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30-11-2011

 

Come funziona il sistema linguistico dal momento in cui si avvia, dal momento cioè in cui si trasmettono delle informazioni a qualcuno. Questo qualcuno è predisposto a ricevere informazioni, ovviamente, nel caso delle macchine questa predisposizione occorre farla, e cioè occorre costruire dei circuiti logici, dopodiché tutto può funzionare. Nel caso degli umani questi circuiti logici sono già presenti e probabilmente hanno contribuito a tutto quanto, sono i circuiti neurali, che funzionano esattamente come dei transistor, cioè come dei circuiti logici che consentono il passaggio di corrente oppure no. Le informazioni che vengono trasmesse sono parola, nella logica vengono chiamate variabili enunciative, come dei sostantivi. Si impara a parlare quando si incomincia a dire come si chiama una certa cosa e insieme con questo a connettere questa cosa con altre cose, cioè si incomincia a creare una rete di connessioni; questa rete di connessioni è quella che consente alle cose di incominciare a esistere. Quando qualcuno mi dice che questo è un tavolo, allora io so come si chiama e so come usare questo termine all’interno di una combinatoria, ed è da questo momento che il tavolo incomincia a esistere, il tavolo insieme con altre cose, e tutte queste cose che un po’ alla volta incominciano a esistere perché le nomino e partecipano della struttura in cui sono inserite, tutte queste cose costituiscono quello scenario all’interno del quale o nel cui ambito gli umani reperiscono quella cosa che chiamano realtà, che è questo scenario che mano a mano si crea. Io vedo questo tavolo, ma il fatto che veda questa cosa di per sé non significa niente, vedo una cosa, cioè i miei occhi rilevano qualche cosa ma che cosa esattamente rilevino metafisicamente questo non lo saprò mai. Queste informazioni mano a mano si connettono con altre a creare una rete, ma di che cosa sono fatte queste informazioni? Sono fatte soprattutto di connettivi e delle variabili, le variabili non sono altro che i nomi che poi, una volta che sono inseriti, non variano più perché il tavolo è quello che si decide che sia. La logica invece ha bisogno di utilizzare delle variabili perché gli si può mettere qualsiasi cosa e in effetti se io dico “non tavolo”, il fatto che sia il tavolo o una qualsiasi altra cosa rimane il fatto che “non A” funziona sempre alla stessa maniera, cioè vuole dire che nego quella certa cosa, se io metto un “non” davanti a una certa cosa vuole dire che io questa cosa la nego. Queste informazioni, questo sapere, viene trasmesso esattamente come si trasmettono informazioni con una macchina, non con lo stesso sistema, perché gli umani non hanno porte USB, né tastiere su cui digitare informazioni ma le informazioni passato attraverso canali acustici, visivi per lo più, tattili, ma queste informazioni sono quelle che dicono come si usano i vari elementi, quelle variabili enunciative che di volta in volta diventano le cose, i nomi, so che se metto una “e” questo vorrà dire sempre che c’è una congiunzione, cioè a questa cosa aggiungo quell’altra, se c’è una disgiunzione so che posso dire questa cosa oppure quell’altra. Questo mette insieme, costruisce quello scenario di cui vi dicevo dove avvengono le cose, dove le cose esistono. Tale scenario è ciò che gli umani chiamano la realtà delle cose, che a questo punto non ha più nessun supporto metafisico, nessuno si domanda “le cose sono proprio così? Le cose sono quelle che sono?” la domanda metafisica è “perché le cose sono quelle che sono?” senza potere rispondere ovviamente, mentre noi sappiamo che sono quelle che sono perché un’istruzione ha stabilito così, non c’è nessun altro motivo. Gli umani sono fatti di questa serie di cose che si combinano in scenari e nel cui ambito esistono, vivono, possono dire di esistere, possono dire di fare, di vedere eccetera e fare tutto quello che fanno. Questi sono gli elementi di base delle istruzioni, degli elementi, dei nomi, delle variabili enunciative che poi sono i nomi e dei connettivi che dicono come connettere queste cose per costruire delle proposizioni, potremmo dire meglio ancora, delle formule ben formate, cioè proposizioni che siano riconosciute come tali all’interno del sistema, e il sistema le riconosce come tali, per fare il verso alla logica, se è soltanto se sono costruite in questo modo, se io utilizzo il “non” per dire una congiunzione non funziona più niente tant’è che questi connettivi sono invarianti, cioè ciascuna volta in cui interviene quel condizionale, quel condizionale sarà usato sempre esattamente allo stesso modo, questo significa “invariante”, cioè non posso intendere il “non” come una “e” un’altra volta come una congiunzione, una volta come implicazione, no, questo non è possibile. Una volta acquisiti questi elementi si connettono le proposizioni, ma come si connettono? Si connettono in un modo particolare, queste sequenze hanno la proprietà, la necessità di concludere con una affermazione che è sempre vera all’interno della sequenza, cosa vuole dire che è vera? Vuole dire che la conclusione di questa sequenza non deve contraddire la premessa da cui è partita, perché nel linguaggio non è previsto che un elemento non sia un elemento linguistico, cioè il linguaggio non può affermare di sé di non essere linguaggio, che è esattamente ciò che dicevamo rispetto alla parola, la parola non può negarsi se non usando la parola, non lo può fare perché nel caso potesse fare questo si dissolverebbe tutto, ma il linguaggio non può dissolversi perché si trova di fronte a uno sbarramento, a un limite invalicabile: per dissolversi deve confermarsi, cioè per costruire un qualche cosa che lo dissolva comunque questa cosa che costruisce conferma proprio quello che vuole distruggere.

Tutto ciò è molto schematizzato, ma ci dà modo di intendere come si costruisce questo sistema e come funziona, il fatto che debba concludere con una affermazione vera nell’accezione che abbiamo indicata, questo non è marginale, non è irrilevante né secondario, è determinante e irrinunciabile, è irrinunciabile per i motivi appena detti, cioè non può concludere con un’affermazione che nega la premessa che l’ha costruita, questo dicevo pilota la costruzione di qualunque sequenza di proposizioni: deve concludere con un’affermazione vera quindi qualunque tipo di proposizione, di affermazione, di sequenza avrà sempre comunque questa forma, dovrò cercare la conclusione perché la conclusione oltre a essere vera all’interno del sistema è quella cosa che serve a costruire altre proposizioni, soltanto se reperisco un elemento che non è autocontraddittorio posso attraverso questo o con questo costruire altre cose, cioè posso utilizzarlo come premessa per costruire altre cose. Il linguaggio non può costruire una sequenza a partire da un elemento che sa essere falso, un elemento è falso quando contraddice ciò che l’ha costruito, e quindi è come se non ci fosse. Questo determina l’andamento della costruzione di qualunque sequenza e adesso abbiamo molto rapidamente detto il modo in cui si costruisce, come funzionano i vari elementi, attraverso che cosa vengono costruite le sequenze e qual è la direzione di queste sequenze. A questo punto abbiamo il linguaggio in toto, tutto quello che serve per costruire qualunque cosa, ora mano a mano che il sistema si implementa cioè si amplia fino a diventare di una complessità immensa è chiaro che possono crearsi dei conflitti fra giochi linguistici. Un gioco linguistico non è altro che una sequenza che muove da certe regole stabilite e giunge alla conclusione, il linguaggio stesso può essere inteso come un gioco linguistico anche se è ridondante, però la struttura è sempre comunque la stessa: premessa, passaggi, conclusione; premessa, passaggi, conclusione etc. Dicevo che possono crearsi dei conflitti tali per cui c’è un arresto del sistema, da una stessa premessa per esempio possono trarsi due conclusioni opposte, e questo non è così insolito né così strano, come avviene questo fenomeno? È semplice, basta che la stessa premessa compaia una volta all’interno di un gioco e la volta successiva all’interno di un altro gioco, la stessa premessa, la stessa premessa comparendo all’interno di giochi differenti è ovvio che porterà a conclusioni differenti …

Intervento: nelle religioni l’esistenza di dio …

Anche questo certo, potremmo dire : dio esiste, è una certezza; è una premessa che quindi dovrebbe condurre sempre alla stessa conclusione: esiste un dio ed è buono, ed è questo, ed è quest’altro, dovrebbe concludere sempre così però questo non si verifica, perché di volta in volta questa premessa è situata all’interno di un gioco linguistico che può essere la tradizione, può essere una serie di credenze, che conducono a conclusioni differenti. Due premesse identiche che funzionano in giochi differenti, giochi diversi fra loro, ma la premessa è la stessa e quindi si crea una contraddizione che ovviamente è una contraddizione, potremmo dire, retorica più che logica. Il linguaggio non accoglie la contraddizione, la struttura non può essere autocontraddittoria perché se no non sarebbe mai neanche incominciato, non sarebbe mai esistito. Queste contraddizioni sono quelle cose che poi il discorso deve risolvere in qualche modo, trovando dei compromessi, ecco la formazione di compromesso, trova delle via per dare la priorità all’una oppure all’altra a seconda di quale gioco governa i due giochi linguistici, come se fossero sottoinsiemi questi giochi linguistici che hanno la stessa premessa ma conclusioni diverse, perché sono giochi diversi, sono all’interno di un altro gioco linguistico che deve risolvere il problema …

Intervento: quello che chiedevo prima era il fatto che questa premessa deve essere una premessa per entrambi i giochi cioè la stessa premessa non come altro elemento …

La premessa è la stessa, ma siccome questi giochi sono diversi per un infinità di motivi giungono a conclusioni che possono essere diametralmente opposte, come accade. Ciò che Freud descrive come nevrosi per esempio, in molti casi ha a che fare con questo, cioè con la difficoltà di risolvere un problema, un problema che non è propriamente logico ma retorico: si scambia un problema retorico con un problema logico, per cui si cerca la soluzione che non c’è, non c’è perché nessuna di queste premesse è necessaria, sono soltanto premesse di un gioco, come dire: la premessa del poker è che ci siano cinquantadue carte, il re superiore al fante eccetera, è necessario tutto questo? Certo che no, è una convenzione, sono regole per giocare, non c’è nulla di necessario in tutto questo per cui potremmo dire che non esiste questo problema, come diceva Wittgenstein “non esistono problemi filosofici, esistono problemi logici”, nel senso che ciascun problema filosofico è un problema retorico che scambia qualcosa che è assolutamente particolare al gioco con un universale, e quindi qualcosa di necessario. È anche per questo che abbiamo insistito molto spesso sulla necessità di ricondurre delle affermazioni, all’interno per esempio di una conversazione analitica, che si pongono come universali, a affermazioni particolari, cioè relative a quel gioco linguistico che si sta facendo, e che al di fuori di quel gioco non significano niente. Questo rende conto della difficoltà nella conduzione del discorso, e la difficoltà sta esattamente in questo: nello scambiare delle affermazioni particolari quindi relative a un gioco specifico con affermazioni universali che si immaginano essere comuni a qualunque gioco …

Intervento: la verità assoluta …

Esatto, delle verità trascendentali anziché specifiche, particolari. È questo il problema, perché ogni volta se questo universale, immaginato tale, viene ricondotto al particolare, il problema si dissolve immediatamente “sto affermando questo ma sono all’interno di questo gioco perché credo queste cose, le ho date per buone, e allora concludo questo, se queste cose le riconduco al gioco …”

Intervento: cerca il referente …

Quando si accorge che questa cosa vacilla ecco che allora bisogna trovare qualcuno o qualcosa che le confermi: il luogo comune, la certezza degli altri, l’autorità a seconda dei casi, è sempre un qualche cosa che dall’esterno deve confermare e qui, anziché risolvere il problema, lo amplifica perché essendo all’esterno, questo significa che poi questa cosa dall’esterno deve mostrare la sua validità, anzi la sua universalità. Supponiamo questa proposizione: “dio è il bene assoluto”, posso credere una cosa del genere fortemente e quindi sapere che questa proposizione non può mai essere falsa, perché se è dio, allora dio è il bene assoluto, tutto ciò che procede da questo può comportare delle contraddizioni, per esempio: “se dio è il bene assoluto perché sono morti cinquanta neonati eccetera …” per fare un esempio, se dio è il bene assoluto diventa difficile spiegare una serie di fenomeni che sono considerati veri e sono considerati veri perché si vedono, questo in base al concetto di realtà che già precedentemente è stato considerato assolutamente certo. Tutte certezze cozzano tra loro, però se questa proposizione che afferma che dio è il bene assoluto non viene presa come un universale, come una certezza totale e assoluta ma come un proposizione retorica la cui validità è piuttosto discutibile, ecco che allora non ci sono più contraddizioni perché non contraddice più niente.

È così che funziona un percorso analitico: tutto ciò che viene ritenuto assolutamente vero crea una quantità innumerevole di problemi, di acciacchi, di ansie eccetera, ma scompare necessariamente se ricondotto a una affermazione particolare e arbitraria, perché non è più sostenuto da niente. Se io non credo vera questa cosa, non credo veri neanche i suoi effetti, e neanche tutte le derivazioni che da questa procedono, e quindi si svuota tutto …

Intervento: una verità contingente …

La verità effettuale è l’opinione in definitiva, parlare di verità è sempre complicato, complicato perché da adito a infiniti equivoci, ci sono varie accezioni di verità a partire dal modo in cui il pensiero greco ha indicato la nozione di verità: alètheia, orthotes, episteme. Alètheia la verità quella che appare, quella che, come dirà Heidegger che viene alla luce, viene alla luce e appare, compare davanti agli occhi, orthotes invece è la correttezza dell’enunciato, sarebbe l’adæquatio rei et intellectus, cioè la correttezza dell’enunciato, dico: “Eleonora è qui alla mia sinistra” mi giro a sinistra, guardo, riconosco Eleonora “sì questo enunciato è vero” è vero perché l’ho verificato, è corretto quello che dico con ciò che è. È la posizione di Tarsky, quando l’enunciato che dice che “la neve è bianca” è vero? Quando la neve è bianca, solo che il primo enunciato è tra virgolette perché è il nome dell’enunciato il secondo no perché rappresenta la cosa; è l’ultimo è l’episteme, l’episteme sarebbe la certezza scientifica, quella argomentata e dimostrata. Occorre precisare cosa si intende con verità. Ma stavamo dicendo invece che la direzione che prende ogni sequenza punta a concludere con un’affermazione vera, vera nell’accezione che ho indicata prima e cioè che non contraddice le premesse, quindi non contraddice se stessa perché in questo caso è nulla, e qui ci sarebbe una notazione da fare riguardo al principium omnium firmissimum, che significa il principio più saldo di tutti, il principio di non contraddizione, che è da tenere in conto perché rappresenta effettivamente l’incontrovertibile che è la parola. La parola in nessun modo può contraddire se stessa: dal momento stesso in cui si enuncia, da quel momento è incontrovertibile cioè non può negare se stessa in nessun modo, perché se nega se stessa si conferma, questo è il limite oltre il quale non si può andare. Dopo la caduta infinita nell’abisso, alla fine che cosa si trova? Si trova qualcosa oltre il quale non è possibile andare, e ciò oltre il quale non è possibile andare è ciò che ha consentito questa caduta e cioè la parola. La parola non può negare se stessa, questo è il principio inviolabile, è l’incontrovertibile, perché non c’è modo di negare una cosa del genere, e questo è ciò che pilota tutto il linguaggio. Non abbiamo mai posto il principio di non contraddizione come una delle regole fondamentali, però potremmo dire che nel momento in cui la parola si instaura, da quel momento non può non essere instaurata, non può non esserci oltre, al fatto che è l’unica che può dire che c’è. Per questo è l’inviolabile, perché la parola non può negare se stessa, dicendosi la parola non può dire di sé che non si sta dicendo, se non confermandosi, è questo il principio di non contraddizione.