INDIETRO

 

30 novembre 2016

Dice Heidegger il 2 novembre 1964: Il progetto della natura proprio della scienza naturale è stato compiuto da uomini, è dunque un comportamento umano. Domanda: in questo progetto di ciò che è mosso spazio-temporalmente conformemente a leggi, che cosa appare dell’uomo? (pag. 63) Questa è stata sempre la posizione, la domanda fondamentale di Heidegger, e cioè in tutto ciò che gli uomini hanno fatto o stanno facendo riguardo alla scienza, alla fisica, alla tecnica, ecc., insisteva nel dire che tutto questo è stata opera degli uomini e quindi rientra all’interno di un progetto umano. Rientrando all’interno di un progetto umano vuol dire che tutto ciò che è stato costruito tiene conto, è vincolato a quel progetto e l’ambito di questo progetto sarà l’ambito all’interno del quale sarà possibile fare della fisica, della scienza, ecc.  Quale caratteristica possiede il progetto galileiano della natura? Nella caduta della mela, per esempio, a Galilei non interessava la mela, né l’albero da cui essa cade, bensì solo la misurabilità dell’altezza di caduta. Egli suppone dunque uno spazio omogeneo, in cui un qualche punto-massa si uova conformemente a leggi, cada. Qualunque punto-passa che si muove conforme a queste leggi deve cadere per forza e infatti la legge dice questo, è costrittiva. È importante questo rilievo che fa Heidegger, dice che a Galilei non interessava né la mela né l’albero né il progetto in cui lui stesso si trovava, che gli consentiva di riflettere intorno alle cose su cui stava riflettendo, ma considera soltanto la mela, l’albero, la velocità di caduta, la distanza, ecc., come se tutte queste cose esistessero di per sé all’infuori del progetto. Vale a dire che tutte queste cose che considera Galilei sono considerate come oggetti metafisici, cose che sono quelle che sono per virtù propria. Si deve qui rinviare a ciò che, nei seminari del 24 e 25 gennaio 1964, abbiamo detto circa la supposizione e la acceptio, in breve circa la assunzione. Ora, che cosa accetta qui Galilei in questa sua supposizione? Egli accetta senza problema: spazio, movimento, tempo, causalità. Queste cose per lui “sono”, questa è l’ontologia scientifica, queste cose “sono”, sono appunto oggetti metafisici, cioè non esistono, come rileva Heidegger, all’interno di un ambito, di un progetto entro il quale hanno una qualche validità ma esistono universalmente, cioè sono universali. Che significa che accetto qualcosa come lo spazio? Accetto che si dia qualcosa come lo spazio, e, più di questo, che io abbia una relazione con lo spazio e con il tempo. (pag. 64) Queste sono cose che vengono assunte. Questa acceptio… l’acceptio è l’assunzione … non è arbitraria, bensì in essa sono contenute relazioni necessarie con spazio, tempo, causalità, in cui io sto. Altrimenti non potrei afferrare alcun bicchiere sul tavolo. Non potrei farlo se non assumessi che c’è uno spazio, una dimensione, che c’è un tempo, una causalità. Nessuno può sperimentare queste accettazioni. Che si dia uno spazio non è un’asserzione fisicalista. Che asserzione è? Quando assumiamo che c’è lo spazio, dice Heidegger, che cosa stiamo dicendo? Che significa, circa l’uomo, il fatto che a lui siano possibili tali supposizioni e accettazioni? Infatti, per una scolopendra non si dà uno spazio né un tempo, non si dà nulla. Heidegger sottolinea che tutte queste cose esistono per l’uomo e ci saranno degli effetti se così è. Che egli, in quanto uomo, già si trova fin dal principio in rapporto con spazio, tempo, causalità. Fin dal principio, ma in che modo, in che senso? Cosa vuol dire questa cosa? Siamo al cospetto di fenomeni che richiedono per sé un modo di avvistamento, di percepimento, loro corrispondente. Come sappiamo, come percepiamo? Su questo che di accettato, può dire qualcosa non più il fisico, bensì solo ancora il filosofo. Il fisico non si pone assolutamente la questione su come mai io dia per acquisito lo spazio, che esista il tempo, non ne ha la più pallida idea, nemmeno gli sfiora la mente una domanda del genere, il filosofo sì. Sarebbe più opportuno dire: sì, certo, il filosofo ma l’unico che è in condizione di dare risposte soddisfacenti non è la filosofia ma è la struttura del linguaggio. Queste accettazioni sono qualcosa che le scienze della natura non possono più raggiungere, che però nel contempo costituisce il fondamento per la loro propria possibilità. Che esista lo spazio, un tempo, ecc., sono i fondamenti della fisica, senza queste nozioni queste assunzioni, potremmo dire pre-sunzioni, la fisica non può esistere. In che misura si può dire qualcosa su questo qualcosa che si mostra immediatamente, e in che modo? In questa domanda è a sua volta problematica la parola “immediatamente”. Immediatamente significa non mediato da qualche altra cosa. Che cosa designiamo noi come immediato? Si pone questa domanda perché il tempo e lo spazio si pongono a noi in modo immediato, lo spazio lo colgo subito. Il tavolo, le cose, ciò che sta nello spazio e scorre nel tempo. È questo che noi diamo come immediato. E lo spazio, se per una volta vogliamo limitarci ad esso? Come cogliamo lo spazio? Da dove ci arriva questa nozione di spazio? Perché conosciamo lo spazio. Senza lo spazio non posso vedere nulla che abbia spazialmente il carattere di una cosa, e lo spazio è dato precedentemente alle cose, ma non è colto in quanto tale. (pag. 64) Più avanti, dice: … ciò che per la nostra comprensione è più prossimo, è il tavolo, che è nello spazio. Tuttavia, ciò che è più prossimo in rapporto all’essere del tavolo è lo spazio. Riguardo alla cosa lo spazio è prima. (pag. 64) Perché possa esserci una cosa occorre che ci sia uno spazio che consenta a questa cosa di occuparlo. Lo spazio precede la cosa, la cosa occupa un ritaglio di spazio, quindi, occorre che ci sia già uno spazio perché un qualche cosa possa occuparlo. Riguardo alla cosa, lo spazio è prima. È solo esso che rende possibile il bicchiere in quanto cosa estesa. Ciò che è il più prossimo in rapporto alla cosa, è l’autenticamente vicinissimo. (pag.64) … Ora, come sta la cosa con il tempo? Vedo sull’orologio che sono le undici di sera. Dov’è qui il tempo? Sta nell’orologio? Si dice: il tempo viene esperito nel movimento delle lancette dell’orologio. Ma com’è allora, se l’orologio si è arrestato? Anche in tal caso, con l’arrestarsi dell’orologio, il tempo non è affatto svanito. Solo, non posso più dire che ora è. (pag. 65) Qui incomincia a parlare del tempo e dice delle cose. All’inizio dell’ultimo seminario fu posto il problema: che cosa significa “natura” per la moderna scienza della natura? Per la sua determinazione chiamammo in aiuto Kant. Abbiamo ascoltato da lui la definizione: natura è la conformità a leggi da parte dei fenomeni. Questa è una proposizione strana. Ma perché in generale fu posto il problema della “natura” della scienza della natura? Cioè, che cos’è la scienza della natura? In quanto la scienza della natura non considera propriamente questa determinazione della natura. Galilei compì questo progetto della natura per la prima volta. Egli faceva qui semplicemente una “presupposizione”? di che genere sarebbe allora questa “presupposizione”? è una supposizione. Qual è la distinzione tra una presupposizione nelle conclusioni logiche e una supposizione? La distinzione consiste in ciò, che dalle presupposizioni attraverso sillogismi, viene dedotto qualcosa d’altro, che qui dunque sussiste un rapportarsi logico… cioè, una deduzione logica …un rapportarsi fra la presupposizione e la conclusione. Se questa è la presupposizione, attraverso passaggi logici, giungo alla conclusione. Invece, nella supposizione, la considerazione scientifica del relativo ambito si fonda sul supposto. Cioè, io suppongo l’esistenza del tempo, questa non è una presupposizione nel senso che dice lui, non giunge a una conclusione da premesse ma semplicemente viene dato. Qui non si tratta di un rapporto logico, bensì di uno ontologico. Come dicevamo prima, il tempo, lo spazio “sono”, non sono dedotti da qualche cosa ma sono. Che cosa propriamente viene supposto dalla scienza della natura, e a che cosa? Per Galilei studioso di scienza della natura, nella considerazione della caduta di una mela, sono scomparsi sia l’albero, che la mela, che il terreno. Egli vede solo ancora un punto-massa, che cade conformemente a leggi da un luogo dello spazio in un altro. All’albero, alla mela e al prato viene supposta la “natura” scientifico-naturale, la quale, conformemente a questa supposizione, consiste solo di movimenti, conformi a leggi, di punti-massa in quanto mutamenti di luogo in uno spazio omogeneo e nel susseguirsi di un tempo omogeneo. Questa è la supposizione scientifico-naturale. (pagg. 65-66) Cioè, che le cose siano quelle che sono indipendentemente da qualunque altra considerazione. Il punto-massa, la mela, non è più la mela, come la vedo io, perché la vedo, perché sto parlando della mela, no, è un punto-massa. Nella supposizione, in questa supposizione di una “natura” così determinata, … cioè, gli elementi che sono quello che sono indipendentemente da qualunque altra considerazione … risiede contemporaneamente una acceptio. Cioè, un’assunzione. In tale supposizione viene cioè sempre accettato come dato non problematicamente il sussistere di spazio, movimento, causalità, tempo. Il tempo, lo spazio, il movimento, rimane sempre quello che è e non un’altra cosa. Assumere e accettare significano qui: un percepire immediato. Nella supposizione scientifico-naturale viene accettato lo spazio omogeneo, in cui tra l’altro compare, per esempio, una tazza. Questa tazza è essa stessa qualcosa di esteso, dunque qualcosa di spaziale. Se sollevo la tazza e bevo da essa un sorso, dov’è lo spazio in cui essa è e in cui viene mossa? In effetti, lo spazio non si vede. Esso non viene percepito-sensibilmente tematicamente. Cioè, non è tematizzato come qualcosa di cui si tratta, da elaborare, da analizzare, da considerare. Poi, parla di Newton, della sua legge di inerzia, dice: …ogni corpo-inanimato si mantiene nel suo stato di quiete o di movimento rettilineo uniforme, salvo se non è costretto, da forze che gli vengono impresse, a mutare il suo stato. Questa legge inizia dunque con: ogni corpo-inanimato. Sono dettagli sui quali, però, nessuno si sofferma. Eppure, è importante il fatto che tutta la scienza, tutta la fisica, muovano da questa idea di corpo inanimato, senza aver interrogato, senza sapere grosso modo neanche di che cosa si stia parlando. Un uomo ha mai potuto osservare ogni singolo corpo-inanimato? Certamente mai. Nondimeno, questa proposizione viene affermata come valida per ogni fenomeno della natura. Si tratta dunque qui effettivamente di una supposizione, di un porre-sotto. Lo stato di un corpo-inanimato naturale viene determinato dalla legalità del movimento. Cioè, dalle leggi all’interno delle quali questo oggetto si muove. Questa affermazione di Heidegger è interessante perché dice Lo stato di un corpo-inanimato naturale viene determinato dalla legalità del movimento, sono soltanto le leggi del movimento che determinano l’esistenza del corpo-inanimato. Perché Kant dice che la natura è la legalità dei fenomeni nei loro movimenti e questi movimenti sono mutamenti di un qualcosa che costantemente sta a fondamento. Ciò sia soltanto un breve accenno a tutto ciò che viene supposto in una tale legge. Rileggo questo passo che è molto importante: la legalità dei fenomeni nei loro movimenti e questi movimenti. Legalità dei fenomeni vuol dire che questi fenomeni sono soggetti a delle leggi, si muovono legalmente, rispetto alla legge della fisica, cioè, obbediscono a quella legge. Più avanti a pag. 67. Se loro dicono che la tazza esiste, sono rapportati alla tazza essente-presente. Come sta la cosa con l’esistenza della tazza? Questa, nondimeno, non è una proprietà della tazza. L’esser-presente non è rinvenibile nella tazza. Non è una sua proprietà. L’esistenza, riguardo alla cosa, deve stare ancora più vicina dello spazio. Qui viene scorta la differenza ontologica, la differenza cioè tra essere ed ente, in cui l’essere è accessibile in modo diverso dall’ente. Se loro riflettono che, in ogni esperire, lo spazio ci è sempre già dato non tematicamente… non tematicamente, per Heidegger s’intende che non è posto come un tema su cui discutere, come qualcosa che è lì per poter essere elaborato. … allora che cos’è propriamente lo spazio? Se vogliamo percepire lo spazio, come dobbiamo comportarci allora riguardo alla tazza? La facciamo divenire non tematica e tematizziamo lo spazio. Ciò significa che con ciò compiamo un’astrazione? Niente affatto. Più avanti a pag. 69. Nella pausa, in alcuni è sembrata dominare una certa meraviglia sul fatto che noi insistiamo tanto su certe parole. Sarebbe un grosso errore vedere in ciò un nostro capriccio personale. Giacché una determinata parola del linguaggio dice proprio questo e solo questo, ed è questo il mistero del linguaggio. Una parola dice questo e solo questo, che è vero ma anche no, è vero, una parola dice questo, per potere essere usata deve dire quello, ciò nonostante, come ha anche mostrato de Saussure e tutta la semiotica, quella parola è quella che è in virtù di tutte le altre, per una relazione differenziale con tutte le altre, che sono lì presenti perché quella possa esistere. Perciò non si può semplicemente fare circonlocuzioni e usare arbitrari sinonimi per le cose stesse. Però, quando si parla di una è quella. Ad un certo punto, parlando del tempo, dice una cosa di grande interesse. Comincia a dire del tempo, che in genere è qualche cosa di lineare, che viene contato in una successione, una successione di “ora”, non di ore ma di ora, di adesso. Parla del tempo non solo di una successione di “ora”, perché dice che ciascun ora che noi pronunciamo, è nel contempo anche un poco fa e un subito, vale a dire: il tempo, cui noi ci siamo rivolti col nome “ora”, possiede in sé una spanna. Ciascuna ora è in sé anche un poco fa e un subito. Tuttavia, nel momento in cui cominciamo a contare il tempo, non badiamo più al poco fa e al subito, bensì badiamo solo ancora al succedersi degli ora. Il conteggio del tempo è dunque un rapportarsi del tutto determinato al tempo, in cui i caratteri dell’esser-teso verso il poco fa e il subito non vengono più presi in considerazione. Nondimeno, questi caratteri, in un certo modo, pure ci sono ancora, cioè il poco fa diventa passato, un “precedentemente”, infine un “non più”. Il subito diventa un “di poi” e infine un “non ancora”. La definizione aristotelica del tempo suonava già: “Questo è il tempo: ciò che è contato in un movimento rispetto al prima e al poi” (Fisica, IV, 219 b 1). Questa determinazione del tempo a partire da una cosa mossa è diventata canonica per tutto l’Occidente, così come la determinazione dello spazio a partire dal corpo-inanimato. Anche il tempo viene dunque determinato sempre solo a partire da ciò che si muove in esso, non però come tempo in quanto tale. Tempo determinato da ciò che si muove nel tempo, ma questo non ci dice ancora che cos’è il tempo. Il tempo, in generale, è? Se domandiamo in questo modo, se il tempo sia, allora, nel tempo da noi ora considerato, che cosa è? Secondo la comprensione corrente dell’essere, questo significa: esser-presente. Cosa corrisponde nel tempo a questa comprensione dell’essere come esser-presente? Essente-presente significa altrettanto che presente. Presente nel tempo è sempre solo lo ora. È l’ora che è presente adesso, prima non è più presente e il poi lo stesso. Ora, la domanda è, se col concetto di “è” brancolo nel nulla, posso in generale cogliere l’essere del tempo con la comprensione corrente dell’essere nel senso di esser-presente? Cioè, posso comprendere la questione del tempo comprendendo la questione dell’esser-presente? La questione del tempo la sta ponendo come la questione dell’ora, lo ora, lo adesso. Giacché, in quanto al tempo, a ciascun ora, appartiene il poco fa e il subito, con questo concetto di essere non colgo l’essere del tempo. In generale il problema è se e come il tempo sia. (pagg. 71-72). Più avanti a pag. 74. Se cerco la corretta posizione della domanda circa il tempo, come devo domandare allora? Se voglio domandare adeguatamente alla cosa, la cosa devo già conoscerla. Dunque, so già sempre la cosa cui domando, se non altro so che è una cosa. Infatti, chiedo, quando non so cosa una cosa sia, chiedo che cos’è, cioè, quale cosa è. Ma se già conosco la cosa, allora non ho propriamente già affatto più bisogno di domandare di essa. Questo significa che non si può in generale sviluppare una posizione della domanda adeguata alla cosa? L’intero rapporto di domanda e risposta si muove inevitabilmente e costantemente in un circolo. Solo, questo non è un circulus vitiosus, un circolo che, in quanto presuntamente erroneo, dovrebbe essere evitato. Cioè, per sapere che cos’è una cosa devo già sapere che cos’è la cosa, questo è il circolo. Piuttosto, il circolo appartiene all’essenza di ogni domandare e rispondere. È ben possibile che io abbia una nozione di ciò di cui domando, il che però non significa che abbia già conosciuto il domandato, conosciuto cioè nel senso dell’avere compreso e determinato tematicamente. Se io domando di qualche cosa, non necessariamente io so tutto di quella cosa, sennò non domanderei nulla.  Il tempo ci è dunque in qualche modo noto… diceva prima che è un’assunzione … vale a dire che noi fin dal principio stiamo in un rapporto con il tempo, in cui propriamente non badiamo né al tempo, né al rapporto con esso in quanto tale. In considerazione di questo stato di cose, prendiamo le mosse da un rapporto, che è il più noto e in ogni momento eseguibile rapporto col tempo, vale a dire dal rapporto col tempo mediatoci dall’orologio. (pagg. 74-75) Più avanti sempre a pag. 75. Importante è fare attenzione al fatto che in tutta la riflessione sul tempo… lui poi si dedica particolarmente al tempo, anche perché il titolo suo libro fondamentale è Essere e tempo, dove l’essere risulta essere il tempo e vedremo perché. … viene menzionata sempre di nuovo la coappartenenza di essenza umana e tempo, “anima” e tempo, “spirito” e tempo. Così, per esempio, già Aristotele dice: “È degno di riguardo il modo in cui il tempo si rapporta all’anima”. Se l’anima non fosse in grado di percepire il tempo, di contarlo (vale a dire, nel senso più ampio: di dire qualcosa di esso), sarebbe allora impossibile che il tempo fosse, se l’anima non fosse. Come dire, se non c’è il pensiero non c’è il tempo. Detto in breve, questo significa che se non ci fosse l’anima, non ci sarebbe il tempo. Anima è qui da intendere come l’essere peculiare e portante dell’essenza umana, non nel senso moderno di io-soggetto e io-coscienza. Piuttosto, per il pensiero greco, il carattere peculiare dell’uomo è il percepire e dire, il cui tratto fondamentale è sempre il disvelare, che non può venire rappresentato come un processo “immanente al soggetto”. Lui ci tiene sempre a fare questa precisazione, che per il pensiero greco ciò che è peculiare è il percepire e dire, che sono due aspetti della stessa cosa. Quando lui parlava del λγειν, ricordate, il λγειν è il dire ma il raccogliere insieme, il mettere insieme le cose dicendole, dicendole le cose si dispongono e, quindi, appaiono. Quindi, non c’è un soggetto per cui queste cose sono ma queste cose appaiono nel momento in cui si manifestano, nel momento in cui dicendole si configurano, si mettono insieme, si raggruppano, si espongono. In Agostino leggiamo: “In Te, mio spirito, io misuro i tempi”. (Confessiones, XI,27) Lui cita Agostino e parla di animus e non di anima. L’animus è lo spirito mentre l’anima, per Agostino, è quella cosa infusa da Dio che consente agli umani di esistere. L’animus sarebbe, in qualche modo, con tutte le limitazioni possibili e immaginabili, il λγειν dei greci. A pag. 76 dice: Per avviare un cammino percorribile nell’ambito di queste difficili questioni, teniamoci al già menzionato rapporto col tempo, mediatoci dall’orologio. A tal fine, innanzitutto, una osservazione metodica provvisoria: faremo bene a lasciare una volta tanto completamente da parte ciò che crediamo di sapere già circa il tempo, anche il modo in cui siamo abituati a trattare il tema “tempo”; per esempio, la distinzione di tempo soggettivo e oggettivo, di tempo mondano e tempo dell’io, di tempo misurato e tempo esperito-e-vissuto, di tempo quantitativo e qualitativo. Dice: lasciamo stare queste cose, per il momento. Vogliamo escludere tutte queste distinzioni, non perché affermiamo che esse sia del tutto false e senza fondamento, bensì in quanto esse restano problematiche. Cioè, restano da discutere. Giacché, se, per esempio, parliamo di “tempo oggettivo”, ci atteniamo a una rappresentazione dell’obiettività, riguardo alla quale resta da domandare se essa, in quanto tale obiettività, non sia determinabile solo a partire dal tempo sufficientemente pensato. Lo stesso vale del tempo soggettivo. Io posso parlare del tempo oggettivo ma questo tempo oggettivo come lo determino? Da un tempo che io ho pensato, se l’ho pensato non è più oggettivo, è un prodotto del mio pensiero. A pag. 79 dice: Ora, poco fa, subito, oggi, ieri, domani sono determinazioni temporali. Sotto quale riguardo viene qui determinato il tempo? Non viene determinato il tempo in quanto tempo. Non è dato il tempo in quanto tale, bensì viene solo indicato quanto tempo segna l’orologio. Nell’uso dell’orologio misuriamo il tempo. Con ciò non giudichiamo mai come stia la cosa con il tempo stesso, come che cosa esso stesso sia da determinare. Il discorso della determinazione temporale è ambiguo. Stabilire il tempo nell’uso dell’orologio, significa sempre stabilire quanto tempo è, che ora è. Nel guardare sull’orologio mi occupo sì del tempo, ma sempre riguardo a un quanto di tempo. Quante ore sono passate? ecc. E poi finalmente dice: Piuttosto, dobbiamo domandare: da dove prendo io lo ora e il poco fa e il non appena? Tanto questa domanda, quanto una eventuale risposta ad essa, sono possibili solo in quanto noi già abbiamo il tempo, più precisamente, in quanto per noi vige il tempo costituito da presente, passato, futuro. Giacché posso prendere qualcosa sempre solo se esso è per me da-bile, e questo che di da-bile è ciò che già sempre vige. Con la parola “vigere” si deve solo richiamare, preliminarmente, prudentemente, l’attenzione su ciò, che il tempo ci concerne e riguarda ovunque e costantemente. Riguardo al rapporto col tempo, dobbiamo solo prima considerare la distinzione tra il dato-cronologico attraverso l’orologio, anche il dato-cronologico non cronometrico, come oggi, ieri, domani, da un lato, e il darsi-del-tempo, dall’altro. Cioè, io mi do del tempo per fare una certa cosa. Non si dà alcun dato-cronologico senza un precedente darsi-del-tempo. Pure, resta ancora una questione: se nel nostro comportamento quotidiano, sia esso scientifico o prescientifico-pratico o extra-scientifico o religioso, in generale il tempo ci sia dato altrimenti che da una specie di dato cronologico. Qui incomincia a porre una questione. Il fatto di darmi del tempo, sta incominciando ad accennare a ciò che dirà poi in modo più esplicito, il tempo è sempre un “tempo per”, lui non considera più il tempo come un’entità, come l’essere, l’essere è sempre un “essere per”, è un progetto, e anche il tempo. Per questo giunge alla fine a questa sorta di “uguaglianza” fra essere e tempo, perché entrambi sono in quanto progetti, il tempo è quello che è in quanto è tempo per qualche cosa, in quanto in vista di qualche cosa. Il 18 gennaio 1965, a pag. 81, dice: In tutte le determinazioni temporali quantitative, compiute con l’ausilio della lettura dell’orologio, ci è dato solo il quanto tempo. Questo misurare il tempo, tuttavia, è possibile solo se già è dato qualcosa come il tempo, se noi abbiamo già il tempo. La misurazione del tempo presuppone costantemente lo “avere il tempo”. Che cosa significhi “avere il tempo” resta ancora oscuro. Nei rapporti quotidiani con il tempo non vi badiamo, tanto meno vi ci riflettiamo su propriamente. Invece, ci è noto un rapporto col tempo, che noi nominiamo nella locuzione “avere tempo”. In che senso è inteso il tempo, quando dico: “ho tempo”, oppure: “non ho tempo”? Si procede nel modo migliore partendo dall’asserzione: “non ho tempo”. Giacché qui salta agli occhi in modo particolarmente chiaro che in queste locuzioni il tempo è già sempre inteso come “tempo per qualcosa”. Come è da intendere questo carattere, che io nomino nel “per” in quanto carattere del tempo? Questo “per” viene ad aggiungersi al tempo, o nel “per” nomino propriamente qualcosa che è proprio del tempo? Anche se dico “domani”, non dico questo “domani” semplicemente come un vuoto domani, bensì sempre come un “domani” per ciò che “domani” farò o che “domani” accadrà. Quando dico “domani” questo “domani” è preso in un progetto. Non dico solo “domani”, perché uno i può chiedere “Domani cosa? Che succede domani?”, intendendo appunto il domani come “tempo per”, per qualcosa. Anche se il per che cosa è ancora tanto indeterminato, al tempo appartiene questo rimandamento a…, ovvero l’accennare verso un fare o un accadere. Se dico “domani” devo accennare a un fare o a un accadere, domani farò, domani succederà, ecc. Perciò chiamiamo questo carattere del tempo, cioè quello per cui esso è sempre tempo per qualcosa, il carattere della accennatività.  Vedremo mercoledì prossimo le implicazioni di tutto questo, che sono molto interessanti.