INDIETRO

 

 

30 ottobre 2019

 

La fenomenologia dello spirito di Hegel di M. Heidegger

 

C’è una questione a cui stavo riflettendo in questi giorni in seguito alle letture che stiamo facendo. Una questione che si riassume in questo modo: il linguaggio parla a sé, di sé, e occorrerebbe aggiungere che non può fare altrimenti. Tutto ciò che Hegel ci ha condotti a pensare, e anche Heidegger in questo caso, sembra portare in questa direzione, nel senso che tutto ciò che c’è è per la coscienza e nella coscienza, e cioè, come dice lo stesso Hegel, è la coscienza che ritorna in se stessa. Quella cosa che chiamiamo oggetto è, in effetti, sempre per e nella coscienza. Come dire che la coscienza, e potremmo dire il linguaggio, in effetti, non fa nient’altro che parlare da sé di sé, poiché anche quando parla dell’oggetto in realtà parla di sé. Hegel poneva l’oggetto come un sapere, e il sapere è il linguaggio. Questo ovviamente altera tutto ciò che si pensa generalmente, ponendo una questione di notevole interesse, e cioè che tutto ciò che una persona dice, fa, pensa, in realtà è sempre ed esclusivamente il suo discorso, comunque il linguaggio, che parla di sé e che parla a sé, perché è l’unico interlocutore possibile. Il linguaggio non ha un interlocutore fuori di lui. Chi sarebbe? Hegel ha insistito molto su questo, e cioè l’oggetto è sempre per la coscienza; potremmo dire che una qualunque cosa è per il linguaggio, ed è nel linguaggio che accade. Dunque, il linguaggio parla di sé continuamente e a sé, perché non ha altri interlocutori. Tutto ciò comporta un altro corollario: tutto ciò che gli umani hanno inventato, e che possono inventare, nel dire, nel fare, nell’operare, ecc., è già tutto presente nella struttura, nel funzionamento del linguaggio. Quando si parla di invenzione, come accade per esempio nella scienza – si dice che la scienza ha inventato o scoperto una certa cosa, una certa legge – in realtà tutto ciò era già da sempre lì, era già sempre tutto presente. È l’intero, di cui già ci parlava Severino. Nel momento in cui si avvia il linguaggio c’è l’intero, c’è già tutto; il suo funzionamento, la sua struttura, è presente e, quindi, sono presenti tutti gli elementi, tutte le cose che il linguaggio è in condizione di costruire. Naturalmente, non è che abbiamo già inteso tutto ciò che il linguaggio può fare, perché può fare sicuramente infinite cose più di quelle che ha fatto finora. Potremmo anche dire che tutto ciò che quella che chiamiamo scienza ha inventato, scoperto, in questi ultimi anni, era già presente da sempre. Non lo si poteva vedere per una serie di motivi, anche buoni, ma c’era già. La condizione per fare tutto ciò che è stato fatto, per tutto ciò che si farà, è già presente. Koyré diceva qualcosa abbastanza vicino quando parlava della filosofia greca: è stata la metafisica a consentire l’invenzione della scienza, il progresso, quindi, la costruzione di una serie di cose, ma la metafisica non è altro che la struttura stessa del linguaggio. Come dire che, per dirla in modo un po' rozzo, tutte le invenzioni e le scoperte che si faranno in futuro sono già qui, adesso. Non le vediamo e non le vediamo perché ci sono ancora degli impedimenti, delle questioni da risolvere, ma sono già presenti in nuce. Ponendo la questione in questi termini, si fa una sorta di passo in avanti nell’intendimento del funzionamento del linguaggio: si incomincia a considerare che nel momento stesso in cui sto parlando, il mio dire si sta rivolgendo al linguaggio e sta parlando di linguaggio, cioè, del suo funzionamento, dei vari modi in cui le cose si connettono tra loro. Ciascuno non ha altro interlocutore che non sia il linguaggio; poi, certo, crede, immagina, che l’interlocutore sia qualcuno, di rivolgersi a un qualche cosa, ma di fatto, proprio seguendo Hegel, appare che le cose siano in tutt’altro modo, e cioè che ciò a cui mi rivolgo non può essere altro che la coscienza e, quindi, il linguaggio, ovviamente. Ma vediamo come procede qui Heidegger. A pag. 101. Siamo noi a fare questa distinzione tra essenza ed esempio, tra immediatezza e mediazione. Pure, Hegel dice espressamente: “Questa differenza… non la facciamo soltanto noi, ma la troviamo nella stessa certezza sensibile”. Ma ciò non significa che noi in generale non facciamo questa distinzione, ma soltanto che la troviamo, come troviamo per strada un coltello che pure di certo non abbiamo fatto noi. Hegel non dice: noi non facciamo questa distinzione, ma la troviamo, dice piuttosto: la “differenza… non la facciamo soltanto noi”. Certo la facciamo, dobbiamo farla, anzi averla già fatta, per poterla trovare. E noi certo l’abbiamo già fatta, la distinzione tra l’immediatezza e la mediazione, perché questa distinzione, il fare questa distinzione non è altro che il carattere fondamentale del nostro comportamento nel sapere assolvente. Possiamo intendere il sapere assolvente come il sapere assoluto, quello spirito che già da sempre siamo. Nella perspicua luce di questa distinzione, noi vediamo già da prima tutto ciò che ci deve venire incontro. Incominciamo a vedere tutto ciò che ci deve venire incontro, ma lo vediamo mano a mano, non lo vediamo tutto d’un colpo. Ma esso deve venirci incontro, dobbiamo stare a guardare come ciò che ci viene incontro si mostra in questa luce, cioè come esso stesso ha in sé questa distinzione. Così come la distinzione, la differenza non è che la faccio io, la differenza fa parte del linguaggio, è una struttura che io incontro, che trovo, la differenza tra il mio dire e ciò che ho detto. Quindi, vedete che anche qui sembra alludere al fatto che andiamo incontro a qualcosa che è già presente; non lo vediamo, ma mano a mano gli andiamo incontro. A pag. 103. L’oggetto, l’essente-in-sé, viene dato a vedere dalla certezza sensibile quale sua verità. L’oggetto è, ora, “di fatto” così presente nella certezza sensibile come essa vorrebbe fare sembrare? Torna dunque la domanda se “di fatto”, in verità, sia così. (in quale, e secondo quale verità? Secondo quella che per noi, coloro che sanno in modo assoluto, è sin dall’inizio determinante). Quindi, le cose stanno così come noi pensiamo, e soltanto in base alla verità così com’è per noi. Come dobbiamo rispondere a questa domanda? Come si deve stabilire se l’oggetto della certezza sensibile così come esso viene dato a vedere da essa per essa, corrisponda a come esso è in verità presenta in essa? Questo è anche il problema della scienza, che non ha mai potuto né saputo risolvere. Prescindendo da come riesca questa decisione, è già posta con questa domanda la possibilità di una corrispondenza o non corrispondenza tra l’oggetto per il sapere sensibile – l’oggetto per esso – e la verità autentica di questo oggetto – l’oggetto per noi. La verità autentica dell’oggetto è il fatto che questo oggetto è oggetto per noi: questa è la sua verità. A pag. 104. La domanda era: cos’è il Questo, cioè ciò che costituisce l’esser-questo? Risposta: l’Ora. e qual è l’essenza dell’Ora. essere l’universale acquisito. Questo universale è la verità del Questo, dunque la verità dell’oggetto della certezza sensibile. Vi ricordate che Hegel parlava del “qui” e “ora” per individuare un oggetto. Lo stesso vale dunque per l’altra “forma” del questo, per il Qui. Alla domanda: che cos’è il Qui – risponde la certezza sensibile, che noi dunque ogni volta interroghiamo su cosa sia per essa l’oggetto; essa risponde: Qui – la cattedra. “Io mi volto” – la verità è sparita; il Qui non è la cattedra, ma la lavagna. E così via; dovunque mi volgo e dovunque mi trovo io vedo un Qui. Porto sempre il Qui con me. Dovunque sto, il Dove è già sempre diventato Qui; o meglio: il Qui soltanto rende possibile il Dove come il Là che si evince a partire dal Qui. Il Qui continua a sussistere, ma l’“essente-qui” è ogni volta un altro. Ed invero il Qui che sussiste esige ogni volta un determinato essente-qui, lo esige oppure è allo stesso tempo del tutto indifferente su quale esso sia. È un modo questo per riprendere una questione di cui parlavamo tempo fa, e cioè, per dirla in modo molto rapido, che è necessario che qualcosa sia determinato per potere porlo come indeterminato, e cioè che qualcosa sia se stesso perché possa non essere se stesso: qualcosa è se stesso in quanto non è se stesso, non è se stesso in quanto è se stesso – occorrono entrambe queste due cose. Ma nell’esigere questo, non si volge però mai all’essente-questo che ogni volta l’essente-qui. Il Qui esige l’essente-qui eppure lo respinge da sé come il questo d’ogni volta. Resta il Qui vuoto e indifferente, la semplicità mediata, cioè l’universalità – come l’Ora. anche questa determinatezza dell’esser-questo si mostra così un universale. Il Qui e l’Ora sono un universale, ma questo universale non c’è senza un particolare e il particolare non c’è senza un universale: questo è il funzionamento del linguaggio. Che cos’è il Questo, cos’è ciò che costituisce l’oggetto perla certezza sensibile, cioè il vero e l’ente? Il Questo è un universale. Ma la reale certezza sensibile non opina il Questo universale. Certamente no; essa opina l’essente-questo ogni volta,… Cioè, un particolare. …appunto ciò che essa mette in gioco – quest’albero, questa casa, questa notte. Ma questo che entra in gioco è costantemente e ovunque un altro, ogni volta e in ogni luogo non lo stesso, dunque un nulla. Ciò che la certezza sensibile opina nel mettere in gioco, ciò che essa opinando prende come l’ente, questo è il non-ente, ciò che “non sussiste”. A qualunque cosa io mi rivolga, questo qualche cosa non è mai quello che è o, più propriamente, è quello che è in quanto è altro; non essendo quello che è, è nulla, è un non-ente. Qui c’è il gioco che fa Heidegger per indicare tra le righe la questione dell’essere: l’essere come non-ente. Ciò che la certezza sensibile opina nel mettere in gioco, ciò che essa opinando prende come l’ente, questo è il non-ente, ciò che “non sussiste”. L’ente è, del mutare e svanire, ciò-che-continua-a-sussistere, cioè il non divorato dal nulla; l’ente è il vero. A pag. 106. Ciò che noi diciamo qui è il Questo universale, noi opiniamo l’essente-questo, l’albero. Ciò che noi propriamente opiniamo nel Questo universale non possiamo affatto dirlo con il Questo. Noi diciamo “questo”, e ne viene fuori il Questo universale. Il linguaggio dice il contrario di ciò che noi opiniamo. Io dico questo ma, dicendo questo, metto in gioco l’universale, perché senza l’universale non c’è il particolare. Quindi, se io voglio indicare il particolare, sono costretto a indicare l’universale. Noi opiniamo il singolo, esso dice l’universale. Ma esso non dice solo ostinatamente il contrario dell’opinione, ma dice in tal modo il vero, perché dice già sempre l’universale; il linguaggio confuta il nostro opinare. Ma esso non confuta soltanto noi, bensì è anche ciò che volge nel suo contrario l’opinato inizialmente, il presunto vero. Il linguaggio fa questo: ci dice che qualche cosa è quello che è per via del fatto che non è quello che è. Esso ci fa fare l’esperienza che l’opinare è nulla, e di che cosa sia propriamente il vero della certezza sensibile. Esso volge nel contrario, toglie, solleva cioè al di sopra, alla verità autentica. Il linguaggio è in sé ciò che media, ciò che non ci lascia sprofondare nell’essente-questo, nel totalmente unilaterale, relativo, astratto. Il linguaggio non può consentirci di astrarre qualcosa cancellando l’universale. Per potere astrarre qualche cosa è necessario l’universale, e così l’universale, come abbiamo visto prima, non esiste senza il particolare. Con il volgere esso produce il distacco dal relativo. Perciò Hegel dice, proprio nella decisiva chiusa della discussione sulla certezza sensibile, che il linguaggio “ha la divina natura di invertire immediatamente l’opinione”. Cioè: io credo una certa cosa sia così, ma non lo è. Il linguaggio è di essenza divina, cioè assoluta. Esso ha in sé qualcosa dell’essenza di Dio, dell’assoluto, del non relativo – dell’assoluto, cioè dell’assolvente. Il linguaggio è divino perché è assolvente, ci scioglie dall’unilateralità e ci fa dire l’universale, il vero. Così solo per mezzo dell’esser-questo, attraverso il Questo, è accessibile per l’uomo, alla cui ek-sistenza appartiene il linguaggio, ciò che egli opina nell’essente-questo. Più precisamente: noi opiniamo un essente-questo soltanto perché abbiamo un Questo. Sta qui il linguaggio: abbiamo un questo perché il linguaggio ci consente di costruire questo. Come fa? Qui né Hegel né Heidegger sono molto precisi su questo, perché per intenderlo bene occorre riflettere sul funzionamento del linguaggio, cioè sul fatto che, nel momento in cui si instaura la distanza, la differenza – il linguaggio non è altro che differenza – tra il mio dire e il ciò di cui dico, ecco che il ciò di cui dico diventa il qualcosa, in quel momento esiste qualcosa. Questo perché il mio dire ha posto una distanza fra il mio dire e il qualcosa che io dico. Solo a questa condizione esiste qualche cosa; il primo qualche cosa è ciò che io dico. Non è un oggetto esterno, non esiste nessun oggetto esterno, ma, dicendo, ecco che dico qualcosa; quindi, il primo qualcosa è ciò che io dico. Possiamo opinare soltanto perché “parliamo”. Questo è evidente. Questa alienazione di così ampia portata sta soltanto nella più intima memoria del linguaggio. A ciò corrisponde la determinazione dell’uomo nell’antichità: ζον λγον χον. Cioè: animale parlante. Nella Fenomenologia dello spirito ci imbatteremo sempre di nuovo nel linguaggio nella sua essenza fondamentale: che esso costituisce l’esserci del sé in quanto un sé. L’esserci del sé in quanto qualcosa, in prima istanza, e poi naturalmente c’è questa cosa, che Hegel ha saputo delineare in modo straordinario, cioè, questo ritorno, questo andare della coscienza verso l’autocoscienza, e si rende conto che io sono io e, quindi, ritorna sulla coscienza modificandola, ovviamente. Ma è sempre per via del fatto che c’è questo movimento, movimento che apre – non c’è prima il movimento e poi l’apertura, il movimento e l’apertura sono lo stesso – ed è in questa apertura che si inaugura questa distanza per cui il mio dire diventa un qualcosa, il primo qualcosa. Ciò che si è detto del linguaggio vale dunque proprio della asserzione in cui la certezza sensibile si pronuncia sul suo oggetto, quando dice: il Questo è. È molto chiaro qui. La propria asserzione diventa certezza sensibile. Quando dico “Questo è” posso dirlo perché c’è questa distanza, sennò non posso dirlo; un animale non può dire “Questo è”, perché lui è Questo. Noi opiniamo questo singolo ente determinato e diciamo di esso: “esso è”; con il che viene asserito e enunciato: “l’essere in generale”. Potremmo anche aggiungere qualche cosa per quanto riguarda Heidegger. Dicendo “esso è” già mostro questa apertura, questa distanza; posso dire “esso è” perché è qualcosa; e, quindi, l’essere come apertura. Che è esattamente quello che diceva Heidegger: l’apertura come radura, Lichtung, ecc. Hegel sottolinea esplicitamente: “Con ciò non ci rappresentiamo certamente il questo universale, o l’essere in generale; ma enunciamo l’universale”. Pure – così dobbiamo dire – noi lo enunciamo soltanto perché l’essere in generale è già – seppure in modo tematico – detto da noi, ed è detto soltanto perché è già compreso; ed esso non è soltanto così in generale incidentalmente già compreso quando noi opiniamo questo ente nella certezza sensibile, ma invece non potremmo affatto opinarlo se l’essere non fosse già il vero, cioè il manifesto. Qui si vede anche come sia presente ciò che per Hegel è fondamentale, e cioè il fatto che questo movimento, questa apertura, è già da sempre presente – non c’è prima il linguaggio e poi l’apertura, il linguaggio è questa apertura. È come dire che tutto ciò che accade, accade retroattivamente, cioè io mi accorgo del questo nel momento in cui ho la possibilità, datami dal linguaggio, di aprire questa distanza, e allora il questo – che solo a questo punto esiste, compare, perché c’è la distanza –ritorna come qualche cosa che non sono io, per es. Questo, che viene descritto come un processo, in realtà non è una sequenza di eventi che si susseguono, ma io incomincio a sussistere nel momento in cui qualche cosa esiste per me, per la coscienza, e io lo assumo, lo integro; solo a questo punto io sono io. Quindi, tutto ciò vale anche a dire che noi nasciamo nel linguaggio; quando nasciamo il linguaggio è già tutto lì, c’è già tutto; c’è già anche quello che sarà inventato tra diecimila anni, è già qui e adesso, non lo vediamo ma c’è necessariamente, non può non esserci perché il linguaggio non può inventare qualcosa che non gli appartiene, che non è nella sua struttura. A pag. 108. L’intera dimensione del problema dell’essere è per lui, in quanto porta a compimento la metafisica occidentale, orientata sul λόγος. Il λγειν però non è per Hegel la semplice proposizione, la comune asserzione unilaterale “S è P” ma per lui il λγειν è già divenuto διαλγεσθαι; ciò significa due cose: 1. un δια, un parlare-attraverso, un vero e proprio movimento che sta nel parlare e sapere stessi, l’inquietudine dell’assoluto, il non-continuare-a-sussistere, ma togliere, il platonico διαλγεσθαι, attraversare, ma neanche solo un attraversare, bensì sta in esso (come già per Platone, sebbene la dialettica sia in Hegel fondamentalmente diversa), nel διαλγεσθαι, dunque nel medio, un parlare-a-sé. Ecco, è un parlare a sé: il linguaggio parla a sé. Attraverso questa divisione, il linguaggio non può fare altro che parlare a sé, perché questo qualcosa compare nel momento in cui c’è questa divisione, questa apertura, e questa apertura è il linguaggio. Il “questo” che io trovo è il dire, è il linguaggio. Poi, dopo, lo attribuisco a tutto quello che mi pare, mi faccio tutte le costruzioni possibili e immaginabili, ma il questo, il primo questo è qualche cosa che si è prodotto in questa divisione. Questo parlato è orientato su se stesso. La verità del parlato sta in ultima analisi nell’io, soggetto, spirito. Ciò non acquista vera e propria validità nella dialettica occidentale, ma la dialettica non è altro che l’assolvenza colta a partire dal Logos, cioè “logicamente” in senso originario. La filosofia di Hegel (metodo) è dialettica, il che vuol dire: 1. il problema dell’essere resta orientato sul λόγος; 2. Questo orientamento “logico” però è inquietudine, è inteso in modo assolvente a partire dall’in-finità. Cioè: questa inquietudine è l’apertura. Molti l’hanno colta come inquietudine, lo stesso Heidegger la pone come angoscia. Noi abbiamo inteso come nasce la certezza sensibile: è il primo questo, che si instaura, compare, si costruisce nel momento in cui si avvia il linguaggio. A pag. 109. L’andamento della discussione è stato sinora questo: la certezza sensibile veniva interrogata a proposito di ciò che essa dice sul suo oggetto e così su se stessa. Il suo oggetto è se stessa, non ce n’è un altro, e, direbbe Hegel, tutto ciò che viene costruito in seguito è mera parvenza; l’autentico è ciò che sta nel linguaggio, è lì che c’è l’assoluto, quello che Hegel chiama lo spirito. E questo, che non ha bisogno di essere, può essere soltanto quando l’oggetto è. L’oggetto è l’essenziale; il sapere di esso, l’opinare, è l’inessenziale. Ma l’interrogazione più precisa su cosa sia il “Questo” in quanto oggetto, diede per risultato: questo oggetto, il singolo, “Questo”, non è affatto ciò che resta, ma ciò che costantemente muta, ciò che è indifferente, inessenziale di fronte a ciò che resta. Sta dicendo che il particolare è qualcosa che muta continuamente perché è un susseguirsi di qui e ora. Ciò che resta è il qui e ora, cioè, l’universale. Si potrebbe obiettare: c’è un altro qui e un altro ora. Certo, ma l’ora è sempre quello che è, perché in un qualunque momento io dico “ora”. Ecco ciò che permane: l’universale. È per questo che non è particolare, perché sarebbe un ora sempre differente; che lo è in un certo senso, lo è rispetto al particolare; in ogni momento io posso sempre dire “ora” e sono nel vero. L’oggetto non è il vero in quanto l’in-sé, ma è ogni volta oggetto dell’“opinare” soltanto nella misura in cui è il mio oggetto, nella misura in cui viene assunto nell’opinare da me, dall’io, da colui che sa, cioè nella misura in cui incontra il Qui ed Ora nella forma del Questo. … Ciò che prima era l’inessenziale, l’indifferente – il sapere e l’io che sa – è d’ora in poi l’essenziale. Si pensa generalmente che l’essenziale sia l’oggetto al quale ci si riferisce. No, dice Heidegger, a questo punto l’essenziale divento io, cioè ciò che questo oggetto è per me. Cosa che Hegel ha detto tante volte. A pag. 111. Nell’opinare sta l’immediatezza della certezza sensibile, che noi chiamiamo sapere immediato. Abbiamo mancato il bersaglio dunque se abbiamo cercato l’immediatezza nell’oggetto dell’opinare; esso diventa l’opinato soltanto nell’opinare. Ogni io opina ciò che è suo proprio, e quest’opinato è il suo Questo. Io, questi, affermo che il Qui è la cattedra, il capotreno alla stazione afferma che il Qui è la locomotiva, e così ciascuno ed ogni io con lo stesso diritto e con la stessa credibilità, cioè tramite il richiamo al fatto che ciascuno assume senza ambagi, ogni volta in modo del tutto immediato, solo il suo proprio. Il capotreno prenderebbe per pazzo chi gli dicesse che il Qui è la cattedra, direbbe che costui è fuori di senno e non ha intendimento per assumere l’immediato nell’opinare come ciò che è suo proprio. Tanto meno posso dire che il Qui è il Feldberg, non posso dirlo, perché nell’opinare non arrivo a tanto, e a nulla di simile. Nell’opinare, e questo è il suo senso, rifletto soltanto sul Mio. Questa è un’obiezione a quella fantasia così diffusa per cui ciascuno immagina, pensa, crede, che ciò che lui pensa sia ciò che pensano tutti, che ciò che lui vede sia ciò che vedono tutti. Se noi prestiamo qui – come sopra – attenzione al suo del capotreno e al mio, siamo già usciti dall’opinare, non siamo già più nell’opinare, nel mero lasciar-essere-per-sé. C’è già un riflettere. Noi vediamo, nella misura in cui poniamo a confronto questo e quello opinare che ogni opinare è vero e ciascuno è tanto vero e credibile quanto l’altro. Proprio perché tali, ciascuno con lo stesso diritto e allo stesso modo, nessuno di essi può ambire ad una prerogativa sugli altri. Al contrario ogni opinare priva ogni altro, avente lo stesso diritto, del suo diritto. Si eliminano tutti l’un l’altro, l’uno dissolve l’altro. Che è quello che accade sempre. Ciò che io vedo, percepisco, ecc., lo attribuisco immediatamente a tutti, cioè il mio particolare lo immagino universale, immagino che il mio qui, che in questo caso è il particolare, perché è il mio qui e ora, sia universale, sia il qui per tutti. A pag. 112. L’oggetto e l’opinare in uno… Ciò che io penso dell’oggetto e l’oggetto sono lo stesso; anzi, l’oggetto è il sapere. …cioè: la certezza sensibile in quanto intero di un sapere non permette in sé nessuna contrapposizione tra oggetto e modalità del sapere. Non solo essa in sé e per sé non lascia che sorga, essa non ha neppure in sé alcuna occasione di suscitare una simile cosa, e tanto meno di porre la propria immediatezza nell’uno o nell’altro. A pag. 144 fa un accenno alla questione del mostrare. Il mostrare è l’esperienza che facciamo con l’Ora, su ciò che esso non è e cosa dunque sia. Il mostrare non è unque un sapere immediato, ma un movimento, cioè una mediazione. Il mostrare, generalmente lo si intende come qualcosa di immediato; io mostro qualcosa e dico “ecco qui, guardalo”. Così, ciò che viene saputo nella certezza sensibile non è un semplice immediato, bensì un semplice mediato. Ciò che dunque la certezza sensibile in quanto intero è, che permane in lei stessa quando viene mostrata, è il movimento, la storia di questo movimento. Ecco ciò che permane: il movimento, questa apertura, questo iato, questa differenza. In questa storia viene colto ed assunto nella certezza sensibile ciò che in essa è il vero; in questa storia la stessa certezza sensibile si sviluppa fino ad assumere il vero (in essa); essa diventa percezione. Ciò che permane, questo movimento, ci dice Hegel, è ciò che alla fine viene assunto come la percezione. Ma che cosa percepisco? E qui torniamo all’inizio. Percepisco una differenza, una distanza; la percepisco perché il linguaggio l’ha posta e imposta. Quindi, ciò che percepisco non è la cosa, l’oggetto, ecc., ma ciò che percepisco è il movimento, l’apertura, la differenza, la differenza tra il dire e ciò di cui dico. A pag. 116 affronta la questione del sapere. Nessun’epoca ha saputo così tanto, nessuno ha avuto a disposizione tanti pratici mezzi per sapere velocemente ogni cosa e per convincere ognuno, come quella odierna. Ma anche nessun’epoca ha capito così poco dell’essenziale delle cose come la nostra. Ed il comprendere vi è così scarso non perché quest’epoca sia già caduta vittima di un istupidimento generale, ma perché essa – pur con tutta la sua brama verso tutto – per una sorta di fastidio puntiglioso, oppone resistenza ad ogni semplice ed essenziale, a tutto ciò che domanda impegno e persistenza. Questa volubilità può ancora estendersi ulteriormente, perché nell’uomo di oggi si è estinta una virtù: la pazienza. La pazienza – essa è il tranquillo presagire nel persistente attendere… Potremmo porre la questione in termini più interessanti, almeno per noi, e cioè porre la pazienza come l’ascolto. Infatti, dice: Essa è la cura distolta dal chiassoso prendersi cura e che sosta nell’interno dell’esserci. La pazienza è la modalità veramente umana di superiorità sulle cose. La pazienza autentica è una delle virtù fondamentali del filosofare, che comprende che bisogna edificare sempre con il legno giusto e ben selezionato la catasta alla quale appiccare il proprio fuoco. La pazienza nelle cose prime e ultime – “la pazienza” – questa parola è stata esiliata dalla lingua essenziale. E neppure vogliamo che diventi uno slogan, ma che la pratichiamo e nel praticarla ce ne impratichiamo. In questa pratica soltanto giungiamo alle schiette misure del nostro esserci e ad una acuta facoltà di differenziazione all’interno di ciò che ad esso si offre. Cioè: imparare ad ascoltare il linguaggio, imparare ad ascoltare questo movimento che crea ciascuna volta il qualcosa nel momento stesso in cui parlo; creando qualcosa, ecco che io sono io che parlo, perché questo qualcosa che il linguaggio crea sono io che parlo, nient’altro che questo. A pag. 122. L’essenza dell’infinità “è il togliere assoluto della determinatezza, la contraddizione per la determinatezza non è, in quanto è, ed è in quanto non è”. Qui è fine. L’essenza dell’infinità, cioè di questa apertura infinita, infinita nel senso che ciascuna volta, per potere stabilire ciò che qualcosa è, occorre affermare ciò che non è; è soltanto a partire da ciò che non è che posso dire ciò che è. Già qui si fa chiaro l’orientamento della determinazione dell’infinità nel senso dello “è” ed il determinare (sintesi, semplice) della proposizione, λόγος, ma nel senso che il semplice detto, il discorso, che in sé parla contro se stesso, è contraddizione. La “opposizione assoluta, l’infinità… Opposizione assoluta tra il mio dire e ciò che dico. …è questa riflessione (un rivolgimento) assoluta del determinato in se stesso, determinato che è altro da se stesso, precisamente non un altro in generale nei confronti del quale sarebbe per sé indifferente, ma il contrario immediato, ed essendo questo è se stesso. È questo contrario immediato: ciò che io sto dicendo non è ciò che ho detto. È il contrario nel senso che si oppone, è altro. Questa soltanto è la vera natura del finito, che è infinito e si toglie nel suo essere. Il mio dire, che è finito, si volge per in infinito nel momento in cui, per potere stabilire il mio dire, devo infinitamente aggiungere cose. Il determinato ha come tale nessun’altra essenza che questa assoluta irrequietezza di non essere ciò che è”. Il “puro movimento assoluto, l’essere fuori di sé nell’essere in sé”. Si tratta sempre di questo movimento incessante. E conformemente: “Questo è, per ricordarlo qui di passaggio, il vero conoscere dell’assoluto… Di questo si tratta: di conoscere. …non si tratta di dimostrare soltanto che l’uno e i molti sono uno, che questo solo sia assoluto; ma che nell’uno e nei molti stessi è posto l’essere uno di ciascuno con l’altro”. La sintesi, l’integrazione, l’oltrepassamento, l’Aufhebung. Appartiene all’essenza dell’infinità questo ri-volgimento del determinato in se stesso; per nulla affatto l’andar oltre verso un altro al di fuori di sé. Non c’è niente fuori di sé. Ma questo ri-volgimento dell’altro nell’uno, per cui la distinzione diviene non-distinzione e così il differenziato resta appunto conservato e tolto; questa riflessione che contraddistingue l’essenza dell’infinità è propriamente e realmente nell’io. Poiché l’io, nel porsi in quanto io, si differenzia con ciò da se stesso, così che il differenziato non cade al di fuori di esso, bensì diviene visibile proprio in quanto il medesimo, il vero e proprio non-differenziato. Il questo che compare nel momento in cui si avvia il linguaggio non è mai un questo che è fuori di me, fuori dell’io; sono sempre io, il questo che mi compare nel momento in cui dico qualcosa sono sempre io. Si rivela così la connessione interna tra la fondazione logica e quella soggettiva, dell’io, dell’infinità. L’infinito veramente e realmente tale è, nel senso logico che si è spiegato il soggetto, e cioè – come si deve mostrare nella Fenomenologia dello spirito – il soggetto assoluto come spirito. Viceversa da ciò si desume, ai fini della discussione, che il soggetto, l’io, primariamente colto, è in quanto “io penso”, cioè logicamente. Per questo dopo la Fenomenologia dello spirito leggeremo la Scienza della logica. La considerazione assolvente della certezza sensibile approdò a questo risultato: essa opina il singolo questo conformemente alla sua modalità di sapere; ma la sua verità, che già si enuncia nella parola “Questo”, è un universale. In quanto opina il singolo, essa non prende il suo vero; essa non è percezione, eppure è in un certo senso anche tale – in quanto essa ha il suo vero presso di sé, pur senza assumerlo espressamente. … Ma ciò che muove allo stesso modo Hegel e noi è la domanda sull’essenza dell’essere. È chiaro che la domanda intorno all’ente “Che cos’è questo?” per Heidegger non può che condurre alla domanda intorno all’essere. Le modalità del domandare e del rispondere si intersecano. Hegel non pone questa domanda, ma dà la risposta, da tempo richiesta dall’interna cogenza della tradizione, alla domanda sull’essenza dell’ente, e risponde con la tesi fondamentale: essa è l’infinità. L’essere è l’infinità, cioè, l’apertura. Abbiamo già brevemente spiegato cosa ciò significhi nella considerazione della fondazione logica e di quella soggettiva dell’infinità. Abbiamo chiarito come l’infinità scaturisca dallo “è” dell’enunciato semplice come determinazione di qualcosa ed in quanto qualcosa. Lo abbiamo visto prima. Dicendo “questo è qualcosa”, questo qualcosa è il primo qualcosa che mi si pone come contrapposto. Naturalmente, e giustamente, per Hegel, questo qualcosa che mi si contrappone viene integrato, trapassa in me, e allora io divento quello che sta dicendo queste cose; prima no. Questa infinità non significa un susseguirsi progressivo di determinazioni, in una prosecuzione senza fine dall’una all’altra, ma al contrario: il ritorno di qualcosa in se stesso, il rivolgimento di un determinato in se stesso, così che il determinato in quanto l’altro torna nell’uno, e che l’altro, allo stesso tempo, in quanto suo differenziato, assume questo in sé; che esso nell’unità con esso diventa non-differenziato; che resta con esso conservato nella medesimezza. È l’Aufhebung, cioè, non è che questa infinità scaturisca da un’infinità di elementi che si aggiungono; è il movimento per cui dalla coscienza sorge l’autocoscienza, che diventa consapevole di sé, ma a questo punto è la coscienza che diventa consapevole di sé, e quindi si altera, muta. È questo movimento che importa. Ed è ora sorprendente, se visto dall’esterno, che questo concetto dell’infinità trovi la sua conferma e concrezione altrettanto immediatamente nell’io, perché l’io è il reale che nel porre se stesso –“io sono io” – si differenzia da sé; ma in modo tale che il differenziato non cade fuori da ciò che la differenziazione compie, ma viene ripreso in ciò che differenzia e conservato in esso. Nell’io, questa peculiare distinzione del non-differenziato è reale, e di conseguenza la distinzione logica, la “determinatezza”, e dunque il concetto logico dell’infinità è radicato nell’io (la logica come pensiero è un io-penso), e la logica così orientata non è una dottrina della proposizione staccata dall’io, bensì una logica che necessariamente include l’iità, che è cioè, in senso kantiano, una logica trascendentale che ha capito che proprio sulla base del fatto che il λόγος è in sé infinito, il carattere-io è essenziale per il pensiero – cioè: la realtà dell’infinito è soggetto, vale a dire, in senso assoluto, spirito. Dice, dunque, ha capito che proprio sulla base del fatto che il λόγος è in sé infinito, ma infinito non nel senso che posso aggiungere tutte le parole che voglio una dopo l’altra, ma infinito perché il λόγος non è altro che questo movimento per cui una parola dicendosi dice il suo opposto, che però si integra e integrandosi viene a modificare la parola stessa. Ma tutto questo processo è da prendere sempre a rovescio, nel senso che è l’ultimo elemento che determina, che fa esistere il primo, cioè io pongo qualche cosa, questo qualche cosa fa esistere me che pongo questo qualcosa. Ora, quel qualcosa, come abbiamo visto, non è altro che ciò che sto dicendo.