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30 settembre 2020

 

L’attualismo di G. Gentile

 

Ciò di cui parleremo questa sera è una questione complessa. Una delle più difficili, non soltanto nel pensiero di Gentile, ma nel pensiero in generale. È la questione della simultaneità. Abbiamo già incontrata la simultaneità in varie occasioni, ma si tratta adesso di precisare un po’ di più la questione, che abbiamo già incontrata in molti passi di Hegel e in modo particolare quando parla dei sillogismi. Il sillogismo compiuto è la simultaneità delle tre forme di sillogismi (deduzione, induzione e analogia). Questione poi ripresa in modo molto preciso da Mendelson quando parla del teorema di deduzione. La simultaneità è l’impossibilità che qualche cosa esista senza che ne esista un’altra; è la necessità di una qualunque cosa di avere il suo opposto per potere essere, per potere stabilirsi, per potere affermarsi. Anche qui dove Gentile parla dello spazio fa un discorso che ci riconduce immediatamente alla questione della simultaneità. Lui intende lo spazio come una molteplicità: se si parla di molteplicità si parla di spazio, molteplicità di oggetti, in definitiva, di punti. Un punto, dice Gentile, è individuato dall’intersezione di due rette, le rette cartesiane. Un punto non è chiaramente definibile e, infatti, è indefinito, non ha forma, figura, ecc., è una costruzione, non esiste in natura. Come dire che il concetto, che ciascuno ha o può avere, di spazio è determinato da una serie di punti che, in realtà, non esistono in quanto tali, ma sono costruzioni. Il che ci induce a pensare che lo stesso spazio di per sé non esista, ma sia una costruzione. Dicevo prima che il punto è determinato dall’intersezione di due rette, ma la retta a sua volta viene per lo più definita come una successione di punti che vanno nella stessa direzione; ma ciascuno di questi punti è determinato dall’intersezione di rette; cioè, la retta si definisce con il punto e il punto si definisce con la retta. Che è esattamente ciò che accadeva con il teorema di deduzione rispetto all’induzione: l’uno si definisce rispetto all’altro, non può essere definito da sé, ma necessita dell’altro, come già vedevamo in Hegel: l’in sé non può definirsi se non attraverso il per sé che ritorna sull’in sé; l’essere non può definirsi se non attraverso il non-essere, in quanto eliminato, è il non-essere che determina che cos’è l’essere, cioè, l’essere è non non-essere. A questo punto la questione della simultaneità ci mostra, con estrema precisione, il funzionamento del linguaggio, cioè che cosa accade mentre si parla. Ciò che accade è un qualcosa di notevole, dal momento che tutto ciò che si dice di per sé vale unicamente come rinvio ad altro. Questa è la sua costituzione, diciamola così: di essere, di valere in quanto rinvio ad altro, e questo per un rinvio ad altro ancora. Quindi, che cosa vale per sé? Nulla, evidentemente, ma ciascuna cosa vale sempre per l’altra, nel senso che trova nell’altra la sua determinazione. Ma torniamo a Gentile. Dicevo prima dello spazio, della molteplicità; da dove arriva questa idea? Viene dalla chiacchiera, indubbiamente; è la chiacchiera che costruisce la possibilità di pensare il tempo, lo spazio, il punto, la retta e tutti gli accidenti annessi e connessi, cioè, il mito, vale a dire, una qualunque costruzione fantastica prodotta al fine di avere il controllo sul trascendente, cioè, su ciò che sfugge. Che cosa sfugge? È ovvio che se una qualunque cosa vale unicamente in quanto rinvio ad altro, mi sfugge quella cosa, perché non posso intenderla, quindi, possederla, dominarla, se non la sposto immediatamente su un’altra, perché se non la sposto la prima non è niente. La costruzione fantastica è questa: la possibilità di pensare di potere controllare ciò che sfugge, ciò che inevitabilmente sfugge mentre si parla. La volontà di potenza si impianta lì, nel momento in cui, di fatto, parlando mi trovo preso in questo rinvio continuo e, quindi, mi sfugge la cosa. Da sempre gli umani, prima attraverso i miti e prima ancora non si sa, hanno tentato di controllare, di arginare, di fermare, senza riuscirvi. Anche l’idea della religione, di un dio, per avere un controllo sul trascendente, su ciò che sfugge. Qualcuno potrebbe chiedersi perché voler avere un controllo su ciò che sfugge. È una domanda legittima. Per potere avere la possibilità – questa è l’idea – di potere continuare a parlare, di potere continuare a costruire sequenze. Se non ho il controllo su ciò che sto affermando, cioè, se ciò che affermo non è così come io lo sto affermando, allora non posso affermare; non potendo affermare, non ho quell’elemento da cui partire per la sequenza successiva. Sarebbe come trovarsi in balìa del nulla, che di per sé non sarebbe un problema se non fosse che impedisce di proseguire. Ora, siccome non c’è la possibilità di fermare il linguaggio, allora tutto questo viene messo in atto, potremmo dire automaticamente dal funzionamento stesso del linguaggio, che produce ciascuna volta, affermando qualcosa, il suo contrario. Come dicevamo, è l’autoctisi, la produzione: dicendo una cosa ne produco un’altra, che non c’era prima; ma che si produce necessariamente nel momento in cui pongo la prima; si produce in quanto è ciò che la prima è necessariamente, cioè la negazione della sua contraria. Questo è ciò che da una parte gli umani tentano di arginare, ma dall’altra è esattamente ciò che è la vita, è ciò che consente loro di esistere, di vivere. È come se ogni sforzo fosse indirizzato alla morte, in un certo senso, cioè all’arresto del linguaggio, di questa infinita deriva, che comporterebbe appunto la morte, cioè, la cessazione del linguaggio, del pensiero e, quindi, di ogni esistere. È questa autoctisi, questa autoproduzione, la simultaneità. Gentile ha avuto la intuizione di porre la questione in modo straordinariamente interessante. Pensate al sillogismo, così come ne parla Hegel: la deduzione prevede l’induzione, ma l’induzione non c’è già, viene prodotta dalla deduzione; così come l’analogia: non c’è già, è qualcosa che si produce nel momento in cui la deduzione si mette in atto. Se pensate alla dimostrazione che fa Mendelson, lì la cosa è ancora più evidente: non posso affermare, stabilire la deduzione senza compiere questa altra operazione – che devo compiere altrimenti la deduzione è nulla – ma l’induzione non c’è prima, è posta nell’atto, ed ecco l’attualismo e la simultaneità. La deduzione non può farsi, non può stabilirsi senza l’induzione: sono simultanee, non c’è l’una senza l’altra, tolgo l’una e tolgo anche l’altra. Il passo che ha fatto Gentile rispetto al pensiero filosofico è stato quello di intendere tutto ciò, e cioè la deduzione e l’induzione non esistono prima, ma vengono prodotte nel momento in cui qualcosa si dice. Il che comporta appunto la simultaneità, che può cogliersi bene anche rispetto al tempo, così come comunemente viene inteso, e cioè come tempo lineare, come una successione di eventi o di stati. Se penso al passato lo sto pensando adesso, non posso mettermi al posto di com’ero il mese scorso, non ci sono più lì, sono qui adesso. Quindi, il passato è una costruzione; per citare Borges, è un animale fantastico. Potremmo anche dire, se volessimo, che non è mai esistito; così anche il futuro, e il presente? Il presente, nel momento in cui lo penso, è già passato, per cui, se vogliamo dirla tutta, è assente, non c’è mai, c’è soltanto come passato. Quindi, che cosa rimane nell’atto? Se io tolgo il passato, il presente e il futuro, non mi rimane che l’eterno, ma l’eterno nell’accezione di Severino e non nella accezione di un infinito perdurare del presente, ma come una cancellazione del tempo linearmente inteso. Il tempo inteso in questo modo, e cioè linearmente, è una costruzione fantastica, che ovviamente non esiste in natura. Ma se pensiamo all’atto, ecco che allora l’atto è eterno, ma in questa accezione, e cioè non sottostà a questa costruzione fantastica che è il tempo nell’accezione che indicavo prima.

Intervento: …

È esattamente il discorso che facevamo rispetto al concreto e all’astratto. Anche dicendo che non c’è il tempo linearmente inteso, io sto utilizzando un concetto di tempo linearmente inteso, cioè sto pensando astrattamente il tempo, sto, per dirla con Hegel, utilizzando dei sillogismi formali. Il tempo linearmente inteso non può togliersi, nel senso che se io penso il tempo, anche pensandolo come eterno, lo penso astrattamente; pensandolo astrattamente, lo pongo fuori dal concreto, anche se il concreto è necessario per poterlo pensare. Pensandolo fuori dal concreto, lo pongo come un tempo lineare, come una successione di stati. Qui ci troviamo sempre di fronte a questo “problema” – tra virgolette nel senso che non è un impiccio, ma qualcosa da pensare – del linguaggio. È come se per potere pensare il linguaggio dovessi cancellarlo per poterlo utilizzare. Naturalmente, lo posso cancellare, ma posso fare questo perché c’è. Cosa intendo con cancellarlo? Fare come se il linguaggio non fosse quello che si mostra essere, cioè come un concreto, come un tutto, ma devo astrarne delle parti. Solo in questo modo posso parlare del linguaggio, che deve esserci ovviamente perché io possa parlarne. Ecco il problema del linguaggio: per potere dirsi, per potere mettersi in atto, necessita tanto del concreto quanto dell’astratto. Non posso parlare del linguaggio se non astraendo, ma non posso astrarre nulla se non sono nel concreto, se non sono nel linguaggio. Da qui l’interrogazione di Gentile; prima sullo spazio e il tempo, con i problemi che questo comporta, paradossi che lui rileva, anche se sono paradossi fino a un certo punto. Per esempio, lo spazio è un molteplice, ma essendo “il” molteplice è uno, non sono tanti molteplici, quindi, c’è l’unità; quindi, lo spazio è il molteplice ma è anche uno. Se voglio prendere lo spazio come una molteplicità di individui, allora questa molteplicità è fatta dell’individuo. Sono questioni marginali rispetto alla questione centrale, che è quella della simultaneità, che, torno a dirvi, è forse la cosa più difficile da pensare, perché non posso che pensarla astrattamente. Quindi, per potere pensare questa simultaneità, devo astrarla dal concreto; ma fuori dal concreto non c’è nessuna simultaneità, e quindi di che cosa sto parlando? È il problema che ciascuno incontra parlando, è la domanda che ciascuno potrebbe farsi parlando, e cioè: di che cosa sto parando? Rispondere a questa domanda potrebbe essere arduo, perché di fatto alla domanda “di che cosa sto parlando?” posso soltanto rispondere che sto parlando di altro, e questo altro a sua volta ha il suo altro, che immediatamente compare appena lo astraggo, cioè appena voglio parlarne. Questo rende conto della complessità, della difficoltà del linguaggio e anche della difficoltà di parlare e, quindi, della necessità, in un certo senso, che gli umani hanno sempre rilevato – probabilmente da quando hanno incominciato ad accorgersi che parlavano – di dominare, di controllare il trascendente, cioè ciò che non si riesce a gestire. Il trascendente, vale a dire, ciò che non è qui, perché non posso parlare, non posso controllarlo, ma pur tuttavia è qui perché se non ci fosse non ci sarebbe neanche questa cosa di cui sto cercando di parlare, di controllare. Qui si pone una questione complessa per quanto riguarda il pensiero di Gentile, a cui avevo già accennato, e cioè: come posso parlare del concreto se non lo posso pensare? Quando parlo del concreto, di che cosa sto parlando? Di fatto, dell’astratto, di qualcosa che è astratto. Ma, ecco la simultaneità, questo astratto non potrebbe esistere se non ci fosse il concreto, cioè se non ci fosse il tutto, l’intero, il linguaggio. La simultaneità non è gestibile, non è dominabile in alcun modo, né è possibile arrestarla. Come dicevo prima, il tentativo degli umani di fermarla, di gestirla, porta alla morte necessariamente. La morte è la cancellazione del linguaggio, sempre se questo fosse possibile, ma visto che siamo qui da milioni di anni, così dicono, evidentemente questa operazione ha qualche difficoltà nel compiersi. Ed è per questo che Gentile dopo lo spazio e il tempo, che vi ho raccontato, parla dell’immortalità. Immortalità da intendere in una certa accezione, non è l’immortalità di cui parla la religione, anche se a modo suo, come direbbe anche Hegel, la religione ha intuito qualcosa. Immortale è l’atto puro, ed è immortale in quanto fuori dal tempo, fuori dal tempo in quanto successione lineare di stati: prima c’è questo, poi quest’altro, poi quest’altro ancora, ecc. No, se c’è la simultaneità, allora non c’è prima una cosa e dopo un’altra. C’è una questione che lui affronta, quella del limite dello spazio. Lo spazio in quanto tale si oppone come opposto dello spirito. Lo spirito è uno e lo spazio, come abbiamo visto, è il molteplice – vedete che ricalca la dialettica hegeliana, l’in sé e il per sé –; lo spazio, quindi, è limitato, ma limitato come, se tutto questo avviene nell’atto? Questa limitazione avviene chiaramente nell’atto, ma questa limitazione non è e non può essere definitiva, perché l’atto successivo porrà un nuovo limite a questo spazio, e l’atto successivo ancora porrà un altro limite ancora. Quindi, questo limite c’è ogni volta ma è indefinito, cioè è un limite che si sposta continuamente, vale a dire, ogni atto è un atto di creazione, di autoctisi, di autocreazione. Capitolo X. L’immortalità. Paragrafo 3. L’infinito dello spirito come negatività del limite spaziale. Lo spazio pertanto è finito, senza essere un certo finito. E questa negatività d’ogni suo limite determinato con la conseguente impossibilità d’assegnargli un limite assoluto, costituisce la sua indefinitezza. Non c’è un limite assoluto, questo limite viene spostato continuamente, perché è l’atto che produce questo limite. Questo è fondamentale da intendere in Gentile: è l’atto che produce il limite, è l’atto che produce la deduzione, l’induzione, che produce il sillogismo; non c’è prima, perché non c’è un prima e un dopo. Poco più avanti. Non c’è dunque spazio senza limite; ma non c’è limite che non sia negato; e chi nega sempre, né può riconoscere il limite, è lo spirito, che lo pone per toglierlo, e celebrare in tal modo la propria infinità assoluta. È lo spirito che pone questo limite, lo pone per toglierlo, per toglierlo con l’atto successivo, dove ci sarà un altro limite. La quale, per altro, non importa astensione da ogni limitazione (perché la limitazione, che è la stessa sua moltiplicazione nella spazialità, è la sua stessa vita), ma soltanto trascendere ogni limite, e quindi non arrestarsi mai a nessun limite assegnabile, per quanto remoto. L’infinità insomma è l’esclusione di ogni limite; esclusione, che coincide con l’immanente assegnazione del limite all’oggetto nella sua immediata positività. Nel momento in cui pongo il limite, questo limite viene negato, perché è l’atto che lo pone; dà a questo limite un’esistenza che è presente solo in quanto è nell’atto, non esiste fuori dell’atto. E la vertigine della violenta sottrazione d’ogni limite non pure all’infinito ma allo stesso indefinito, come avviene nel già ricordato idillio leopardiano dell’Infinito, non conduce alla celebrazione, anzi all’annientamento dello spirito, espresso dal poeta dove dice che in quegli interminati spazi e sovrumani silenzi per poco il cor non si spaura, e che tra l’immensità s’annega il pensiero. Paragrafo 6. Il significato dell’immortalità. L’Io è anche, e prima di tutto, unità, per cui tutti i coesistenti dello spazio si abbracciano d’un solo sguardo nel soggetto, e tutti i successivi del tempo sono i compresenti in un presente che nega il tempo. È chiaro che lui usa questi termini, non ne ha altri a disposizione; deve usare il termine presente, anche se lo usa con delle accortezze dicendo, quando se ne ricorda, che intende presente ma come fuori del tempo. L’Io domina lo spazio e il tempo;… L’Io è l’Io pensante, l’atto. Se volessimo tornare a Hegel, sarebbe il sillogismo compiuto. …e si oppone alla natura, unificandola in sé e trascorrendo da un termine all’altro di essa, nello spazio e nel tempo, anzi spingendosi di là da ogni termine. Lo spirito perciò non può schierarsi in mezzo al molteplice, senza pur intravvedere che gli sovrasta e lo domina e ne trionfa, sottraendosi alla sua legge. L’Io, l’Io pensante, l’autocoscienza per Hegel, si oppone al tempo, è fuori del tempo, perché è lui che lo crea, non preesiste all’atto. Lo intravede subito che s’accorge (accorgimento essenziale ad esso e originario) del valore del suo porre l’oggetto e contrapporvisi, ossia del valore d’ogni propria affermazione, intelligibile come tale senza la discriminazione del vero e del falso. Né il vero è relativo come ogni elemento della molteplicità, in cui ci sono tanti elementi: il vero è uno, assoluto (nella sua stessa relatività, non potendo essere se non quel che è). Talché un elemento del molteplice ne ha accanto a sé altri; e il vero, se è vero, è solo. È chiaro che con vero intende l’atto puro. Questa verità non può essere per ciò soggetta alla spazialità e temporalità delle cose naturali: le trascende, pur essendo quel che deve pensarsi di esse; e si pone come eterna. L’eternità del vero importa l’eternità del pensiero in cui il vero si manifesta: dal quale la speculazione potrà in seguito distaccarlo, ma in quanto ve lo trovi. Potrà astrarlo, ma potrà farlo perché c’è. Sicché la stessa trascendenza dell’eterno, come risultato (ché non può esser altro) d’una induzione speculativa, presuppone una certa presenza dell’eterno nello spirito, e una certa identità dei due termini. E questa sarà la ragione per cui, fatto trascendente il vero, bisognerà pur fare trascendente lo spirito, con la vita oltremondana, se non premondana, dell’anima. Ma sentire in sé la verità, non può esser altro che sentire in sé l’eterno, o sentirsi partecipi dell’eterno, o comunque altrimenti si voglia dire. Ogni atto, potremmo dire ogni atto di parola, è in sé eterno. Eterno in questa accezione, ovviamente, perché non è soggetto al tempo, perché è l’atto che produce il tempo. Autoctisi: questo è il concetto fondamentale di Gentile. L’atto non è sottoposto al tempo perché è lui che lo produce, e lo produce come simultaneità. Paragrafo 7. Assoluto valore dell’atto spirituale. L’immortalità dell’anima non ha originariamente e sostanzialmente altro significato. E tutti i motivi a cui s’è appoggiata ogni fede nell’immortalità (tralasciando le ragioni, con cui si è voluta dimostrare la razionalità, proporzionate troppo spesso a concezioni filosofiche inadeguate a questa essenziale affermazione, immanente allo stesso atto dell’Io, che noi ci siamo indugiati a dichiarare) si risolvono nell’affermazione dell’assolutezza del valore di tutte le affermazioni dello spirito. Sta dicendo che ogni affermazione dello spirito, quindi del pensiero, dell’atto di parola, è assoluta. Assoluta in che senso? Si potrebbe dire che non è assoluta, ma relativa ad altre cose. Sì, certo, ma è assoluta nel senso che si sta ponendo lì, in quel momento, non c’era prima e non ci sarà dopo. Come dire che ciascuna volta in cui qualche cosa si dice è come se stesse avvenendo tutto lì, in quel momento: è in gioco tutto. È per questo che ciò che si afferma ha quel valore; come ci chiedevamo forse l’altra volta, da dove arriva questa idea che ciò che affermo abbia tutto questo valore, che sia necessariamente vero, ecc. Lo dice qui alla fine del Paragrafo 8. Religione e immortalità. Ed è quindi il concetto della propria immortalità, o dell’assoluto valore della propria affermazione, che genera quel concetto di Dio, a cui si connette il concetto di un’anima immortale: ovvero il concetto di un Dio vero e proprio, che è essere eterno. Ma quel Dio che sono io. Questo era già presente in Hegel: tutto ciò che gli umani attribuiscono a Dio occorre che se lo riprendano, perché appartiene a loro. Paragrafo 11. L’immortalità come attributo dello spirito. Cercare che cosa era al principio della natura e che cosa sarà alla fine è proporsi un problema privo di senso: perché la natura è concepibile soltanto come una data natura (questa natura), chiusa entro certi limiti di tempo, assegnabili soltanto in quanto non sono assoluti, e lo spirito li supera nell’atto stesso di porli. Ma questa indefinitezza della natura, a sua volta, non sarebbe intelligibile se non fosse effetto della infinità dello spirito, che pone tutti i limiti di tempo superandoli, e quindi accogliendo in sé e risolvendo nella propria immanente unità ogni molteplicità temporale. Sta dicendo che l’andare a cercare com’era prima o come sarà dopo è un tentativo privo di senso, perché in ogni caso ciò che era prima non esiste più e non è più possibile recuperarlo, per lo stesso motivo per cui il pensiero pensato non è il pensiero pensante: il pensiero pensante è altro rispetto al pensiero pensato, ciascun pensiero è pensiero pensante, anche se per pensarlo dobbiamo porlo come pensiero pensato. Paragrafo 12. La personalità immortale. La sola immortalità, dunque, alla quale si possa pensare, e alla quale effettivamente si è sempre pensato, affermando l’immortalità dello spirito, è l’immortalità dell’Io trascendentale; non quella, in cui si è fantasticamente irretita la mitica interpretazione filosofica di quest’immanente affermazione dello spirito, l’immortalità dell’individuo empirico; onde nel regno dell’immortalità si viene a proiettare la molteplicità, e per conseguenza la spazialità e temporalità della natura. Dice che questa è l’unica immortalità, quella dell’Io penso, quella dell’atto puro. Paragrafo 15. L’immortalità non è un privilegio. Niente si ricorda e tutto si ricorda; niente è immortale, se la immortalità si vuol riconoscere dal segno dell’empirico ricordo; e tutto è immortale, se il ricordo, onde il reale si perpetua e vince il tempo, s’intende come soltanto si può intendere a rigore. Già lo abbiamo visto: la memoria, come conservazione del passato mummificato e sottratto alla mente lungo la serie stessa degli elementi del tempo, è un mito. Uno dei tanti miti che gli umani hanno e che continuano a costruire. Niente si ricorda in questo senso, niente sta o si ripete dopo essere stato, e tutta la realtà inesorabilmente investe, per definizione, l’innumerabilis annorum series et fuga temporum, di cui parla il poeta. Ciò che si sottrae alla dea Libitina, e sta, monumento più duraturo del bronzo, è il carme nella fantasia del poeta, nell’atto della creazione, col suo eterno valore, onde risorgerà sempre nell’umana fantasia, non perché sia sempre quella poesia, anzi perché è sempre una poesia sempre nuova, reale nell’atto del suo ravvivarsi, in modo che sarà sempre nuovo, perché sempre unico. La poesia d’Orazio, quale noi possiamo collocarla in un punto della serie degli anni, è travolta dalla fuga del tempo; e Orazio, come uomo che nacque e morì, è ben morto; e il suo monumento sorge in noi, in un Noi che, in quanto noi, soggetto e atto immanente, non è diverso da quello di Orazio. Giacché Orazio, oltre che oggetto tra gli altri molteplici compresenti nella storia che noi sappiamo, quando lo leggiamo, ci si presenta come non altra cosa da noi, ma nostro fratello e padre, anzi il nostro Noi stesso, nella sua interiore trasparenza, nell’identità di sé con sé. Onde ciò che è reale nel ricordo, non viene a noi dal passato, ma si crea nell’eternità del nostro presente, dietro al quale non c’è passato, come innanzi ad esso non c’è futuro. Questo è il concetto fondamentale in Gentile. Per Gentile ogni cosa si produce nell’atto, non c’è nulla fuori dell’atto; è l’atto che crea il passato, il presente, il futuro, crea, come lui giustamente li chiama, i nostri miti, che sono sì utilissimi per orientarci nel mondo in cui viviamo, ma non hanno nessuna validità al di fuori di essere quegli strumenti per orientarsi, come dicevo prima. La cosa fondamentale è che tutti questi miti sono creati nell’atto – tenendo sempre conto che quando parliamo di atto parliamo di atto di parola – e solo lì, nell’atto di parola, possono esistere. Tutto ciò che è passato, lo ha detto molto bene, non può che essere presente qui e adesso, perché ciò che credo di ricordare è un altro mito o, come direbbe Borges, un animale fantastico, non c’è. Non c’è perché non determino in nessun modo il passato, il presente e il futuro, e questo non potere determinarli in nessun modo è la conseguenza di argomentazioni costruite con sillogismi formali. Tutto ciò che passa, non può neppure rappresentarsi empiricamente se come confluente, compresentemente al futuro, nell’attualità del presente: il quale, inteso in maniera speculativa, non è un presente in bilico tra due termini opposti, ma l’eterno, negazione di ogni tempo. L’eterno è tale in quanto nega il tempo, così come è comunemente inteso, e cioè come successione di stati, che, come abbiamo visto, propriamente non c’è, è un mito. Passato, futuro, non ci sono. Anche il presente. Come dicevo all’inizio, il presente è assente; quando lo evoco è già assente, non c’è già più, è un’altra cosa, un altro presente perché preso in un altro atto. La questione dell’eterno è stata poi ripresa da Severino, viene da qui, naturalmente. Eterno, non come un infinito perdurare del presente, che non esiste, ma come l’impossibilità del tempo: se tolgo il passato, il presente e il futuro, mi resta l’eterno. Paragrafo 17. L’individuo immortale. L’individuo, dunque, è mortale o immortale? L’individuo aristotelico, che è pur quello del pensare comune, è mortale; e cioè la sua immortalità è la sua mortalità, perché la sua realtà è nello spirito immortale. La mortalità è una costruzione dello spirito immortale – spirito immortale in quanto eterno, in quanto non soggetto al tempo. Ma come immortale è l’individuo come atto spirituale, che è individuo individuandosi. Nell’atto, come puro atto, fuori del quale nulla c’è che non sia astrazione, è dunque il regno dell’immortalità. Qui ha colto la questione dell’atto come atto puro, che è il concreto, fuori del quale non c’è nulla che non sia astrazione. Il fatto è che è solo con l’astrazione che possiamo avere a che fare, ma, torno a dire un’altra volta, possiamo avere a che fare con l’astrazione perché esiste il concreto, perché siamo nel linguaggio, sennò non astraggo assolutamente niente, da che cosa astraggo? Se l’uomo non fosse questo atto, e non si sentisse, per quanto oscuramente, in questo suo essere che è immortale, egli non potrebbe vivere, perché incorrerebbe in quell’assoluto scetticismo pratico, il quale non sarebbe un semplice tentativo di non pensare, – com’è stato sempre lo scetticismo teorico o astratto, che s’è fatto tante volte strada nei petti umani, – ma l’arresto effettivo del pensare; del pensare, con cui non si può percepire se non il vero nel mondo dell’eterno. Qui dice una cosa importante. Dice che in qualche modo l’uomo avverte l’immortalità, cioè avverte questa simultaneità, questa compresenza e coesistenza degli elementi, perché se così non fosse si arresterebbe il linguaggio. È ciò che dicevo all’inizio: gli umani fanno di tutto per dominare il linguaggio, senza rendersi conto che, dominandolo, muoiono, è la loro morte. Quindi, lo scetticismo, che, dice, non sarebbe soltanto un modo per non pensare, è qualcosa di più, cioè, comporta l’arresto effettivo del pensare – io aggiungerei: l’arresto definitivo della possibilità di pensare, se l’uomo non si sentisse, per quanto oscuramente, in questo suo essere che è immortale, in questo atto che è ogni volta un atto che crea il mondo, l’autoctisi, lo crea letteralmente. Da qui l’immenso valore che ciascuno dà al proprio atto di parola, estendendolo poi inopinatamente a cose che non hanno più nulla a che fare con quello, ma rende conto del motivo per cui per ciascuno la sua parola, il suo atto di parola, è l’eterno, l’universale, e deve essere così per tutti, perché è l’assoluto. E lo è, ma non nel modo in cui lo si pensa generalmente, lo è in quanto effettivamente quell’atto ha creato ciò che intende fare o intende dire, lo ha creato, lo ha prodotto in quel momento. Questo non ha nulla a che fare con la cosiddetta fantasia di onnipotenza, che è l’idea di poter avere il controllo sul linguaggio, di poterlo dominare, anziché accorgersi di essere linguaggio, di essere quell’atto puro; puro non nel senso che è senza macchia e senza peccato, ma puro nel senso che non è condizionato da alcunché, come il linguaggio non è condizionato da altro, ché questo altro sarebbe fuori dal linguaggio. Sono questioni che Gentile sta ponendo in modo radicale, perché il problema che pone, quello della simultaneità, spazio, tempo, è il problema centrale del linguaggio. Non c’è nessuna possibilità di dominare, di gestire il linguaggio per via della simultaneità: ciascuna cosa avviene simultaneamente con ciò che è la sua condizione, e cioè il suo opposto, che deve essere presente perché quell’elemento sia quello che è.