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30 agosto 2017

 

M. Heidegger, Essere e Tempo 

 

Siamo a pag. 316. Come possibilità insuperabile, la morte isola l’Esserci, ma solo per renderlo, in questa insuperabilità, consapevole come con-essere del poter-essere degli altri. Heidegger parla della morte come di una possibilità insuperabile: non si può superare la morte, non si può andare oltre. Come possibilità, una volta che questa possibilità è in atto, non ce n’è un’altra, anche se alcuni pensano che ci sia, non ci sono garanzie né prove. Dice: la morte isola l’Esserci. La morte isola l’Esserci, nel senso che se la morte è una possibilità insuperabile, questa insuperabilità rende l’Esserci isolato dal resto. Dice ancora: ma solo per renderlo, in questa insuperabilità, consapevole come con-essere del poter-essere degli altri, cioè, lo isola ma solo in quanto lo rende consapevole del fatto che gli altri sanno che lui muore, lui non lo sa, ma gli altri sì. Poiché l’anticipazione della possibilità insuperabile dischiude nel contempo le possibilità situate al di qua di essa, essa porta con sé la possibilità dell’anticipazione esistentiva dell’Esserci totale, cioè la possibilità di esistere concretamente come poter-essere totale. Sta dicendo che questa possibilità della morte viene anticipata nell’autenticità, mentre nella deiezione, nella chiacchiera, non viene anticipata ma viene data come già acquisita, tutti lo sanno però non mi riguarda. Invece, parlando di anticipazione della possibilità insuperabile, l’Esserci l’anticipa nel senso che se ne appropria, la fa sua. Facendola sua, anticipandola, l’Esserci è come se diventasse a questo punto totale. La questione per Heidegger è sempre quella di trovare qualche cosa che renda possibile trasformare l’Esserci, l’uomo, in un tutto. Si chiedeva nelle pagine precedenti come è possibile renderlo un tutto se ogni volta quest’uomo mi si progetta sempre gettato in avanti, ne manca sempre un pezzo, finché non arriva l’ultima possibilità e allora, solo allora, diventa un tutto. Accogliere, dunque, la morte come possibilità significa la possibilità di esistere concretamente come poter essere totale, totale nel senso che finché la morte non si verifica resta un poter essere ma non totale. La possibilità più propria, incondizionata e insuperabile, è certa. La modalità del suo esser-certa si determina in base alla verità (apertura) a essa corrispondente. Ma la possibilità certa della morte apre l’Esserci come possibilità solo se esso, anticipandosi nella morte, rende possibile a se stesso questa possibilità come il poter-essere più proprio. Non è che qui dica nulla di nuovo rispetto a ciò che ha detto prima, cioè, aprirsi a questa possibilità più propria, la morte, coglierla non come una cosa che può capitare ma come qualcosa di assolutamente mio, proprio, personale. Bisogna che L’Esserci si sia perso in rapporti fattuali (il che può essere un compito e una possibilità propri della Cura) perché possa raggiungere l’“oggettività” pura, cioè l’indifferenza dell’evidenza apodittica. Il fatto che l’esser-certo della morte non abbia questo carattere, non significa che esso abbia un grado inferiore di certezza rispetto all’evidenza apodittica, ma semplicemente che l’esser-certo non rientra, in generale, nell’ordine graduale dell’equivalenza delle semplici-presenze. Qui ribadisce ciò che aveva detto in precedenza, e cioè che questa certezza legata alla morte, non è una certezza apodittica, autoevidente. Non è neanche, dice, nell’ordine graduale dell’equivalenza delle semplici-presenze, cioè, non è neanche riconducibile all’esperienza. Il tener-per-vero riguardante la morte, morte che è sempre e soltanto propria, attesta un tipo di certezza diversa e più originaria di ogni certezza concernente l’ente che si incontra nel mondo od oggetti formali; si tratta infatti della certezza circa l’essere-nel-mondo. Se io sono certo di essere nel mondo allora non posso non tener per vero la morte come possibilità che è mia, assolutamente propria. Come dire che l’essere nel mondo ha a che fare con la morte. in quanto tale essa non richiede un comportamento particolare dell’Esserci, ma l’Esserci nell’autenticità totale della propria esistenza. (pagg. 316-317) Ecco perché dice che questa certezza della morte appartiene all’essere nel mondo, perché riguarda l’Esserci nella autenticità della propria esistenza e la propria esistenza è essere nel mondo. Nell’anticipazione, l’Esserci può accertarsi del suo essere più proprio nella sua totalità insuperabile. Perciò l’evidenza dei dati immediati dell’esperienza vissuta, dell’io e della coscienza resta necessariamente indietro rispetto alla certezza dell’anticipazione. E ciò non perché il modo di apprensione proprio dell’evidenza manchi del rigore indispensabile, ma perché esso non può, in linea di principio, tener per vero (aperto) ciò che, in effetti, pretende “detenere” come vero: l’Esserci che io stesso sono e che, in quanto poter-essere, posso essere autenticamente solo anticipando. Anche qui non è che ci stia dicendo cose nuove; in effetti, le ha già dette e adesso le ridice in un altro modo. Io mi trovo sempre in una anticipazione. Cosa vuole dire? Che sono sempre gettato nel progetto. è qui che io trovo l’autenticità, è qui che io sono quello che sono, nell’essere continuamente gettato in avanti. È per questo che dice l’evidenza dei dati immediati dell’esperienza vissuta, dell’io e della coscienza resta necessariamente indietro rispetto alla certezza dell’anticipazione. Qualunque cosa io possa sapere o credere di sapere, dice Heidegger, è sempre indietro rispetto alla certezza dell’anticipazione. Perché questa anticipazione mi dà la certezza? Perché l’anticipazione, l’esser gettato in avanti, è ciò che definisce l’Esserci e, quindi, in questo esser gettato in avanti, l’Esserci ha certezza di sé, perché è lui questo essere gettato in avanti. Quindi, è sempre in questa anticipazione che l’Esserci può dire con certezza di essere. Qualunque altra cosa che possa venire a sapere segue alla certezza di esistere. Com’è esistenzialmente possibile l’apertura genuina di questa costate minaccia? Ogni comprensione è emotivamente situata. La tonalità emotiva porta l’Esserci dinanzi all’esser-gettato del suo “che c’è”. È la tonalità emotiva che dice che c’è qualcosa. Questo è interessante. Se facciamo un passo verso ciò che diceva Freud, che non parla di tonalità emotiva ma di fantasie, sensazioni, immagini, scene, potremmo dire che è per via delle fantasie che posso affermare che qualcosa c’è. Questa tonalità affettiva, che è costitutiva dell’Esserci, l’Esserci non può essere senza tonalità affettiva, cioè, senza emozione, senza sentire qualche cosa, non c’è un approccio al mondo senza un’emozione, senza una sensazione, senza una fantasia, c’è sempre qualche cosa, non c’è un modo puro di approcciarsi al mondo, puro, cioè, scevro da ogni fantasia, da ogni sensazione, da ogni immagine, non esiste. Quindi, io posso dire che c’è qualche cosa perché c’è una tonalità affettiva. Senza questa tonalità affettiva, probabilmente questo Heidegger non lo dice ma non potrei neppure pormi la questione che ci sia o non ci sia qualche cosa. In effetti, sempre attenendoci ad Heidegger, io dico che c’è qualche cosa se questo qualche cosa è un utilizzabile, cioè, se è all’interno del progetto, quindi, è un qualche cosa per me in quanto ne voglio fare qualcosa. La tonalità emotiva è quella cosa, in quanto fantasia, che mi spinge a utilizzare una certa in un certo modo. La tonalità emotiva porta l’Esserci dinanzi all’esser-gettato del suo “che c’è”.  Il “che c’è” è qualcosa che è sempre gettato all’interno del progetto. Ma la situazione emotiva che può tenere aperta la costante e assoluta minaccia incombente sul se-Stesso ed emergente dal più proprio e isolato essere dell’Esserci è l’angoscia. Tra tutte le situazioni emotive sappiamo che lui privilegia l’angoscia perché è quella che testimonia, sì, certamente della morte ma della morte in quanto nullifica, rende nullo ogni progetto. Ogni progetto è verso il nulla, in quanto realizzando l’ultima possibilità si annulla. Come dicevamo, ogni volta che realizzo l’ultima e autentica possibilità, cessa tutto. Heidegger chiama questa sensazione, questa tonalità emotiva, angoscia. Quindi, l’angoscia è la tonalità emotiva più propria dell’Esserci, quella che testimonia della consapevolezza da parte dell’Esserci del nulla connesso con il progettare, e cioè che il progetto si infrange nel nulla. E sappiamo che il progetto è ciò che definisce l’Esserci, l’Esserci è il progetto gettato. Possiamo dire anche così: è come se l’Esserci comprendesse, e questa comprensione ha questa tonalità emotiva, l’angoscia, che ciascun progetto si nullifica nel momento in cui si attua. Perché questo? Perché ciascun progetto, se è un progetto autentico, è come se fosse sempre in vista di… del progetto più proprio, ma sappiamo che il progetto più proprio lo annienta. Posta in questi termini, la cosa può essere più o meno interessante, potrebbe anche non esserlo, ma se riflettiamo meglio su questa cosa vediamo che ciascuna volta in cui affermo qualcosa affermo qualcosa sempre per qualcosa, questo affermare è un progettare continuo. Ciò che affermo in questo progetto, nel momento in cui lo affermo, nel momento in cui è gettato innanzi, questo affermare è come se si annullasse. Dicevamo la volta scora, a proposito del significante: io affermo qualcosa; nel momento in cui lo affermo, questa cosa che affermo si dissolve in altre affermazioni, in altre cose, si dissolve nella sua gettatezza, nel suo essere gettato, nel suo essere innanzi. Il fatto di essere sempre innanzi significa che non è mai qui ma è sempre proiettato in avanti. Per dirla in modo più spiccio, mentre dico ciò che dico mi si sottrae. Non per una magia o chissà per quale altra cosa, ma perché ciò che sto dicendo, Heidegger lo dice chiaramente, è sempre gettato in avanti, è sempre pro-gettato, cioè, gettato in avanti “per” qualche cosa. Questa gettatezza è esattamente ciò che comporta la sparizione, uso questo termine banale, di ciò che sto dicendo: ciò che dico è come se sparisse di fronte a ciò che sto per dire, ciò che dico è sempre già arretrato. È questo il motivo per cui ciò che dico ha sempre bisogno di essere supportato. La semiotica affronta la questione in modo abbastanza interessante. Si può fare anche un esempio: se io voglio dire una certa cosa e affermo qualche cosa; poi se mi chiedo che cosa veramente ho voluto dire allora faccio altre affermazioni, ma, facendo queste altre affermazioni, posso chiedermi anche in questo caso che cosa ho voluto dire esattamente, e andare avanti all’infinito. Come dire che il dire iniziale, che poi non è mai iniziale, segue sempre altre cose, è sempre gettato avanti a sé; ogni volta che dico qualche cosa questo dire è sempre gettato avanti a sé, per cui non è già più qui. Tutto questo non ci dice un granché di nuovo ma ciò che può essere interessante è questo trovarsi di fronte al nulla, e infatti, dice Heidegger, proseguendo In essa l’Esserci si trova di fronte al nulla della possibile impossibilità della propria esistenza. Quindi, il nulla è la massima possibilità dell’Esserci, la massima possibilità del progetto è il nulla. Secondo Heidegger, il modo in cui gli umani colgono emotivamente questa cosa è l’angoscia, l’angoscia di fronte al fatto che pur parlando per tutta l’esistenza, dai prima balbettii fino alla cessazione di ogni cosa, lungo questo arco che solitamente viene chiamata vita, io non ho detto niente. Non sto dicendo nulla: è questo il nulla di cui parla qui, in questa riga: In essa l’Esserci si trova di fronte al nulla della possibile impossibilità della propria esistenza, perché io posso esistere solo con l’ultima possibilità che chiude la questione, ma una volta che è chiusa ho perso ogni possibilità. Potete considerare il progetto come un discorso, come un dire, un voler dire, un affermare cose, per ciascuno si trova sempre di fronte a questo fatto, che dicendo non dice nulla. Il che in alcuni casi può essere seccante. È un dire nulla nel senso che questo dire, per potere compiersi, per potersi attestare, per potersi fermare, deve scomparire. È una questione che abbiamo affrontato anche tempo fa, quando dicevamo in modo un po' spiccio che ciascuna cosa, per essere quella che è, deve necessariamente essere altra da sé e dire la stessa cosa, per potere dire che è quella che è, per poterla stabilire, definire, fermare, devo tenere conto che questa che voglio fermare è fatta di infinite altre cose che sfuggono continuamente, e cioè prendere atto che questa cosa che voglio fermare non è un qualche cosa ma, come diceva Hjelmslev, un fascio di relazioni. Ecco perché non dico nulla, non dico nulla nel senso che non posso mai stabilire che cosa ho veramente detto. È una questione che anche la psicoanalisi aveva affrontato già con Freud, poi anche Lacan si era avvicinato: il fatto che io non riesca mai a dire che cosa ho voluto dire veramente. Questo ci porta alla considerazione che non c’è ciò che ho voluto dire veramente, cioè non c’è nulla che supporti, nel senso letterale di tenere su, ciò che io sto dicendo. Ciò che sto dicendo è sorretto da niente, on è garantito da niente. Certo, si potrebbe obiettare che ciò che si dice è sempre un qualche cosa, nel senso che, per esempio, come dice Hjelmslev, è il prodotto di un fascio di relazioni, e queste relazioni? Siamo daccapo. Ecco la questione del nichilismo assoluto di cui parlavo tempo fa. Lo chiamo nichilismo assoluto giusto per distinguerlo dal nichilismo filosofico e da quello letterario. Un nichilismo assoluto che mostra che parlando, dicendo, non si dice nulla in realtà, si costruiscono sequenze al fine di costruire altre sequenze. E se non ci fosse la volontà di potenza, in effetti, come abbiamo detto tante volte, non ci sarebbe nessun motivo per parlare, assolutamente nessuno. Ma la volontà di potenza è quella cosa che costringe a dire cose al solo scopo di utilizzarle. Queste cose che si dicono sono degli utilizzabili, ma utilizzabili per che cosa? Per la volontà di potenza, e cioè per imporli sugli altri, in definitiva. L’unico obiettivo, l’unica meta che hanno gli umani è esercitare la volontà di potenza. In effetti, sì, dicevo che non si dice nulla ma questo è irrilevante. Tenendo conto di questo che importanza ha se quello che dico sia un qualche cosa di specifico, di particolare, serve soltanto a costruire cose che io posso utilizzare contro qualcuno, usando artifici retorici, logici, ecc., però, il fatto che non significhino nulla è perfettamente in linea, per così dire, con ciò che dicevo prima, e cioè il fatto che queste cose non servono a illustrare, a determinare, chiarire, precisare, sapere come stanno le cose, non gliene importa niente a nessuno sapere come stanno le cose se non per utilizzare questa cosa per la volontà di potenza: io so come stanno le cose, ve lo dico e voi regolatevi di conseguenza, però, badate che se non fate quello che vi dico vi prendete un sacco di legnate. Così in genere va a finire. Poiché l’anticipazione isola assolutamente l’Esserci e in questo isolamento fa sì che esso divenga certo della totalità del suo poter-essere… cioè, quando io accolgo la morte come possibilità pura. …la situazione emotiva fondamentale dell’angosci appartiene a questa autocomprensione dell’Esserci nel suo fondamento stesso. L’autocomprensione dell’Esserci più autentica è questa, e cioè di avere come sua unica possibilità autentica il nulla. E questo, dice Heidegger, è l’angoscia: bada che qualunque cosa tu stia facendo il tuo progetto va verso il nulla, è questa la sua destinazione. Tutto ciò è stato poi preso anche malamente, come un catastrofismo teorico. In effetti, se noi prendessimo tutto questo, cioè, ciò che ho definito come nichilismo assoluto, non come una conclusione tragica e inevitabile del pensiero ma come un punto di partenza per fare altre cose, per pensare altro, allora il discorso è diverso, perché non comporta più l’annichilimento totale, che è l’accusa che viene rivolta al nichilismo, cioè di ridurre ogni cosa a nulla. Non è che diciamo che cosa è nulla, ogni cosa è nulla, ma questo non è un problema, non è un intoppo, è un’opportunità, un’occasione. È un nulla, cioè, non ha nessuna occasione di fondarsi su alcunché. Per Heidegger, in effetti, il fondamento stesso dell’Esserci è il nulla. Quindi, il sapere che non c’è un fondamento, che le cose che si dicono o che si affermano, le proprie fantasie, i pensieri, angosce, tragedie, gioie, ecc., è un nulla, ecco, tutto ciò ha dei risvolti importanti e interessanti perché a quel punto il mio approccio al mio pensiero è totalmente differente. Quale sarà l’approccio questo è difficile a dirsi, cioè, che cosa potrebbe accadere in questa circostanza. Tuttavia, possiamo affermare tranquillamente che l’approccio non potrebbe più essere lo stesso. Come dicevamo tanto tempo fa, non posso credere vero ciò che so essere falso. Questo approccio differente è l’opportunità che il nichilismo assoluto può proporre.

Il nulla ha una sua utilità, ci mostra, e qui seguiamo Heidegger, dove sono dirette le nostre parole, dove è diretto il nostro progetto mentre parliamo, tenendo conto che tutto ciò che affermiamo, non che sarà usato contro di noi, ma che lo useremo contro di noi. Per cui anche l’affermazione che dice che non c’è più la necessità di parlare del nulla è votata al nulla, cioè, mostra l’inconsistenza del suo significato. Il nichilismo assoluto è propriamente questo, la constatazione inevitabile che qualunque affermazione, anche questa, si nullifica mentre si afferma, ed è a questo punto che non c’è più salvezza. Ma, come dicevo, questa non è la fine del pensiero, è l’inizio, ed è questo l’aspetto interessante. Il nichilismo assoluto è ciò che riconduce ogni affermazione, che propone il nulla del fondamento, a se stessa. Anche questa stessa formulazione è totalmente infondata, è solo un gioco linguistico. Un gioco linguistico fatto per che cosa? Per la volontà di potenza, per potere dominare le cose, per sapere come stanno le cose. Si può evitare questo? Per Nietzsche no, neanche per me, tutto sommato. Non è evitabile per la struttura stessa del linguaggio, per il modo in cui funziona. Quindi, o troviamo un altro linguaggio, il che mi sembra difficile, oppure dobbiamo tenere conto di questo, e cioè del fatto che qualunque cosa ha questa unica funzione: soddisfare la volontà di potenza, il superpotenziamento, come lo chiama Nietzsche, che serve ad avere il controllo, il dominio sulle cose, conoscenza, manipolazione, elaborazione dell’ente, dirà Heidegger un po’ di anni dopo. questo è l’obiettivo: il controllo delle cose. Perché? Questo lo sappiamo, perché il linguaggio ci costringe a fare questo, perché per potere costruire delle sequenze necessita di fermare un elemento e di stabilire che un certo elemento è quello che è, perché solo a questa condizione posso da lì costruirne un altro. Deve essere quello che è perché, se non è quello che è, non mi serve a niente; se muta continuamente, come faccio? Quindi, deve essere quello che è, ma non lo è naturalmente, sono io a imporre che sia così, ecco l’atto di imperio, l’atto di volontà di potenza. È lo stesso discoro della scienza, come dice Heidegger: la scienza non pensa, non si occupa di nulla, fa i suoi giochini senza sapere assolutamente nulla di quello che sta facendo. Non che gliene importi qualcosa alla scienza, naturalmente, ha altre cose da fare. Questa è una questione molto importante, anche abbastanza complessa, mi rendo conto che non è così semplice, non solo da articolare ma anche da cogliere. A pag. 318. Ciò che caratterizza l’essere-per-la-morte autentico progettato sul piano esistenziale può essere riassunto così: l’anticipazione svela all’Esserci la dispersione nel Si-stesso e, sottraendolo fino in fondo all’aver cura che si prende cura, lo pone innanzi alla possibilità di essere se stesso, in una libertà appassionata, affrancata dalle illusioni del Si, effettiva, certa di se stessa e piena di angoscia: LA LIBERTÀ PER LA MORTE. Questo è il riassunto che ha fatto Heidegger. Allora, questa anticipazione, anticipazione rispetto alla morte… come abbiamo visto prima questa anticipazione comporta l’accogliere la morte come possibilità più propria. Dunque, l’anticipazione svela all’Esserci la dispersione nel Si-stesso, cioè, svela all’Esserci che è completamente disperso nel Si, nella chiacchiera, è questo che gli mette di fronte. E, quindi, sottraendolo fino in fondo all’aver cura che si prende cura… lo sottrae fino in fondo a questo avere cura che si prende cura. Cosa vuole dire che lo sottrae? Che non ha più da prendersi cura del Si ma lo pone innanzi alla possibilità di essere se stesso, cioè, smette di prendersi cura dell’aver cura, di impicciarsi in sciocchezze, in una libertà appassionata, affrancata dalle illusioni del Si, effettiva, certa di se stessa e piena di angoscia: LA LIBERTÀ PER LA MORTE, perché soltanto nell’essere-per-la-morte trova la libertà. Libertà da che? Libertà dal Si, libertà dalla chiacchiera, libertà dalla deiezione dell’Esserci, cioè, dalla dimenticanza dell’essere. La questione pendente dell’essere-un-tutto autentico da parte dell’Esserci e della sua costituzione esistenziale sarà portata su un terreno fenomenico garantito solo se potrà attenersi a un’autenticità possibile dell’essere dell’Esserci, attestata dall’Esserci stesso. Noi riusciremo a risolvere questa questione pendente dell’Esserci come un tutto soltanto se sarà l’Esserci stesso a risolverci il problema. Se lo cerchiamo al di fuori dell’Esserci non lo troveremo mai. È lì, ponendo fenomenicamente l’essere… fenomenicamente, cioè, così come ci appare. Se ci riesce di scoprire un’attestazione di questo genere e di chiarire fenomenologicamente il contenuto, si porrà daccapo il problema di stabilire se l’anticipazione della morte, finora progettata solo nella sua possibilità ONTOLOGICA, si connetta in modo essenziale col poter-essere autentico ATTESTATO. Dobbiamo ancora stabilire se questa morte, finora soltanto progettata nella sua possibilità ontologica, ha a che fare con il poter-essere autentico attestato, cioè, assicurato. E, quindi, c’è il problema dell’attestazione. Come si attesta qualcosa? Attestare significa generalmente stabilire, stabilire che una certa è in un certo modo, non per sua natura perché l’attestazione è un atto di volontà: io attesto che questa cosa è mia, non significa nulla di per sé ma io lo attesto, cioè lo garantisco, lo stabilisco. Il titolo del Capitolo Secondo è L’attestazione da parte dell’Esserci di un poter-essere autentico e la decisione. Occorre, quindi, trovare qualche cosa che ci attesti, che ci assicuri, da parte dell’Esserci, che possa essere autenticamente. Finora, evidentemente, non è ancora sicuro, non è ancora attestato, che l’Esserci possa diventare un essere autentico e per essere autentico deve farsi carico della morte. È possibile questo? Come progetto, sì. Lo diceva prima, sì, ontologicamente abbiamo parlato della morte come progetto, ecc., però, come diceva nella pagina prima, progettata solo nella sua possibilità ONTOLOGICA, però bisogna vedere se questo si connette in modo essenziale con il poter-essere autentico attestato. Quindi, dobbiamo prima stabilire che cosa intendiamo con poter-essere autentico. Infatti, il paragrafo 54 si intitola Il problema dell’attestazione di una possibilità esistentiva autentica.