire oggi che sta parlando dell’infinito attuale, dell’infinito che è presente all’interno del linguaggio: quanti sono gli elementi che compongono il linguaggio? Infiniti. Eppure, il linguaggio è limitato, e qual è il suo limite? Non potere uscirne; quindi, è limitato e al tempo stesso illimitato, è finito e infinito. A pag. 180. Resta ancora solo la via della verità, poiché dalle altre due vie dobbiamo essere (e siamo) diffidati. Questa sola resta da percorrere. Ma secondo l’accezione principale di όδός (cammino), ovvero di θυμός (stato d’animo), percorrere la via significa prendere conoscitivamente visione della prospettiva che essa offre, cioè andare a vedere che cosa, là, diviene evidente. Che cosa diviene evidente? L’apparire. È questa l’unica evidenza: ciò che appare. E, infatti, l’essere per i Greci è ciò che appare, l’apparire di qualcosa così come appare. Prima però ci si dice “non resta che l’annuncio della via”. Μύθος in contrapposizione a λόγος? Da un lato il μύθος inteso come la parola annunciata in termini altrettanto veri, di cui ci si limita a prendere atto nella sua datità, dall’altro il λόγος inteso come la parola liberamente detta nel volgersi da sé alle cose stesse? È questa la differenza? Non è forse vero che si è sempre accentuata la priorità del λόγος (sul mito)? Qui però ci si offre solo un annuncio che chiede di essere interpretato. Abbiamo dunque a che fare con il contrario di ogni filosofia? Che da Platone in poi è dialettica, un procedimento dialettico che deve giungere alla verità. Per questo si ha qui θυμός. Sennonché, μύθος non significa necessariamente annunciazione, ad esempio nel senso della rivelazione divina – che sarebbe solo da accogliere come tale, incompresa e incomprensibile –, ma può significare anche semplicemente annuncio, che in questo caso vorrebbe dire solo che la dea rende-nota la via, cioè indica le prospettive che essa offre (mostra). Il mito per Heidegger fa questo, nell’accezione di Parmenide: indica le prospettive che una via mostra, nient’altro che questo – quindi, nulla a che fare né con la logica né con la ricerca della verità, propriamente detta come la intendiamo oggi –, ma mostrare delle possibilità, delle vie da percorrere. A pag. 182. Parla dei σήματα dell’essere. Σήματα viene da σημεῖον, segno, ma qui Heidegger lo intende come aspetto. …a questo punto (del poema di Parmenide) vengono finalmente elencati i σήματα, le prospettive sull’essere (έόν), gli aspetti in base ai quali si comincia a comprendere espressamente, cioè ad afferrare concettualmente che ne è dell’essere, che cosa se ne deve pensare. A pag. 183. Consideriamo anzitutto che cosa in questo caso viene negato, come sia da intendersi la negazione stessa, e infine perché mai compaiano qui espressioni negative. L’essere rimane senza nascita e tramonto. Cfr. sopra Anassimandro: se là si dice che non bisogna pensare a una genesi e a uno sviluppo – ovvero a una decadenza – in senso causale, bensì a un comparire e scomparire, nello stesso modo bisogna intendere qui nascita e tramonto. L’essere rimane senza τρέμειν, senza tremito. Tremito è qui da intendersi nel senso di movimento rapido di andata e ritorno. Queste sono le cose che, dice Parmenide, dobbiamo non pensare dell’essere, perché l’essere non è generato, non nasce e non muore. A pag. 184. Ripercorriamo ancora una volta le negazioni di uno sguardo d’insieme: senza sorgimento, scomparsa, tremito, produzione, mutamento temporale; in breve: senza qua e là, da-a, senza qualsiasi passare dall’uno all’altro, senza passaggio, cioè senza divenire. Queste sono le questioni da cui prese le mosse Severino. Queste negazioni escludono dall’essere qualsiasi divenire; l’essere viene concepito qui nella più pura e netta contrapposizione nei confronti del divenire. Con ciò abbiamo chiarito che cosa viene negato, ma rimane da chiedere come vada intesa tale negazione. In quanto asserzione, la negazione costituisce un disconoscimento, e in particolare un disconoscimento di predicati e qualità. Si sta chiedendo: negando qualcosa, cosa stiamo facendo? Noi abbiamo intenzionalmente e motivatamente evitato di assumere le espressioni elencate come predicato o addirittura qualità dell’essere. Di ciò infatti non si parla mai, bensì solo di σήματα, cioè di ciò che si mostra come prospettiva sull’essere: aspetti. Ma che cosa può mai significare un aspetto negativo? Ci si chiede di non guardare lì dinanzi, dunque il volgere altrove lo sguardo. Ma in che modo? Non ci si chiede di privarci in assoluto della prospettiva sull’essere, al contrario: dobbiamo guardare lì dinanzi, fissare lo sguardo sugli aspetti del comparire, dello scomparire, ecc., però in modo tale che nel fare ciò ci accorgiamo che, attenendoci a questi aspetti, veniamo scacciati via dall’essere, nel senso che l’essere stesso non ci permette di avvicinarci a esso tramite aspetti siffatti. Proprio in tal modo tuttavia esso ci fa capire come stanno le cose riguardo all’essere. Noi ci avviciniamo all’essere, cerchiamo di determinarlo attraverso i suoi σήματα, i suoi aspetti, ma questi aspetti, dice Parmenide, sono appunto il fatto di non essere generato, ecc., e questi aspetti sono quelli che l’essere scaccia via da sé. Qualunque determinazione si faccia dell’essere non è essere. In fondo, non fa che ripetere sempre la stessa cosa: qualunque determinazione di qualunque cosa è un’altra cosa rispetto alla cosa che voglio determinare. Se io voglio determinare l’essere o il linguaggio, come lo determino? Dicendo una serie di cose, più o meno lunga, più o meno interessante, più o meno appropriata, ma tutte queste cose che dico non sono il linguaggio. Il linguaggio scaccia via tutte queste determinazioni, perché non sono lui, e così l’essere, e qualunque altra cosa. È lo stesso discorso che facevamo rispetto ad Aristotele, quando si illude di potere determinare la materia: sì, la determina, ma come? Aggiungendo parole su parole, e alla fine mi troverò di fronte sempre ad altre parole che mi rinviano ad altre parole, perché è questa la struttura del linguaggio, perché l’essere è essere in relazione, e quindi non potrò mai coglierlo se non in relazione a qualche cos’altro. A pag. 185. Dunque, le negazioni con “senza” non vogliono dire che all’essere manchi qualcosa, che soffra di qualche mancanza, bensì che ciò che viene negato non è degno dell’essere e non gli è conforme. La sua misura è un’altra. Quale? Lo possiamo capire in un certo modo in base agli aspetti che ci si fanno incontro in primo piano quando distogliamo lo sguardo e guardiamo altrove. Non appena infatti prendiamo in esame il secondo gruppo, ci viene detto subito qualcosa di senz’altro positivo. Heidegger sta ponendo qui delle questioni veramente essenziali. Come dicevo all’inizio, nessuno ha mai posto delle questioni del genere, rispetto a Parmenide sicuramente, ma anche in ambito più generale nessuno ha mai posto cose del genere. Il non-essere, posto in questi termini, come un qualche cosa che viene scacciato dall’essere, perché qualunque determinazione io voglia attribuire all’essere non è l’essere ma è un’altra cosa, questo è straordinario.