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30-9-2015

 

Nella “Dottrina platonica della verità” Heidegger muove dal celeberrimo racconto di Platone noto come il mito della caverna. Heidegger nota delle cose interessanti e che ci riguardano, il mito della caverna lo conoscete tutti, ma c’è un aspetto che ci interesserà riprendere, e cioè l’idea che per avere una corretta visione delle cose occorra sempre un qualche cos’altro, che è un po’ ciò su cui ci stiamo soffermando ultimamente, e cioè che qualche cosa per essere quella che è ha necessità di un’altra cosa. Dopo avere ripreso il mito della caverna Heidegger dice: La forza simbolica esplicativa delle immagini del mito si concentra piuttosto per Platone nel ruolo che hanno il fuoco, il suo chiarore, le ombre, il chiaro del giorno, la luce del sole, il sole. Tutto dipende dal risplendere di ciò che appare e di ciò che ne rende possibile la visibilità, la sveltezza anche se è nominata nei suoi diversi gradi in realtà viene considerata solo in relazione al modo in cui rende accessibile nella sua evidenza, “edos”. Ciò che appare è visibile ciò che così si mostra. (e cioè svela nella sua evidenza, ciò che appare è visibile, ciò che così si mostra appunto l’ιδša, l’ιδša è ciò che si mostra, sarebbe l’evidenza) La vera e propria riflessione riguarda l’apparire dell’evidenza consentito nella chiarezza della luce, tale “e-videnza” offre la vista su ciò che ogni ente è in quanto è presente, la riflessione vera e propria ha di mira l’idea, l’idea è l’evidenza che conferisce la vista su ciò che è presente, l’idea è il puro risplendere nel senso in cui si dice “il sole risplende”, l’idea non fa apparire qualcos’altro dietro di lei ma è essa stessa ciò che risplende portandole unicamente il proprio risplendere (dietro l’idea non c’è nessuno, in Platone l’idea è l’essere dell’ente, l’ente ha di sopra l’essere ma l’essere al di là di lui non ha niente). L’essenza dell’idea consiste nel suo potere risplendere e rendersi visibile. Essa realizza il venire alla presenza, cioè il presentarsi di ciò che un ente di volta in volta è. Nel “che cos’è?” dell’ente questo viene di volta in volta alla presenza di ciò che è ma il venire alla presenza è in generale l’essenza dell’essere, per Platone quindi l’essere ha la sua essenza autentica nel che cos’è, (il τί ἐστί) anche la terminologia successiva rivela che la quidditas è il vero “esse” l’essentia, non l’existentia (nel medioevo distinguevano tra essentia e existentia. L’essentia sarebbe il che cos’è, l’existentia il che è. Chiedersi che cos’è una certa cosa dà già per acquisito che quella cosa esista, quindi c’è una differenza tra il “che cos’è?” e il “che è” cioè il fatto che esiste) Ciò che l’idea mette in vista e da così a vedere è lo sguardo a lei diretto lo svelato di ciò che essa è nell’apparire in questo modo lo svelato è concepito fin dall’inizio e unicamente come ciò che è appreso nell’apprensione dell’idea, ciò che è conosciuto nel conoscere, solo in questa locuzione il noeἶn e il νος, l’apprensione assumono in Platone un riferimento essenziale all’idea /…/ Il disporsi in questo orientarsi sulle idee determina l’essenza dell’apprensione e in seguito l’essenza della ragione (come dire che occorre l’idea, occorre il concetto di evidenza perché possa darsi una percezione, io percepisco qualcosa se qualcosa si manifesta). Svelatezza significa sempre lo svelato come ciò che è accessibile mediante la capacità di splendere dell’idea. La vista vede il visibile solo in quanto l’occhio è ¹lioeidšs e come tale ha la capacità di partecipare al modo d’essere del sole cioè sorprendere, l’occhio stesso riluce si offre a risplendere eccetera il mito denota il sole come l’immagine dell’idea del bene, in che cosa consiste l’essenza di questa idea? Come idea il bene è qualcosa che risplende, come tale da la vista, come tale è a sua volta come qualcosa di visibile e quindi di conoscibile, nell’ambito del conoscibile l’idea del bene è la visività che porta a compimento ogni apparire e che quindi può essere vista propriamente solo per ultima, cosicché in sé la si vede a mala pena e solo con gran fatica (la vista, la visività, qui la questione del bene è importante perché adesso Heidegger ne parlerà ancora ma diventa mano a mano la vista, il potere vedere bene, ma potere vedere come? Correttamente. Tutto il mito della caverna non fa altro che mostrare la necessità della corretta visione, infatti parlerà a breve del ὀρθότης. I tizi sotto nella caverna vedono le ombre proiettate dalla luce che è dietro di loro, poi il tizio si libera dalle catene e vede che cosa? vede il fuoco, vede il fuoco che stava dietro le spalle prima quindi è abbacinato non riesce più a distinguere bene, si tratta sempre di una cattiva visione prima perché comunque è una visione indiretta, vede solo le ombre e le scambia per la realtà perché è abbacinato dal fuoco e quindi vede tutto sfocato finché non arriva in cima e gli ci vuole un bel po’ di tempo per potere adattare la vista, “adattare la vista”, Heidegger insiste su questo anzi dice che lo fa Platone ma sull’adattare l’intelletto alla verità che non è una cosa semplice, per cui ciò di cui si tratta, ciò che è in gioco qui è il fatto che il bene a questo punto l’γαθν non è nient’altro che la corretta visione, il vedere bene cioè il capire bene, cioè l’accedere alla verità, questo è il bene, questo poi per Platone è ciò che gli umani cercano e anche per Aristotele la felicità è ciò che gli umani inseguono, ma la felicità nell’accezione platonica di bene, di γαθν appunto come la verità, l’αλήθεια. A un certo punto si chiede:) Ma il Mito della caverna tratta dell’αλήθεια? Certamente no, e tuttavia non c’è dubbio che questo mito contiene la dottrina platonica della verità infatti esso si fonda sul processo non detto attraverso cui l’idea diviene padrona dell’αλήθεια (cioè l’idea vale a dire, che poi l’idea è un aspetto dell’essere, cioè il vedere, l’evidenza diventa padrona dell’αλήθεια cioè di ciò che è svelato mentre sappiamo bene che Heidegger, sulla scia dei greci pre platonici probabilmente, comunque lui pone la svelatezza come ciò che si impone, la svelatezza, l’αλήθεια è il manifestarsi dell’essere, che si disvela appunto, quindi la visività segue, così come l’ente di Heidegger segue all’essere, perché è l’essere che consente all’ente di manifestarsi, mentre qui c’è il capovolgimento in un certo senso perché con Platone è la visibilità, la visività, l’evidenza che invece domina sull’αλήθεια, cioè sul disvelamento. In altri termini ancora possiamo dire che con Platone l’ente diventa la cosa evidente che ha sì l’essere alle spalle però questa idea. L’essere rimane sempre nell’iperuranio, però l’essere è l’idea, l’idea che io ho delle cose, come se a questo punto, questo è un po’ il passaggio che fa l’idea platonica, diventasse qualcosa di visivo, quando io parlo dell’idea di qualche cosa (in quel momento si mostra) sì in quel momento si mostra però è come se io trasformassi questa idea in qualcosa di visibile, di concreto) Il mito da un’immagine di ciò che Platone dice dell’idea, essa stessa è sovrana perché consente la svelatezza, ciò che si mostra e nello stesso tempo l’apprensione di ciò che è svelato, (ora qui è grosso modo il contrario di quello che invece afferma Heidegger) l’αλήθεια cade sotto il giogo dell’idea, quando Platone dice a proposito dell’idea che essa è la sovrana che consente lo svelamento, egli rinvia a qualcosa di non detto e cioè che d’ora in poi l’essenza della verità non si dispiega più come essenza della svelatezza a partire da una propria pienezza essenziale ma si trasferisce nell’essenza dell’idea, l’essenza della verità abbandona il tratto fondamentale della svelatezza, se ovunque in ogni comportarsi in rapporto all’ente ciò che importa è l’δεν dell’ιδša, cioè la visione dell’evidenza (per questo vi parlavo prima dell’idea che diventa visiva, cioè la visione dell’evidenza) allora ogni sforzo deve concentrarsi anzitutto nel rendere possibile un tale vedere, per questo è necessario il guardare nel modo retto, già chi è liberato all’interno della caverna quando abbandona le ombre e si rivolge alle cose dirige lo sguardo a ciò che è più ente rispetto alle mere ombre, così rivolto verso ciò che è più ente dovrebbe guardare senz’altro in modo più corretto, il passaggio da una condizione all’altra consiste nel guardare ogni volta nel modo più corretto tutto dipende dall’ὀρθότης, dalla correttezza dello sguardo. In virtù di questa correttezza il vedere e il conoscere diventano retti, cosicché alla fine si rivolgono direttamente all’idea suprema e si fissano in questa direzione, così dirigendosi l’apprensione si conforma a ciò che deve essere veduto, questa è l’evidenza dell’ente, per effetto di questo adeguarsi dell’apprensione in quanto δεν all’ιδša (cioè alla visione dell’evidenza) si costituisce una moίosis, una concordanza del conoscere con la cosa stessa, in questo modo dal primato dell’ ιδša e dell’δεν sull’αλήθεια nasce un mutamento dell’essenza della verità, la verità diventa ὀρθότης “correttezza” dell’apprensione e dell’asserzione, con questo mutamento dell’essenza della verità si compie al tempo stesso un cambiamento del luogo della verità, come svelatezza esso è ancora un carattere fondamentale dell’ente stesso, come correttezza del guardare invece diventa una caratteristica del comportarsi dell’uomo in rapporto all’ente (in questa pagina Heidegger ha mostrato in modo chiarissimo come si è passati dal disvelarsi, dalla svelatezza delle cose, dall’idea della verità come qualcosa che si disvela alla corretta visione, vera perché si è svelata alla correttezza)

Intervento: alla svelatezza, qualcosa si svela cioè l’αλήθεια, qualcosa si mostra la verità è il mostrarsi, il solo mostrarsi di qualcosa e questo qualche cosa è indefinito, perché al momento in cui lo definisco diventa la cosa che io vedo, devo vedere per esempio

(Non necessariamente, no, ciò che per Heidegger è αλήθεια è “svelamento”). Eppure in un certo qual modo Platone deve mantenere ancora la verità come carattere dell’ente perché l’ente in quanto presente ha l’essere nell’apparire e questo porta con sé la svelatezza ma nello stesso tempo il problema di ciò che è svelato si trasferisce all’apparire dell’evidenza e quindi al vedere che si riferisce ad essa e alla rettezza e correttezza del vedere (ora si trova in questa ambiguità da una parte c’è la verità, l’essere come verità e dall’altra verità come correttezza, cioè per Platone si mantiene ancora un po’ questa ambiguità tra la verità come αλήθεια e la verità come ὀρθότης). Per questo nella dottrina di Platone c’è una inevitabile ambiguità, proprio questa ambiguità attesta il mutamento dell’essenza della verità prima non detto e che ora va detto, l’ambiguità si rivela in modo nettissimo per il fatto che Platone mentre tratta e discute dell’αλήθεια non di meno pensa e assume come determinante l’ὀρθότης, e tutto questo nel corso dello stesso pensiero, l’ambiguità della determinazione dell’essenza della verità può essere colta in un'unica frase del passo che contiene l’interpretazione che Platone stesso da del mito della caverna, il pensiero guida è che l’idea suprema unifica sotto il suo giogo il conoscente e il conosciuto, ma questo rapporto è concepito in un duplice modo in primo luogo e quindi in un senso determinante Platone dice “la causa originaria cioè ciò che rende possibile l’essenza sia di tutto ciò che è corretto, sia di tutto ciò che è bello (quindi la causa originaria quella che cerca lui di tutto ciò che è corretto e di tutto ciò che è bello ma poi dice anche che l’idea del bene è sovrana e consente la svelatezza e anche l’apprensione) queste due asserzioni non corrono parallele in modo che si possa dire che l’αλήθεια corrisponda agli ὀrt£, al corretto e il νος l’apprensione ai cal£ (il bello) piuttosto le corrispondenze sono incrociate, agli onta a ciò che è corretto, alla sua correttezza corrisponde la retta apprensione mentre al bello corrisponde lo svelato, infatti l’essenza del bello consiste nell’essere ἐcfanšstaton ciò che splendendo massimamente e nel modo più puro mostra l’evidenza di cos’è svelato (quindi Platone la risolve così, da una parte la correttezza certo, però l’evidenza della cosa lui la attribuisce al bello, a ciò che svelandosi splende massimamente. Dicevo prima che qui Heidegger mostra come sorge la questione della correttezza, del corretto vedere e quindi del corretto sapere, della verità, e nel mito della caverna questa correttezza precede il retto vedere, procede dal fatto che c’è un qualche cosa che consente la correttezza, nel caso della caverna ma è un mito, un racconto, una metafora: la luce. La luce consente a qualche cosa di essere, e questa posizione antichissima e sempre presente permane, permane ed è il nucleo stesso della metafisica e cioè: qualche cosa è in quanto qualche cos’altro consente al primo di essere. È una questione complessa ma straordinaria perché mette in evidenza il modo stesso di pensare metafisico, cioè di pensare tout-court, il modo stesso in cui funziona il linguaggio: ciascun elemento linguistico è quello che è, sempre per via di un altro. È come se fosse sempre questo altro a “essere” tra virgolette, la luce che illumina il primo. Per tornare al mito della caverna, quando un elemento si sposta su un altro si trova in una situazione molto particolare, cioè questo elemento appare, si evidenzia, ma perché possa, qui piego un po’ Platone, evidenziarsi correttamente occorre un altro elemento che dica che cos’è, in altri termini ancora il linguaggio è una sequenza ininterrotta di domande circa il “che cos’è?” e di risposta a questa domanda, va avanti così, ininterrottamente. Il “che cos’è?” come dicevamo prima, riguarda il τί ἐστί e la metafisica propriamente, è l’essentia, chiede che cos’è questa cosa, cioè chiede l’essentia, dando per acquisita l’existentia, il fatto che ci sia propriamente perché se no intorno a che cosa domanda? L’existentia è l’ontologia, è l’accertare che un qualche cosa c’è, come lo accerto? Torniamo a Nietzsche: lo accerto in base al suo valore, se vale c’è, c’è ciò che vale, è questo l’essere per Nietzsche, è il valore, la volontà di potenza. Che cosa vale? Vale ciò che consente, sempre per usare le parole di Nietzsche, il superpotenziamento, cioè ciò che mi serve per costruire altre proposizioni. La tecnica è questo: la capacità di costruire altre proposizioni, sempre altre, come dicevamo la volta scorsa ciascuna proposizione è sempre in “vista di …”. A questo punto è più chiaro, “in vista di …” perché ciascun elemento, così come Platone lo illustra nella caverna, ha bisogno di un altro elemento per essere, e quindi la potenza si manifesta nel trovare, nell’avere a portata di mano l’altro elemento che dà l’esistenza al primo. E così via all’infinito. Questo procedere, che è il procedere stesso della metafisica, come dicevo prima è il funzionamento stesso del linguaggio, cosa che comporta una serie di grossi problemi. Li abbiamo già accennati ma si tratta a questo punto di incominciare a precisarli perché la cosa è più complicata di quanto sembrava …

Intervento: quest’altro elemento è un elemento che è connesso con quello per cui interviene un altro elemento con il quale è connesso il primo …

Se si tratta del significato allora sì, se no, no. La complessità sta nel fatto che parlando ci si trova in questa bizzarra situazione dove ciascun elemento è quello che è ma sempre in vista di qualche cos’altro, ma è questo qualche cos’altro che “dà luce”, per usare la metafora di Platone, che dà luce al primo cioè lo significa, dice che cos’è. Eppure, quando uso il primo elemento, questo primo elemento è determinato quindi è come se sapessi che cos’è, “determinato” in quanto è stabilizzato, è fermo, è quello che è, ma come può essere quello che è se questo elemento non è altro che un qualche cosa che è necessariamente in vista di un altro elemento che dirà che cos’è il primo? È come se fosse simultaneamente determinato e non determinato, è determinato perché lo sto usando, se lo sto usando è determinato perché so che lo sto usando, perché ha una sua funzione all’interno di una combinatoria, ma al tempo stesso non può essere determinato se non in vista di qualche cosa che ancora non c’è, che lo trascende. Un elemento sembra essere fissato, stabilizzato eppure è necessariamente sempre in vista di altro da sé. Nietzsche la risolve così: il primo elemento che sarebbe illusorio, sarebbe la verità, quella illusoria, quella finta, l’inganno, il primo elemento viene fissato ma perché non si può non farlo, ma in realtà deve essere in vista del divenire, l’essere in vista di …, è questo l’essere per Nietzsche. Ciò non di meno rimane il fatto che rimane questo problema teoretico e cioè che un elemento è quello che è, ma è quello che è in vista di qualche cos’altro che dirà del primo che cos’è. Questo problema non una soluzione, almeno nel pensiero filosofico, e neanche in quello semiotico, il problema si instaura nel momento in cui io penso che questo elemento, il primo, quello che è in vista di … cioè attende la luce dal secondo, il suo significato, questo elemento debba avere già un significato, cioè che io debba già sapere che cos’è, mentre sappiamo che il che cos’è arriva da quell’altro, il secondo. Ecco, se io mi pongo in termini metafisici, così come generalmente si è posto il pensiero, allora effettivamente non c’è uscita, è una situazione senza sbocco, ma se io non penso necessariamente in termini metafisici o sospendo momentaneamente il pensiero metafisico, almeno in parte, posso considerare che lo stabilire un qualche cosa in un certo momento non è altro che fornire un comando a un elemento per pensarlo “come se” questo elemento avesse un significato. È detta in modo un po’ improprio, però questo porre un elemento come se avesse un significato non è altro che un modo differente di dire ciò che diceva Wittgenstein rispetto al significato come uso: attribuisco a un elemento una certa posizione, un certo significato, ma glielo attribuisco nel momento in cui so che ci sarà a seguire un elemento che potrà confermare questa cosa, e siamo sempre però nella correttezza, la domanda da porsi è questa: ciascuna affermazione che punti, possa presumere di essere vera o corretta o adeguata eccetera, può uscire dall’ὀρθότης, cioè dalla correttezza, dall’adeguamento? Quando Heidegger afferma qualche cosa o Platone afferma qualche cosa, cioè per esempio Heidegger dice di Platone che si è trovato di fronte a questa ambiguità, queste parole di Heidegger alludono a uno stato di fatto, di cose, o non dicono assolutamente niente? Alludono a una situazione, e queste parole dovrebbero, per Heidegger, dovrebbero in questo caso essere adeguate a quella situazione, quella situazione è il fatto che Platone si trova in una ambiguità tra una verità come αλήθεια e come ὀρθότης. Ma allora è possibile uscire dalla verità come adeguamento? Questa stessa domanda esce dalla verità come adeguamento? Oppure no? Perché se mi chiedo se è possibile uscire dalla verità come adeguamento, ciò che mi sto chiedendo è se sia possibile costruire, congetturare, pensare, immaginare una situazione che corrisponda a questo, cioè dove non ci sia adeguamento? Come dire che anche la domanda che si chiede se sia possibile uscire dall’adeguamento si attende dall’adeguamento una risposta, un adeguamento della parola alla cosa, in questo caso alla proposizione, a ciò che questa proposizione indica, allude, costruisce, però è sempre un adeguamento. Se ciò che affermo non avesse questo adeguamento e cioè non si riferisse a una scena, a un qualche cosa sarebbe niente, quindi è sempre comunque riferito a qualche cosa, sempre in vista di qualche cosa. Dicevo che è un problema perché a questo punto se, come stiamo considerando, stiamo continuamente usando l’adeguamento, se questa posizione non è eludibile in qualche modo, questo che implicazioni ha? Una cosa che abbiamo già considerata, e cioè che parlando, ciò che faccio è la costruzione di giochi linguistici, i quali giochi linguistici sono costruiti muovendo da proposizioni che costruiscono una scena la quale scena deve essere ciò a cui la proposizione è adeguata, e in tutto questo una volta che ho costruita questa scena, se è adeguata alla proposizione che l’ha costruita, non ho fatto nient’altro che questo, quindi tutto questo per potere costruire un’altra proposizione che a sua volta farà esattamente la stessa cosa. Questo è tutto ciò che si può fare, ciò che fanno gli umani da sempre, ma affermando questo che ho appena detto “ciò che fanno gli umani da sempre” questa affermazione è adeguata a che cosa? A un dato di fatto? A una scena? Ma questa scena a questo punto non avendo più nessuna possibilità, in nessun modo, di avere un referente non può avere se non come referente un gioco linguistico, fatto per niente. Per Nietzsche è la volontà di potenza, sì, la volontà di potenza in genere si configura come l’idea di costruire qualcosa che sia vera, e che sia riconosciuto dagli altri come vera. Ma torniamo al funzionamento del linguaggio, il linguaggio costruisce qualche cosa in vista di … ma potremmo dire a questo punto, grammaticalmente in vista di altre proposizioni, il linguaggio non può funzionare se non in questo modo, o funziona così o non funziona, e se non funziona non c’è più niente …

Intervento: il linguaggio deve fermare …

Sì, fermare sarebbe, per tornare al discorso di prima, l’existentia, il “che è”, e il rinvio sarebbe l’essentia, il “che cos’è?”: il fermare è il che è, questa cosa è, e l’ho fermata, è questa, adesso mi chiedo che cos’è? Dico prima che c’è, poi mi chiedo “che cos’è?”, ma per chiedermi “che cos’è?” appunto occorre l’existentia, occorre che sia ferma, perché se non è ferma, se qualcosa non è determinato dicevamo anche la volta scorsa non esiste, non esiste nulla se non nelle sue determinazioni, se una cosa non è in nessun modo determinabile non è neanche una cosa. Dicendo che una cosa non è determinabile si costruisce già una sorta di paradosso, perché se è qualcosa l’ho già determinato in quanto qualcosa, cioè per dire che è “indeterminabile” deve essere determinato, e questo lo diceva già Severino. Tutto questo ci conduce ad affermare che parlando non c’è nessuna alternativa al costruire giochi linguistici che hanno l’unico scopo di costruire altri giochi linguistici, e questo è tutto ciò che si fa. Il linguaggio funziona come un sistema operativo: costruisce sequenze il cui unico scopo è costruire altre sequenze. È questo che Nietzsche ha scambiato con la volontà di potenza, cioè è “volontà di potenza” nella sua accezione ma di fatto non lo sarebbe, non c’è nessuna volontà di potenza nella struttura del linguaggio, semplicemente è un sistema che è fatto in modo tale da ripetersi in questo modo, ed è fatto in modo tale per cui ciascun elemento necessita di un altro elemento, e cioè non è possibile non domandarsi in un modo o nell’altro “che cos’è?” Domandandosi “che cos’è?” già si è dato per acquisito che sia qualcosa ovviamente, cioè che ci sia, ci sia quindi l’existentia. La verità (dice Heidegger riprendendo Nietzsche) è quella sorta di errore senza la quale una determinata specie di esseri viventi non potrebbe vivere, errore, per la vita, è quello che alla fine decide. Se la verità secondo Nietzsche è una sorta di errore allora la sua essenza sta in un modo di pensare che di volta in volta e necessariamente falsifica il reale in quanto ogni rappresentazione arresta il divenire incessante e con ciò che ha così fissato erige come pretesa realtà, contrapposta al flusso del divenire, qualcosa che non gli corrisponde cioè qualcosa di non corretto e perciò di erroneo (Questa è l’obiezione che fa Heidegger a Nietzsche). Nella determinazione della verità come non correttezza del pensiero risiede l’adesione di Nietzsche all’essenza tradizionale della verità intesa come correttezza dell’asserire. Il concetto nietzscheano di verità rileva l’ultimo riflesso della conseguenza estrema di quel mutamento della verità della svelatezza dell’ente a correttezza del guardare. Il mutamento stesso si compie nella determinazione dell’essere dell’ente cioè in senso greco nel venire alla presenza di ciò che è presente come idea, secondo questa interpretazione dell’ente il venire alla presenza non è più come all’inizio del pensiero occidentale lo schiudersi di ciò che è velato nella svelatezza, dove è questa svelatezza stessa in quanto svelamento a costituire il tratto fondamentale del venire alla presenza, Platone concepisce il “venire alla presenza” οὐσία come ιδša. Questa tuttavia non è subordinata alla svelatezza, nel senso che essendo al servizio dello svelato lo porti all’apparire, è piuttosto l’apparire, il mostrarsi a determinare che cosa all’interno dell’essenza dell’apparire e solo in riferimento ad esso possa ancora chiamarsi svelatezza. L’ιδša non è il primo piano in cui viene posta l’αλήθεια ma il fondamento che la rende possibile eppure anche così l’ιδša rivendica ancora qualcosa dell’essenza iniziale ma ignota dell’αλήθεια (qui la questione per Heidegger è sempre l’accorgersi che da Platone in poi, ma già prima probabilmente, la verità non è più intesa come lo svelarsi di qualcosa, l’apparire della cosa ma il vederla correttamente e su questo si è costruita la scienza. La verità come αλήθεια verrebbe da pensarla qui in effetti come un qualche cosa che non chiede che cos’è qualche cosa se non in seconda battuta eventualmente, perché chiedersi “che cos’è?” è sempre funzionale al saperlo utilizzare: conoscenza, manipolazione, elaborazione dell’essere. Ma se togliamo l’ὀρθότης, la correttezza, l’adeguamento, come praticare l’αλήθεια? Se il linguaggio è strutturato in modo metafisico, non potendo uscire dal linguaggio non possiamo uscire dalla metafisica, però come accennavo c’è la possibilità di saperlo, cioè di tenere conto di questo e allora a questo punto non posso non parlare, non pensare se non avvalendomi della correttezza, dell’adeguamento tra ciò che penso e che cos’è quello che penso, se so tutto questo e ne tengo conto allora forse c’è una sorta di avvicinamento all’αλήθεια nell’accezione in cui ne parla Heidegger: c’è la possibilità di approcciare ciò che accade in quel momento per quello che è, cioè approcciare ciò che accade pur sapendo e anzi, proprio questo, il ciò che accade, che io parlando mi adeguo di volta in volta ai significati eccetera eccetera, è questo ciò che accade, essendo questo ciò che accade, sapendo questo e tenendone conto ecco che io mi trovo nello svelato, nell’αλήθεια. L’αλήθεια è propriamente ciò che si disvela, ciò che ho dinnanzi, ciò che mi appare e quindi ponendosi in questo modo nei confronti del linguaggio, nei confronti delle cose che accadono c’è una sorta di prossimità con il concetto di αλήθεια, perché mi trovo di fronte a ciò che sta accadendo e lo prendo così come appare, e cioè il fatto che io parlando sono costretto a utilizzare l’adeguamento, è questo che accade, questo sarebbe l’esserci (Dasein). In questo caso l’αλήθεια forse potrebbe essere proprio il modo in cui “Esserci” nel linguaggio, sapendo e non potendo non sapere il suo funzionamento, e cioè ciò che sta accadendo mentre parlo.