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30 ottobre 2024

 

Filone di Alessandria Commentario allegorico alla Bibbia

 

Filone, sempre leggendo l’introduzione di Radice, ci sta introducendo alla questione dell’ermeneutica. L’ermeneutica è la teoria dell’interpretazione o, secondo alcuni, l’arte dell’interpretazione. Però, questo non è che ci dica granché, anche perché a questo punto occorre intenderci su come definiamo interpretazione. Introducendoci all’interpretazione, ci sta mostrando, in effetti, come funziona e come nell’interpretazione si tratti sempre di una operazione di riconduzione dei molti all’uno, come dice qui, a pagina 60. Non solo la polivalenza dell’allegoresi… La polivalenza dell’allegoresi sono i molti. …ha una sua logica, ma anche il passaggio da un significato all’altro, ossia la dinamica della allegoresi medesima, ha le proprie giustificazioni. In generale, l’interpretazione dei personaggi e delle narrazioni bibliche come simboli (e quindi la liceità del passaggio dalla lettera ad ulteriore significato allegorico) ben si inquadra, come giustamente gli studiosi rilevano, nella ontologia generale di Filone di estrazione platonica, che concepisce le cose sensibili come copie che rimandano ai trascendenti modelli intelligibili (le Idee). Ecco, qui ci ha già detto come funziona e qual è la liceità di questo passaggio: le cose che vediamo non sono altro che copie delle idee, ed è questo che garantisce che, interpretando una certa cosa, questa interpretazione sarà corretta, perché questa cosa non è altro che una copia dell’idea, idea che sta lassù. Il passaggio tra i vari piani e le corrispondenze sussistenti tra questi, inoltre, ha pure una giustificazione nel quadro di questa ontologia che concepisce non solo il cosmo fisico in generale come copia dell’intelligibile, ma stabilisce altresì una corrispondenza tra cosmo e uomo, concependo l’uomo come un cosmo in piccolo, ossia come un microcosmo. Ci sta dicendo quali sono gli elementi su cui si fonda, su cui si basa l’interpretazione, che cosa la giustifica. Scrive il Pèpin: “Per filone, come per gli altri pensatori alessandrini, esiste un’analogia di struttura fra il mondo sensibile e il mondo intelligibile e l’essere umano considerato come microcosmo, così che un dato verificato nell’uno di questi tre domini varrà altresì anche fra gli altri due... È l’induzione: se è così per uno, sarà così anche per l’altro. …quindi, quando Filone, mediante allegoria, deriverà da un dato della Scrittura un insegnamento relativo alla costituzione del mondo materiale, o a quello del mondo ideale, o a quello dell’uomo, lo estenderà normalmente agli altri due domini senza che si debba parlare di nuova allegoria, ma semplicemente di sviluppo dell’allegoria originaria”. Ecco come funziona. Qui ci ha dato proprio l’ossatura dell’interpretazione, che poi è sempre allegorica, e cioè l’analogia. Questo è il fondamento dell’interpretazione allegorica. Che poi, come sappiamo, è anche il fondamento della logica. Ora, questo ha degli effetti, naturalmente. Innanzitutto, occorre credere che ci sia un’analogia tra il cosmo e il microcosmo, cioè l’uomo. Cosa lo fa credere? Nulla, naturalmente, ma è sempre l’analogia che viene in soccorso: ci sono certi fenomeni, qualcosa del genere lo riscontriamo anche di là e, quindi, se va bene per l’uno, andrà bene anche per quell’altro. Dicevo prima degli effetti, perché è come se qualunque cosa, per analogia, richiamasse a qualcosa di superiore - cosa ripresa da Plotino un secolo dopo - c’è sempre qualcosa di superiore; per Filone è l’Uno, naturalmente. A pag. 61. Ora, la vita interiore si svolge fra i due poli opposti della fiducia dell’uomo in sé e della fiducia in Dio; ma, secondo Filone, solo attraverso il riconoscimento della propria nullità l’uomo può giungere alla fede in Dio. Cioè, deve riconoscersi una nullità, cosa che nei greci è totalmente assente. Per Filone si affaccia questa questione, poi ripresa da Plotino, perché per quest’ultimo, a fronte dell’Uno, tutti quanti siamo delle nullità. Poi, è diventato il Dio dei cristiani. È anche l’impronta che ha consentito in seguito la creazione dell’anima bella: l’anima bella si pone come nullità, proditoriamente, per ingannare l’altro.  A pag. 66. La filosofia greca, come è noto, a causa di una serie di presupposti di carattere metafisico - che si consolidano via più dagli Ionici agli Eleati ai Pluralisti, da Platone ad Aristotele ai sistemi dell’età ellenistica, non giunse a guadagnare il teorema della creazione. Cioè, per i Greci non esiste la creazione ex nihilo, come poi incomincerà a esistere con Plotino. Che poi non è neanche creazione: in Plotino è un’emanazione, anzi, una processione, per cui si espande e si rivolge agli altri. In particolare, il principio eleatico, secondo il quale “nulla deriva dal nulla” rimase sostanzialmente il punto di partenza di tutte le prospettive metafisiche dell’antichità, le quali, di conseguenza, o negarono la generazione del cosmo, o la intesero come un passaggio da una certa forma di essere ad un’altra forma di essere. La maggior parte degli storici della filosofia e della teologia sono concordi nel rilevare che la dottrina della creazione viene formulata per la prima volta nell’ambito della filosofia patristica e viene ulteriormente elaborata nell’ambito della Scolastica, e, in particolare, che essa nasce dall’impatto della riflessione filosofica con i testi sacri del Vecchio e del Nuovo Testamento. Ma, per la verità, l’impatto della riflessione filosofica con i testi biblici cominciano ancora prima della Patristica, in ambiente alessandrino, soprattutto con Filone, come abbiamo già sopra rilevato. Insomma, attribuisce effettivamente a Filone questa idea della creazione ex nihilo, poi ripresa da tutti quanti, naturalmente. E sottolinea giustamente come fosse totalmente assente presso i Greci; per loro la creazione dal nulla non è neanche pensabile, dal nulla viene nulla. A pag. 68, Nel De opificio mundi, (la creazione del mondo) Filone parla della materia di cui Dio si è servito per produrre il cosmo fisico, senza specificare espressamente la creazione di questa materia; tuttavia, in alcune opere giunteci in traduzione armena, egli fa riferimento alla creazione della materia. /…/ Infine, in più punti, Filone esprime una concezione della creazione come dono gratuito di Dio, vale a dire come grazia, la quale concezione implica un radicale distacco dal sentire e dal pensare greco, in quanto postula strutturalmente la nullità della creatura… È fondamentale questo concetto della nullità della creatura a fronte del Dio, dell’Uno. …e quindi il suo difendere in maniera del tutto nuova dal Creatore. Questa è un’invenzione di Filone, non c’era prima di lui; i Greci non sapevano neanche di cosa stesse parlando. Infatti, quando Paolo andò ad Atene a spiegare la novella agli ateniesi, loro lo mandarono via malamente, perché per loro il concetto di creatio ex nihilo non era neanche pensabile. E, invece no, lui insisteva su questa cosa; poi ha avuto successo con i pastori, con i pescatori, con quelli che dopo si sarebbero chiamati poveri di spirito. A pag. 72.  Questa ipotesi (della creazione), si noti, si differenza dalla terza nella misura in cui non intende la materia increata, ma la suppone creata. Dunque, in un primo momento, Dio creerebbe la materia, e, in un momento successivo, la ordinerebbe. Questo è un altro concetto: Dio come ordinatore. Le cose ci sono, sì, però, non sono messe così a caso, qualcuno le ha ordinate. Questa idea della materia, che viene creata oppure è increata: se è increata vuole dire che precede la creazione; se è creata, allora c’è la creatio ex nihilo. Però, è sempre una materia che è infima, perché è il grado più basso tra tutte le cose sensibili. Abbiamo visto con Plotino, il quale la mette proprio al livello più basso pensabile, in contrapposizione con l’Uno, cioè, l’Uno e la materia sono agli antipodi. Cosa che non esisteva per gli antichi: in Aristotele materia e forma sono un tutt’uno, non c’è forma senza materia, non c’è materia senza forma. Prosegue. Ulteriori conferme si desumano dal secondo libro del De Providentia, che, come è noto, si è concepito in forma di dialogo tra Filone stesso e Alessandro (probabilmente un nipote di Filone). Fra i vari problemi sollevati da Alessandro, questo ci interessa in modo particolare: “Inoltre, se è proprio della natura stessa l’essere stata creata, conviene esaminare anche il problema della sua quantità: perché infatti questa non è né scarsa né eccedente?”. A tale problema, fortunatamente, possediamo la risposta di Filone nel testo greco originario, il cui contenuto è il seguente: “In relazione alla quantità della sostanza, nell’ipotesi che la materia sia stata veramente creata, ecco che cosa si deve osservare. Per la creazione del mondo, Dio ha calcolato la quantità di materia esattamente sufficiente al fine che non ce ne fosse né troppa né poca. Ha calcolato, ha fatto due conti. Quindi, c’è la prima idea di un Dio calcolatore, di un Dio ordinatore. Sapete che in francese il computer si chiama ordinateur, ciò che ordina, che mette in ordine le cose. E questa idea, come abbiamo visto in varie occasioni, è l’idea principe di tutta la cultura occidentale, cioè che le cose siano, sì, ma secondo un ordine, un ordine prestabilito da qualcuno. Ma questo ordine c’è perché, se non c’è l’ordine e, allora, non sappiamo che cosa viene da che cosa - come pensava Democrito, non abbiamo più la possibilità di, non tanto di inferire, ma di avere una garanzia di un’inferenza. Cosa garantisce l’inferenza? Che una certa cosa venga prima di un’altra e, quindi, sia la causa dell’altra: post hoc ergo propter hoc, se una cosa viene dopo, questa è causata da quella che viene prima.

Intervento: …

Eh, sì, perché bisogna pensare che c’è necessariamente un’origine, perché senza l’origine non sappiamo qual è la successione delle cose e, se non sappiamo qual è la successione delle cose, non c’è nulla che garantisca che da una cosa si passi a quell’altra, per cui non è possibile costruire concetti veri, perché il concetto vero è quello che segue naturalmente attraverso quello precedente.  A pag. 79.  Scrive, dunque, il Bréhier: “Il contenuto positivo della fede è la credenza che Dio è la causa unica di tutte le cose e che tutto Gli appartiene: è un principio più pratico che speculativo; non si tratta di spiegare, mediante esso, il mondo, ma di negare una causalità effettiva sulla nostra vita ai falsi beni esteriori o corporei, come la ricchezza, la gloria o la salute. Non è dunque un’affermazione teorica, una conoscenza, che costituisce la fede, ma una volontà attiva che si ritira dalle cose riportando a Dio tutte le Sue Potenze. Ma è quella volontà che muove necessariamente dall’idea che aveva espresso prima, e cioè che ciascuno è una nullità a fronte dell’Uno, del Dio. Il sentimento dominante in questa fede è quello dell’universalità della grazia divina. La grazia non è riservata ad un piccolo numero di uomini, giacché, al contrario, tutto ciò che esiste è una grazia e un dono di Dio. Tutto ciò che noi possediamo è come un prestito di cui bisognerà rendere conto. Dio. Qui c’è già tutto il cristianesimo. È Lui che ci ha donato a noi stessi e che ha donato le parti del mondo a loro stesse, e queste parti le une alle altre. È forse con questo sentimento interiore della grazia universale che Filone si è avvicinato di più all’idea di creazione ex nihilo. Perché questa creazione ex nihilo occorreva in qualche modo giustificarla, sostenerla. Lui viene anche dalla lettura dei filosofi greci, naturalmente; infatti, il suo ideale è quello di trovare nella filosofia greca una giustificazione alla Bibbia; quindi, è alla ricerca di qualche cosa e trova la grazia, un qualche cosa, che è stato donato agli uomini da qualcuno, cioè da Dio. Perché Dio lo avrebbe fatto? Questa è già un’altra questione notevole, su cui poi nel Medioevo si è discusso parecchio. Questa domanda “perché lo avrebbe fatto?”: se uno fa una cosa del genere è perché o vuole qualcosa o gli manca qualche cosa, quindi, non è più Dio. Ecco, allora, la processione: il figlio procede dal padre, lo spirito procede dal figlio e dal padre, è una processione. Dio crea il figlio non perché gli serva qualcuno, ma il figlio è un’eccedenza di Dio, dell’Uno che deborda e a un certo punto sorge. Plotino poi arriverà a dire che è Dio che pensa a se stesso, pensando a se stesso fa tutte queste cose ed ecco che queste cose esistono; esistono perché sono nel pensiero di Dio e Dio deve continuare a pensare. Se dovesse smettere di pensarle, tutte queste cose scomparirebbero. A nostro avviso, non si tratta di un avvicinamento al concetto in questione a semplice livello intuitivo-emozionale, ma di un teorema che scaturisce dalle premesse che abbiamo sopra delucidato. Del resto, i due testi seguenti provano a quale livello di elaborazione Filone aveva portato la dottrina della “grazia universale”: “Il “trovar grazia” non significa solamente, come credono alcuni, essere graditi, ma significa anche questo: il giusto, cercando la natura delle cose, si imbatte in questa unica grande scoperta, che tutto è grazia di Dio e nulla è in grazia del creato, il quale non ha niente in suo possesso, mentre ogni cosa è possesso di Dio… Qui c’è già in nuce l’idea di Plotino, cioè si accorge dell’Uno quando ci si apre all’Uno, è una cosa di un sentimento interiore. E a quanti ricercano quale sia l’origine del creato, si potrebbe dare la migliore delle risposte: la bontà e la grazia di Dio, che Egli ha profuso sul genere inferiore. Doni, benefici e grazie divine sono appunto tutte le cose del cosmo e il cosmo medesimo”. Quindi, sarebbe forse meglio accettare la spiegazione seguente: l’uomo moralmente nobile, essendo amante della ricerca e ricco di sapere, in tutte le ricerche che ha fatto ha trovato questa suprema verità, cioè che tutte le cose sono grazia di Dio, terra, acqua, aria… Ma Dio non ha fatto alcuna grazia a se stesso, ma il mondo è stato dato al mondo, e le sue parti sono state date a se stesse… Per la prima volta nella storia del pensiero, Filone individua ed esprime il grande concetto che tutto è grazia, che è una cifra stupenda della creazione globale. Per la prima volta nella storia appare il concetto che dobbiamo tutto a Dio, con tutto ciò che questo comporta, naturalmente. A pag. 82. Quando, pertanto, Filone si rifà allo schema aristotelico delle quattro cause, distinguendo una causa efficiente, una formale, una materiale e una finale, cambia radicalmente il senso metafisico della tavola delle cause, immettendo un contenuto tutto nuovo anche negli schemi dello Stagirita. Infatti, la causa efficiente diventa il Dio Creante; il fine diventa la bontà di Dio e, dunque, Dio stesso o, meglio ancora, una sua Potenza; la forma e la materia, infine, diventano cause causate. La causa efficiente, quella che agisce, è Dio: questa sarebbe l’innovazione di Filone rispetto ad Aristotele. Mentre per Aristotele la causa efficiente è l’artigiano che fa la statua, qui, invece, la causa efficiente è Dio. Naturalmente, c’è l’impronta di Platone in tutto ciò: il demiurgo. Sarebbe interessante leggere il commento di Proclo al Timeo di Platone. Purtroppo, non si trova più. A pag. 84. Abbiamo più volte insistito, nei capitoli precedenti, sul carattere sintetico fra cultura greca e teologia e ebraica del pensiero di Filone, e proprio il suo concetto di creazione ne è una prova emblematica. La creazione globale che emerge dalla Genesi e la produzione demiurgica che emerge dal Timeo, vengono mediate e sintetizzate nella prospettiva della creazione in due “momenti”. Dalla Bibbia, l’Alessandrino trae l’idea ultimativa; dal Timeo tra invece la sua scansione, ovvero la sua articolazione logica. La componente ellenica non ha affatto intaccato il fondamento ebraico, ma è stata utilizzata a scopi di una esegesi del medesimo. Né che il momento ebraico ha scardinato o distrutto quello greco, bensì lo ha potenziato. Questa è una sua opinione, che possiamo non condividere. Ma per capire meglio tutto questo, il concetto di creazione va collegato con il nuovo concetto di Dio. È Filone che ha combinato questo guaio, ancora prima di Plotino, perché lui ha fatto credere che la Bibbia dicesse il vero utilizzando argomentazioni tratte dalla filosofia greca, in particolare da Platone. Siamo al capitolo quarto, alla conoscibilità di Dio: Dio è conoscibile o è inconoscibile? A pag.88. A cogliere, sia pure parzialmente, l’essenza divina si giunge solo per via di rivelazione; invece, alla dimostrazione della Sua esistenza si giunge per via di ragione, cioè secondo una via che muove dal cosmo e giunge al suo Artefice: un itinerario che Filone stesso definisce “dal basso all’alto”. Orbene, in questo itinerario di pensiero… Fino all’itinerario dell’anima a Dio, di Bonaventura, è sempre questa l’idea: dovere ascendere, perché siamo nullità – e qui è Filone il colpevole -, quindi, non possiamo che ascendere. …l’uomo scopre una moltitudine di carattere divini, ciascuno collegato al rapporto tra Dio e il cosmo. In tal modo, tutta la serie di epiteti divini che l’alessandrino usa in maniera sistematica e che parrebbe riferirsi all’essenza di Dio, in realtà è rivolta a definire il rapporto tra il Creatore e il creato. Non Dio: qui c’è già in nuce la teologia negativa o apofatica, come dicevano i medioevali, cioè quella teologia che dice tutto ciò che Dio non è, perché di Dio possiamo soltanto dire ciò che non è, non possiamo dire che cos’è. Lui non è conoscibile, noi possiamo conoscere solo degli indizi. Possiamo venire a sapere qualche cosa del creato, del cosmo, ma lui non possiamo conoscerlo mai, perché sennò saremmo noi stessi degli dei, come volevano gli gnostici. Siamo così in grado di spiegare le “oscillazioni” di Filone tra la tesi della conoscibilità e quella della inconoscibilità di Dio e di mediarle in maniera sintetica. Non si tratta di posizioni contrapposte, ma complementari. Filone cerca sempre di mettere insieme le cose. Esiste cioè, per Filone, una gradazione gerarchica della conoscenza di Dio, che corrisponde al processo di ascesa dell’anima: il vertice è fuori dalla portata umana - giacché Dio è “ineffabile, inintelligibile e inafferrabile” -; ma la base e i livelli intermedi sono a portata dell’uomo, anzi costituiscono l’eredità propria del sapiente. Quindi, possiamo sapere, sì, alcune cose tramite degli indizi, il cosmo, il creato. E come lo sappiamo? Perché, se qualcosa esiste, vuole dire che qualcosa o qualcuno l’ha creato: è questo il motivo fondamentale. Vedete così, intanto, di passaggio, la distanza infinita tra il pensiero di Aristotele e di Filone, ma anche di Platone, ché è stato lui a dare l’impronta di tutto ciò. Infatti, Filone è medioplatonico, non è ancora neoplatonico, ma sempre platonico rimane. Tutto il pensiero, dalla fine del primo secolo dopo Cristo, è pilotato da Platone, prima con i medioplatonici e poi con il neoplatonismo.

Intervento: È come se il ragionamento avvenisse sempre per analogia.

E che altro sennò? Non c’è un altro modo. C’è l’analogia oppure utilizzando quell’altra figura retorica, l’auctoritas: Platone è stato un grande filosofo, un grande pensatore; quindi, se lo dice Platone, è così. Possiamo noi dire qualcosa contro? Assolutamente no. A pag. 92. L’Alessandrino si trova di fronte a un problema dei più assillanti e parimenti dei più ardui: posto che la natura divina sia totalmente altra rispetto a quella umana e cosmica, ossia posto che la sua trascendenza sia assoluta, come si dimostra, come si dimostra la Provvidenza di Dio sul mondo e sulla storia dell’uomo? Se sta lì immobile ed eterno, in che modo agisce sull’uomo? Perché? Chi glielo fa fare? Filone non ha modo di eludere questo dilemma, perché vi si trova costretto dallo stesso contenuto del testo biblico in generale, e in particolare dal senso più intimo della sua fede giudaica, per la quale il Dio ineffabile e assolutamente trascendente della Sacra Scrittura è pur sempre il Dio d’Israele, impegnato nelle vicende del Suo popolo e in un disegno di natura anche mondana. E, allora, è conoscibile questo Dio che è totalmente altro, totalmente trascendente, oppure è anche un po’ immanente? Come la risolviamo? D’altra parte, l’apporto della teologia razionale greca non trae Filone dalle difficoltà; anzi gli complica il problema, perché la luce della ragione non fa che mettere in evidenza questa aporetica convivenza tra i due aspetti di Dio. A pag. 93. A fronte di affermazioni come quelle espresse nel già citato passo delle Allegorie, troviamo il testo particolarmente eloquente del Decalogo: “…l’uomo, questa creatura eccellente, è, per la parte più alta del suo essere, la sua anima, strettamente imparentato con il cielo, e pure, secondo l’affermazione più diffusa, al Padre dell’universo, dal momento che, ricevendo l’intelletto, è stato dotato della copia e dell’imitazione più fedele del mondo delle Idee eterne e beate. Tale testo è significativo perché, ribadendo l’affinità del noûs con il mondo ideale e dell’intelletto dell’uomo con Dio, afferma in modo chiaro l’Incorporeità di Dio. Ma, nel contempo, il passo fa allusione (peraltro implicita anche nel De opificio) ad una gradazione gerarchica della sfera spirituale, secondo vari livelli di purezza: cioè, l’intelletto umano è, sì, di natura soprasensibile, ma non per questo può in tutto assimilarsi a Dio. Di conseguenza, l’alternativa da cui ci siamo mossi pare essersi scostata di piano, ossia sembra essersi collocata nell’ambito del soprasensibile. Qual è l’operazione di Filone di fronte all’aporia accennata prima? Dice che, sì, questa aporia rimane, ma non a livello di Dio, rimane a un livello più basso. È la stessa questione della contraddizione, rilevata in seguito dai teologi medievali: la contraddizione c’è, l’uno e i molti, e questi molti non si riesce a eliminarli, però, questa contraddizione non c’è in Dio, anzi, è lui che l’ha creata. La contraddizione c’è ma al di sotto di lui; lui è al di sopra della contraddizione ed è lui che l’ha creata, perché altrimenti ci starebbe una cosa non creata da lui; quindi, non può essere stata creata che da Dio, e se l’ha creata ci sarà un motivo. A pag. 96. …per il nostro filosofo non vale ancora fino a titolo questo che può dirsi di Plotino: “L’infinito plotiniano non è l’infinito dello spazio, né l’infinito della quantità legata alla spazialità”, ma è l’infinito metafisico; tuttavia, è indubbio che tutti gli elementi che portano a tale sintesi siano già inequivocabilmente presenti, anche se essi risultano distribuiti in passi e in contesti diversi, e anche se Filone non perviene ad un’unica definizione riassuntiva globale. L’infinito filoniano è l’infinito metafisico, che, come l’Uno, non ha spazio, non è misurabile, non è verificabile, eliminabile, ecc. A pag. 97. Dunque, paradossalmente, è proprio il fatto che il nostro filosofo non faccia uso del termine àpeiros in riferimento a Dio, gioca a favore di quanto abbiamo detto, ossia comprova che egli ha elaborato un senso concettualmente più nuovo e più vero della “infinitudine”, e che si è mosso verso il senso metafisico, espresso nella maniera più significativa nel termine aperigraphos, come sopra abbiamo evidenziato. Aperìgraphos: a perì, senza perimetro; graphos, la scrittura: cioè, è come un qualche cosa che si disegna ma senza limiti. Dire che è metafisico lo esonera dalla necessità di porre l’infinito più o meno misurabile, o come l’indelimitato di Anassimandro, che non può essere limitato in alcun modo. Quindi, questo termine “metafisico” può anche essere utilizzato in varie maniere, a seconda della dell’interpretazione che si vuole svolgere. A pag. 98. Si prendano in considerazione i seguenti testi: “È dono grandissimo avere per architetto Lui, che è stato l’architetto del mondo intero. Non fu Lui, infatti, a plasmare l’anima del malvagio, perché il male è nemico di Dio e l’anima intermedia non la foggiò da solo…, perché questa, al modo della cera, era predisposta ad accogliere le divergenti qualità del bene e del male”. “Non bisogna, infatti, tutto confondere e mescolare, rappresentando Dio come causa di tutto indistintamente, ma bisogna distinguere nettamente, non attribuendo a Lui che i beni”. Questi passi - si noti - non sono isolati e, quel che più conta, essi hanno una precisa giustificazione filosofica. È evidente che l’infinita potenza di Dio trova un limite nel male: potremmo anzi dire che trova un limite nella Sua stessa infinita volontà. E siccome, per Filone, il male si origina dalla materia, è logico ritenere che Dio stesso non abbia in sé traccia di materia e, in particolare, che sia privo degli organi sensibili, i quali sono materiali e veicoli di conoscenza materiale. Esiste, allora, una insolubile contraddizione tra l’asserita onnipotenza ed onniscienza divina e i limiti che esse trovano nel male nella materia? Questione poi ampiamente dibattuta nel Medioevo dai, teologi: Dio vuole il male? In effetti, possiamo ritenere che le due tesi siano strutturalmente inconciliabili, e non solo per un inadeguato approfondimento da parte dell’Alessandrino. Invero, qui è in gioco il problema della libertà umana, ossia della possibilità del peccato. Dio, ovviamente, non può volere il male, ma neppure può non volere che l’uomo sia libero. La domanda “se Dio è buono, donde il male?” non ammette risposta, se non sulla base di un nuovo concetto di libertà e di un nuovo concetto di amore, che Filone ancora non ebbe, e che solo il cristianesimo ha guadagnato.