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30-7-2014

 

F. Nietzsche

Su verità e menzogna in senso extramorale (1873)

In un qualche angolo remoto dell’universo che fiammeggia e si estende in infiniti sistemi solari, c’era una volta un corpo celeste sul quale alcuni animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e menzognero della «storia universale»: e tuttavia non si trattò che di un minuto. Dopo pochi sussulti della natura, quel corpo celeste si irrigidì, e gli animali intelligenti dovettero morire. - Ecco una favola che qualcuno potrebbe inventare, senza aver però ancora illustrato adeguatamente in che modo penoso, umbratile, fugace, in che modo insensato e arbitrario si sia atteggiato l’intelletto umano nella natura: ci sono state delle eternità, in cui esso non era; e quando nuovamente non sarà più, non sarà successo niente. Per quell’intelletto, infatti, non esiste nessuna missione ulteriore, che conduca al di là della vita dell’uomo. Esso è umano, e soltanto il suo possessore e produttore può considerarlo con tanto pàthos, come se in lui girassero i cardini del mondo. Se fosse per noi possibile comunicare con la zanzara, verremmo a scoprire che anch’essa con lo stesso pàthos nuota nell’aria dove si sente come il centro che vola di questo mondo. Non c’è niente in natura di così spregevole e dappoco che con un piccolo soffio di quella facoltà conoscitiva non si possa gonfiare come un otre; e allo stesso modo in cui qualsiasi facchino vuol avere i suoi ammiratori, anche il più orgoglioso degli uomini, il filosofo, è convinto che da ogni lato gli occhi dell’universo siano puntati telescopicamente sul suo fare e sul suo pensare.

È degno di nota che a tanto giunga l’intelletto, qualcosa cioè che è concesso proprio solo come strumento ausiliario alle più infelici, alle più fragili, alle più transitorie delle creature, per conservarle un minuto nell’esistenza; giacché esse altrimenti, senza quel supporto, avrebbero tutte le ragioni a volatilizzarsi tanto rapidamente quanto il figlio di Lessing. Quella tracotanza legata alla conoscenza e alla sensibilità, nebbia accecante che sta davanti agli occhi e ai sensi degli uomini, li inganna dunque sul valore dell’esistenza, portando in se stessa la valutazione più piena di lusinghe circa la conoscenza. Il suo effetto più generale è l’inganno - ma anche gli effetti più particolari portano con sé qualcosa dello stesso carattere.

L’intelletto, come mezzo per la conservazione dell’individuo, sviluppa le sue forze più importanti nella simulazione; infatti è questo il mezzo attraverso cui si conservano gli individui più deboli, meno robusti, visto che a loro è negato di condurre la battaglia per l’esistenza con le corna o con i morsi laceranti degli animali feroci. Nell’uomo quest’arte della simulazione tocca il suo culmine: qui l’ingannare, l’adulare, il mentire, e il fingere, lo sparlare dietro le spalle, il rappresentare, il vivere in una magnificenza d’accatto, il mascherarsi, le convenzioni che servono a nascondere, il recitare una parte dinanzi agli altri e a se stessi, in una parola l’incessante svolazzare intorno a quella fiamma che è la vanità, tutto ciò così spesso è la regola e la legge che niente è più inconcepibile del fatto che tra gli uomini possa emergere un impulso onesto e puro verso la verità. Essi sono profondamente immersi in sogni e illusioni, il loro occhio scivola soltanto sulla superficie delle cose e non vede che «forme», in nessun modo la loro sensibilità conduce al vero, bastandole di ricevere stimoli ossia di giocare un gioco tattile sul dorso delle cose. Inoltre l’uomo durante la notte, per tutta la vita, si lascia ingannare in sogno, senza che il suo sentimento morale glielo impedisca; mentre devono esserci uomini che grazie alla forza di volontà hanno eliminato il russare. Che cosa sa propriamente l’uomo di sé? Davvero sarebbe capace, anche solo una volta, di avere di sé una percezione completa, come se si trovasse in una vetrina illuminata? Non gli tace la natura quasi tutto, anche riguardo al suo stesso corpo, per confinarlo e imprigionarlo in una orgogliosa e illusoria coscienza, lontano dal viluppo delle interiora, dal rapido flusso del sangue, dai nascosti brividi delle fibre? Essa ha gettato via la chiave: e guai all’infausta curiosità di guardare dalla camera della coscienza attraverso una fessura all’esterno e nel basso e guai al presentimento che l’uomo poggi su ciò che è spietato, avido, insaziabile, omicida e stia sospeso in sogno, nella sua beata ignoranza, per così dire sul dorso di una tigre! Dov’è mai, in quale parte del mondo, sotto questa costellazione l’impulso alla verità?

In quanto l’individuo vuole conservare se stesso di fronte ad altri individui, in uno stato di cose naturale egli si serve dell’intelletto per lo più soltanto per la simulazione; ma poiché l’uomo vuole anche esistere, sia per bisogno sia per noia, socialmente e come in un gregge, stipula un patto di pace e si adopera per cancellare dal suo mondo almeno il più brutale bellum omnium contra omnes. Questo patto di pace porta qualcosa con sé, che è come il primo passo verso il raggiungimento di quell’enigmatico impulso alla verità. A questo punto cioè viene fissato ciò che da allora in poi dovrà essere la «verità», il che significa che si è trovata una connotazione vincolante e uniformemente valida delle cose e che la norma linguistica istituisce anche le prime regole della verità; sicché si fa luce qui per la prima volta il contrasto di verità e menzogna: il mentitore si serve delle connotazioni valide, le parole, per far apparire l’irreale come reale; egli dice per esempio d’essere ricco, mentre in questo caso la connotazione appropriata sarebbe «povero». Stravolge le convenzioni basilari attraverso scambi arbitrari o addirittura inversione dei nomi. Se fa questo a proprio vantaggio e anzi in modo da recare danno, la società non avrà più fiducia in lui e senz’altro lo bandirà da sé. Gli uomini qui fuggono non tanto il fatto di essere truffati, quanto il fatto di essere danneggiati attraverso la truffa. In fondo non è l’inganno che in questo caso essi detestano, bensì le brutte e nocive conseguenze di certi generi di inganni. Soltanto in un senso ristretto come questo l’uomo vuole anche la verità. Egli desidera gli effetti piacevoli, e atti a conservare la vita, della verità; verso la conoscenza pura, priva di conseguenze, egli è indifferente, ed ha addirittura un atteggiamento ostile verso le verità che possono essere dannose e distruttrici. Inoltre: che ne è delle convenzioni linguistiche? Sono forse strumenti della conoscenza, del senso della verità, nel senso che le connotazioni e le cose coincidono? Il linguaggio è allora l’espressione adeguata di tutte le realtà?

Soltanto uno smemorato può giungere a credere questo: che l’uomo è capace di una verità nel grado sopra descritto. S’egli non s’accontenta della verità in forma di tautologia e cioè di gusci vuoti, finirà sempre per prendere le illusioni per delle verità. Che cos’è una parola? Il riflesso sonoro di uno stimolo nervoso. Ma dedurre dallo stimolo nervoso l’esistenza d’una causa fuori di noi, è già il risultato d’una falsa e indebita applicazione del principio di causalità. Posto che nella genesi del linguaggio decisiva sia stata soltanto la verità, così come il punto di vista della certezza nelle connotazioni, come possiamo noi ancora dire: «La pietra è dura», come se per noi la «durezza» fosse altrimenti nota e non soltanto uno stimolo del tutto soggettivo? Noi suddividiamo le cose in generi, designiamo l’albero come maschile, la pianta come femminile: che trasposizioni arbitrarie! E quanto al di là del canone della certezza! Noi parliamo di un serpente: la connotazione non tocca che il muoversi torcendosi e quindi potrebbe anche adattarsi al verme. Quali abbreviazioni arbitrarie, e che preferenze unilaterali per questa o per quella proprietà di una cosa! le diverse lingue poste l’una accanto all’altra dimostrano che nelle parole non è mai la verità che importa o l’adeguatezza dell’espressione: diversamente, infatti, non ci sarebbero così tante lingue. La «cosa in sé» (il che appunto sarebbe la pura verità senza scopo) risulta del resto del tutto inconcepibile all’inventore di un linguaggio e assolutamente non degna d’essere perseguita. Costui connota soltanto le relazioni delle cose con gli uomini, per l’espressione delle quali egli si serve delle più ardite metafore. Uno stimolo nervoso tradotto anzitutto in immagine! prima metafora. L’immagine nuovamente riplasmata in un suono! seconda metafora. E ogni volta un completo salto di orizzonte, dentro uno nuovo e del tutto diverso. Si può pensare a un uomo completamente sordo e che non abbia mai avuto percezione alcuna del suono e della musica: come costui osserva meravigliato sulla sabbia cose come le figure sonore di Chladni poi scopre che la loro causa è nel vibrare della corda e infine è pronto a giurare ormai di sapere cos’è ciò che gli uomini chiamano suono, così di tutti noi per quel che riguarda il linguaggio. Noi crediamo di sapere qualcosa delle cose stesse, quando parliamo di alberi, colori, neve e fiori e tuttavia non disponiamo che di metafore delle cose, che non esprimono in nessun modo le essenze originarie. Allo stesso modo in cui il suono prende l’aspetto di figura tracciata sulla sabbia, così l’enigmatica X della cosa in sé prende l’aspetto di uno stimolo nervoso, poi di un’immagine, infine di un suono. Dunque non c’è niente di logico nell’origine del linguaggio e tutto il materiale su cui e con cui più tardi l’uomo della verità, il ricercatore, il filosofo lavora e costruisce, vien fuori, se non proprio dal paese delle nuvole, certo in nessun caso dall’essenza delle cose. Riflettiamo in particolare sulla formazione dei concetti: ogni parola diviene senz’altro concetto, dal momento che essa non deve servire come ricordo per una esperienza originaria del tutto singolare e individualizzata, cui deve il suo sorgere, ma piuttosto deve adattarsi a innumerevoli casi più o meno simili e cioè, in senso stretto, mai identici, quindi a casi puramente diseguali. Ciascun concetto sorge dall’eguagliare il non eguale. Certamente mai una foglia è del tutto eguale a un’altra, e certamente il concetto di foglia è formato attraverso il lasciar cadere queste differenze individuali ossia attraverso la dimenticanza di ciò che distingue, sicché spunta l’idea che nella natura al di là delle foglie ci sia qualcosa come la «foglia», una sorta di forma originaria, sulla base della quale tutte le foglie sarebbero plasmate, disegnate, sfumate, colorate, graffite, dipinte, ma da mani inesperte, tanto che nessun esemplare possa riuscire corretto e sicuro come riflesso fedele della forma originaria. Noi chiamiamo un uomo «onesto»; perché costui oggi si è comportato così onestamente? Poniamo la questione. La nostra risposta tende a essere: a causa della sua onestà. L’onestà! è come dire di nuovo: la foglia è la causa delle foglie. Noi non sappiamo nulla di una tale qualità essenziale, che si chiama onestà, ma certo conosciamo innumerevoli azioni individuali e perciò disuguali, che noi attraverso la soppressione delle disuguaglianze paragoniamo e allora definiamo come azioni oneste; infine a partire da queste noi formuliamo una qualitas occulta cui diamo nome: onestà.

La dimenticanza di ciò che è reale e individuale ci dà il concetto così come anche la forma, là dove invece la natura non conosce né forme né concetti, e neppure generi, bensì soltanto una X per noi inattingibile. Del resto anche la nostra contrapposizione di individuo e genere è antropomorfica e non scaturisce dalla natura della cosa, anche se noi non ci arrischiamo a dire che non la esprime: questa infatti sarebbe un’affermazione dogmatica e in quanto tale non dimostrabile, come quella che le si oppone.

Che cos’è dunque la verità? Un esercito mobile di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane, che sono state sublimate, tradotte, abbellite poeticamente e retoricamente, e che per lunga consuetudine sembrano a un popolo salde, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni, delle quali si è dimenticato che appunto non sono che illusioni, metafore, che si sono consumate e hanno perduto di forza, monete che hanno perduto la loro immagine e che quindi vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non più come monete. Noi continuiamo a non sapere da dove scaturisca l’impulso alla verità: giacché noi finora abbiamo preso atto del dovere, che la società impone per esistere, di essere sinceri, e cioè di usare le metafore secondo le consuetudini; il che significa, da un punto di vista morale: noi abbiamo preso atto del dovere di mentire secondo una salda convenzione, di mentire cioè tutti insieme in uno stile vincolante per tutti. Ora, certamente l’uomo si dimentica che le cose stanno così; dunque egli mente nel modo indicato, incoscientemente e per consuetudini secolari - e proprio attraverso questa incoscienza, proprio attraverso questo dimenticare egli perviene al sentimento della verità. Insieme con il sentimento d’essere obbligato a designare una cosa come rossa, una seconda come fredda e una terza come muta, sorge in lui un impulso che ha per scopo la verità: per contrasto con il mentitore, cui nessuno crede e che tutti escludono, l’uomo si convince della dignità, della fidatezza e dell’utilità della verità. Egli pone ora il suo agire, in quanto essere razionale, sotto il dominio delle astrazioni: non sopporta più di lasciarsi trascinare dalle impressioni in concetti tiepidi e incolori, per legare ad essi il carro della sua vita e del suo agire. Tutto ciò che separa l’uomo dall’animale dipende da questa capacità di piegare ad uno schema le metafore intuitive, quindi di risolvere un’immagine in un concetto; infatti nell’ambito di tale schematismo è possibile ciò che non lo sarebbe mai con le prime impressioni intuitive: costruire un ordinamento piramidale secondo caste e gradi, creare un nuovo mondo di leggi, privilegi, sottodivisioni, limitazioni che stia di fronte all’altro mondo delle prime impressioni come ciò che è più solido, più generale, più conoscibile e dunque come ciò che è più perentorio e imperativo. Mentre ciascuna metafora intuitiva è individuale e senza niente di eguale a sé tanto da saper sottrarsi a qualsiasi catalogazione, la grande costruzione dei concetti attesta la rigida regolarità di un columbarium romano e ispira alla logica quel rigore e quella freddezza che sono propri della matematica. Chi si ispiri a questo rigore, potrà credere a malapena che anche il concetto, fatto d’osso come un dado a otto facce e rovesciabile come questo, tuttavia non persiste che come il residuo di una metafora, e che l’illusione della artistica trasposizione di uno stimolo nervoso in immagine, se non è la madre certo è la progenitrice del concetto. Però all’interno di questo gioco di dadi dei concetti è «verità» l’uso di qualsiasi dado conformemente alle prescrizioni: contare con precisione i punti segnati, tenere cataloghi esatti e non sovvertire mai l’ordine gerarchico e la successione delle classi. Come i romani e gli etruschi spartivano il cielo per mezzo di rigide linee matematiche e in ciascuno spazio così delimitato confinavano un dio, così ciascun popolo ha sopra di sé un tale cielo concettuale spartito matematicamente e capisce che se si vuol giungere alla verità ciascun dio concettuale debba essere ricercato soltanto nella sua sfera. Qui si può di certo ammirare l’uomo come un potente genio della costruzione, capace di ergere su fondamenta mobili e per così dire sull’acqua corrente un arco concettuale infinitamente complicato; e di certo per trovare stabilità su tali basi bisogna che la costruzione sia fatta di ragnatele, così leggera da lasciarsi trasportare dalle onde e così salda da non essere soffiata via dal vento. In questo modo l’uomo, come genio costruttivo, s’innalza al di sopra delle api: queste costruiscono sulla cera, ch’esse raccolgono dalla natura, egli invece sulla più sottile materia dei concetti, che deve fabbricarsi da sé. Egli è da ammirare ma non a causa del suo impulso verso la verità, verso la conoscenza pura delle cose. Se qualcuno nasconde un oggetto dietro un cespuglio, e poi torna lì a cercarlo e lo trova, non è che per lui ci sia molta gloria in questo cercare e trovare: ma proprio così stanno le cose quanto alla ricerca e alla scoperta della «verità» entro l’ambito della ragione. Se io produco la definizione di un mammifero e poi dichiaro, alla vista di un cammello: guarda, un mammifero! certo con questo una verità viene portata alla luce, ma essa è di valore limitato, mi pare; in tutto e per tutto essa è antropomorfica e non contiene un solo singolo punto che sia «vero in sé», reale e universalmente valido, al di là della prospettiva dell’uomo. Il ricercatore di simili verità in fondo non cerca che la metamorfosi del mondo nell’uomo; egli si affatica per comprendere il mondo come cosa umana e nel migliore dei casi consegue con la sua lotta il sentimento di un’assimilazione. Allo stesso modo in cui l’astrologo considera le stelle al servizio dell’uomo e le tratta in connessione con la sua felicità e il suo dolore, così un tal ricercatore tratta tutto il mondo come asservito all’uomo, come l’eco infinitamente ripetuta di un suono originario, come il riflesso moltiplicato di un’immagine originaria, ossia dell’uomo. Il suo procedimento è questo: considerare l’uomo come misura di tutte le cose, dove però si incomincia con un errore, che consiste nel ritenere che all’uomo queste cose siano date immediatamente, come puri oggetti. Egli dimentica dunque le metafore intuitive che stanno alla base in quanto metafore, e le prende per le cose stesse.

Soltanto attraverso la dimenticanza di quel primitivo mondo di metafore, soltanto attraverso l’indurimento e l’irrigidimento di una originaria massa di immagini sgorgante con flusso impetuoso da quella facoltà originaria che è la fantasia umana, solo attraverso la fede invincibile che questo sole, questa finestra, questo tavolo siano delle verità in sé, in breve solo se l’uomo si dimentica di sé come soggetto e anzi come soggetto che crea artisticamente, egli può vivere con tranquillità, con sicurezza e con coerenza; se gli fosse possibile uscire solo per un attimo dalle pareti di questa fede che lo tiene prigioniero, immediatamente della sua «autocoscienza» non ne sarebbe più nulla. Già gli costa molta fatica ammettere che l’insetto o l’uccello percepiscono un mondo del tutto diverso rispetto a quello dell’uomo, e che chiedersi quale sia la più giusta delle due percezioni è assolutamente privo di senso, poiché qui si dovrebbe misurare in base al paradigma della giusta percezione e cioè in base a un paradigma che non esiste. Ma in generale a me sembra che la giusta percezione - il che significherebbe l’espressione adeguata di un oggetto nel soggetto - sia un’assurdità contraddittoria: infatti tra due sfere assolutamente separate come tra soggetto e oggetto non c’è nessuna causalità, ma semmai una relazione estetica, ossia, secondo me, una trasposizione allusiva, una traduzione che tenta di fare il verso in un linguaggio del tutto estraneo. Ma a tale fine ci vorrebbe comunque una sfera intermedia e una forza intermedia in cui liberamente poetare e inventare. La parola apparenza contiene molte seduzioni, perciò io la evito il più possibile: infatti non è vero che l’essenza delle cose si manifesti nel mondo empirico. Un pittore, cui mancassero le mani e che volesse esprimere con il canto l’immagine che gli si agita di fronte, svelerà sempre qualcosa in più con questo scambio di ambiti di quanto il mondo empirico non sveli dell’essenza delle cose. Perfino il rapporto tra uno stimolo nervoso e l’immagine che ne è ricavata non è necessario; quando però la stessa immagine è ricavata milioni di volte e trasmessa per molte generazioni, finendo con l’apparire sempre a tutti gli uomini come lo stesso esito d’uno stesso principio, allora finisce per acquistare per tutti lo stesso significato, quasi che fosse l’unica immagine necessaria e quasi che quel rapporto tra l’originario stimolo nervoso e l’immagine indotta sia uno stretto rapporto di causalità; così come un sogno, che si ripetesse eternamente, sarebbe senz’altro sentito e giudicato come realtà. Ma l’indurimento e l’irrigidimento di una metafora non accreditano per niente la necessarietà e l’inconfutabile giustezza di questa metafora.

Chiunque abbia familiarità con riflessioni del genere, ha provato una profonda diffidenza: contro una simile forma di idealismo, ogni volta che si è perfettamente convinto dell’eterna coerenza, della generale validità e dell’infallibilità delle leggi di natura; sicché ne ha tratto questa conclusione: qui tutto, per quanto noi penetriamo nelle altezze del mondo telescopico e nelle profondità di quello microscopico, è sicuro, architettato, infinito, fatto con misura e senza lacune; la scienza avrà eternamente da scavare in questi pozzi con successo e tutto ciò che si troverà sarà messo in connessione senza che si contraddica. Come tutto ciò somiglia poco ai prodotti della fantasia: se infatti si trattasse di questo, da qualche parte l’apparenza e l’irrealtà dovrebbero venir fuori. Invece bisogna proprio dire: se ciascuno di noi avesse, per sé, una diversa percezione, se noi potessimo percepire ora come uccelli, ora come vermi, ora come piante, oppure sulla base dello stesso stimolo nervoso uno di noi vedesse rosso e l’altro blu, e a un terzo la stessa cosa apparisse un suono, allora nessuno parlerebbe a proposito della natura di conformità alla legge, ma la si concepirebbe piuttosto, questa conformità, come una creazione del tutto soggettiva. Inoltre: cos’è per noi in generale una legge di natura? In sé non ci è nota, bensì soltanto nella sua relazione con altre leggi di natura, le quali a loro volta ci sono note soltanto come relazioni. Tutte queste relazioni dunque non fanno che rimandare le une alle altre, mentre le loro essenze in tutto e per tutto risultano a noi incomprensibili; soltanto ciò che noi vi aggiungiamo, il tempo, lo spazio, dunque i rapporti di successione e i numeri, ci sono realmente noti. Tutto ciò che di prodigioso noi ammiriamo nelle leggi di natura ed esige da noi spiegazione e potrebbe portarci a diffidare dell’idealismo, sta proprio tutto e soltanto nel rigore matematico e nell’insuperabilità delle rappresentazioni spaziali e temporali. Queste siamo noi a produrle in noi stessi e da noi stessi con quella necessità con cui il ragno tesse la tela; se noi siamo costretti a concepire tutte le cose soltanto sotto queste forme, allora non c’è da meravigliarsi che noi in tutte le cose propriamente percepiamo soltanto queste forme: tutte infatti devono portare in sé le leggi del numero e il numero è proprio la cosa più prodigiosa nelle cose. Tutta la conformità alle leggi, che ci fa impressione sia nel corso degli astri sia nel processo chimico, in fondo coincide con quelle proprietà che noi introduciamo nelle cose, sicché siamo noi a impressionare noi stessi. Da ciò risulta allora che quell’artistica formazione di metafore, con la quale in noi comincia qualsiasi forma di sensazione presuppone già quelle forme e dunque è in esse che si realizza. Soltanto in virtù della salda persistenza delle forme originarie si spiega la possibilità che l’edificio concettuale debba poi a sua volta costituirsi in base alle metafore stesse. Si tratta infatti di un’imitazione dei rapporti spaziali, temporali e numerici nel campo delle metafore.

2.

Alla elaborazione dei concetti lavora originariamente, come abbiamo visto, il linguaggio, e in tempi successivi la scienza. Allo stesso modo in cui l’ape allestisce le sue celle e nello stesso tempo le riempie di miele, così la scienza lavora instancabilmente a quel grande columbarium dei concetti che è il cimitero delle intuizioni, e vi costruisce sempre nuovi e più alti piani, e puntella, ripulisce, rinnova le antiche celle e anzitutto s’adopera per riempire quello smisurato edificio a compartimenti e collocarvi in ordine l’intero mondo empirico, ossia il mondo antropomorfico. Se già l’uomo d’azione vincola la sua vita alla ragione e ai suoi concetti, per non essere spazzato via e per non perdersi, a sua volta il ricercatore costruisce la sua capanna proprio sotto la torre della scienza, per aiutarne lo sviluppo e per trovare un riparo sotto il bastione che già c’è. E di riparo ha bisogno: giacché ci sono potenze terribili che continuamente gli si fanno incontro e contrappongono alla verità scientifica delle «verità» di tutt’altro genere e dalle insegne più varie.

Quell’impulso verso la formazione di metafore, quell’impulso fondamentale dell’uomo di cui neppure per un attimo non si può non tenere conto, perché allora non si terrebbe conto dell’uomo, è in realtà non represso e anzi a malapena controllato, dal momento che con i suoi prodotti evanescenti, ossia i concetti, viene edificato un nuovo mondo, regolare e saldo come un baluardo. Esso cerca per sé un nuovo ambito d’azione, un nuovo alveo, e lo trova nel mito e in generale nell’arte. Continuamente scompagina i cataloghi e gli scomparti dei concetti esibendo nuove trasposizioni, metafore, metonimie; continuamente mostra la bramosia di rifare il mondo attuale dell’uomo desto in modo variopinto, irregolare, privo di conseguenze, incoerente, esaltante ed eternamente nuovo come il mondo dei sogni. Di per sé l’uomo nello stato di veglia è convinto d’essere desto grazie alla rigida e regolare ragnatela dei concetti, ma proprio perciò crede di sognare non appena quella ragnatela concettuale viene lacerata dall’arte. Pascal ha ragione quando afferma che se sognassimo tutte le notti lo stesso sogno, ne saremmo presi come dalle cose di tutti i giorni: «Se un operaio fosse certo di sognare per dodici ore filate tutte le notti di essere un re, io credo - dice Pascal - che sarebbe altrettanto felice di un re il quale sognasse tutte le notti dodici ore di essere un operaio». Il giorno di un popolo che viva nell’emozione mitica, come per esempio i greci più antichi, in virtù del prodigio continuamente operante proprio del mito, è in realtà più simile al sogno che alla veglia del pensatore scientificamente disincantato. Quando ogni albero può parlare come se in lui ci fosse una ninfa, quando sotto le spoglie di un toro un dio carpisce vergini, quando la stessa dea Atena improvvisamente è vista attraversare le piazze di Atene su di un bel cocchio in compagnia di Pisistrato - e gli onesti ateniesi ci credono allora in ogni momento, come in sogno, tutto è possibile, e l’intera natura circonda l’uomo come se essa non fosse che una mascherata di dèi che scherzosamente si sono messi a ingannare gli uomini in tutte le forme.

L’uomo stesso però ha una invincibile inclinazione a lasciarsi ingannare ed è come rapito dalla felicità quando il rapsodo gli racconta per vere delle leggende epiche o quando l’attore a teatro fa la parte del re più regalmente che nella realtà. L’intelletto, quel maestro di simulazione, è libero e sollevato da quello che invece è il suo ufficio di schiavo, finché può ingannare senza far danno, e così celebra i suoi Saturnali; mai esso è più eccitato, più ricco, più orgoglioso, più agile, più audace. Con piacere temerario esso scompiglia le metafore e smuove le pietre miliari dell’astrazione, e così per esempio designa il fiume come quella via semovente che porta l’uomo là dove altrimenti egli dovrebbe recarsi a piedi. Ora poi esso si è liberato dei segni di servitù: dopo essersi premurato con triste operosità di mostrare la via e gli strumenti a un povero essere desideroso di vivere, dopo essersi dato a ruberie e a grassazioni come un servo a favore del padrone, ora è diventato lui padrone e può togliersi dal volto l’espressione del bisogno. Rispetto a ciò che faceva allora, ciò che fa ora porta il segno della simulazione, così come ciò che faceva allora portava il segno della deformazione. Egli copia la vita umana, ma la prende per una cosa seria e dà mostra di trovarcisi a suo agio. Quella smisurata struttura concettuale appigliandosi alla quale quel miserabile che è l’uomo si salva durante la sua vita, è per l’intelletto liberato nient’altro che un sostegno o un giocattolo per le sue temerarie attività artistiche: e quando esso distrugge queste cose, le scompagina e poi con ironia le rimette insieme, accoppiando le cose più estranee e separando le cose più affini, allora è chiaro ch’esso non ha più bisogno di quei sotterfugi della miseria e non è più guidato da concetti bensì da intuizioni. Non c’è una strada regolare che da queste intuizioni conduca nella terra degli schemi spettrali, delle astrazioni: la parola non è fatta per queste cose, tant’è che l’uomo di fronte ad esse ammutolisce e si mette a parlare con metafore che sono semplicemente proibite o con concetti inverosimili, per corrispondere creativamente all’impressione della forte intuizione con cui ha a che fare almeno attraverso la distruzione e l’irrisione delle vecchie costruzioni concettuali.

Ci sono epoche nelle quali l’uomo razionale e l’uomo intuitivo stanno l’uno accanto all’altro, il primo col terrore dell’intuizione, il secondo con lo scherno per l’astrazione: tanto restio alla ragione quest’ultimo, quanto all’arte il primo. Entrambi vogliono dominare la vita: l’uno, in quanto sa affrontare le principali necessità con accortezza, intelligenza e coerenza, l’altro in quanto è una sorta di «eroe traboccante di gioia» che non vede quelle necessità e considera reale solo la vita che la simulazione trasforma in apparenza e in bellezza. Quando l’uomo intuitivo, come per esempio nella Grecia più antica, adopera le sue armi in maniera più vigorosa e vincente del suo antagonista, in caso favorevole può prender forma una civiltà e può istituirsi il dominio dell’arte sulla vita; quella simulazione, quel ripudio della miseria, quella magnificenza delle intuizioni metaforiche e in generale quell’immediatezza dell’inganno accompagnano tutti gli eventi di una tale vita. Né la casa, né il passo, né la veste, né il vaso d’argilla attestano d’essere stati inventati dal bisogno; ma piuttosto è come se in essi dovesse esprimersi una sublime felicità e una serenità olimpica e in un certo senso un giocare con ciò che è serio. Mentre l’uomo guidato da concetti e da astrazioni grazie a questi respinge solo l’infelicità senza però procurarsi la felicità dalle sue astrazioni, mentre egli mira il più possibile alla liberazione dal dolore, l’uomo intuitivo a sua volta stando nel cuore di una civiltà, dalle sue intuizioni ottiene non solo una protezione dal male, ma anche, in flusso continuo, rischiaramento, serenità, redenzione. Certo egli soffre più intensamente, quando soffre; anzi, egli soffre più di frequente, perché non accetta di imparare dall’esperienza e sempre di nuovo cade nel medesimo tranello. Nel dolore egli è tanto irragionevole quanto nella felicità, giacché grida ad alta voce e non si dà pace. Quanto diversamente si comporta lo stoico, in una disgrazia analoga, ammaestrato com’è dall’esperienza, lui, che si domina grazie al concetto! Egli, che in altre occasioni cerca unicamente la rettitudine, la verità, la liberazione dagli inganni e la difesa dalle seducenti sorprese, esibisce ora, nell’infelicità, il capolavoro della simulazione allo stesso modo in cui il suo antagonista l’aveva esibito nella felicità; non mostra un volto che si contrae e si scompone, ma per così dire una maschera con tratti di dignitoso equilibrio, e non grida né altera la sua voce. E se un temporale si abbatte su di lui, si avvolge nel suo mantello e lentamente s’incammina sotto di esso.

 

 

Nietzsche pone qui delle questioni di grande interesse perché sono le stesse questioni intorno alle quali stiamo lavorando da qualche tempo: la questione della verità, del perché gli umani cercano la verità, del che cosa sia questa verità e perché è così importante. Come dicevamo l’altra volta leggendo qualche cosa di Quine, che si era ingegnato per costruire una grammatica che gli consentisse di costruire una logica, la quale logica permettesse di stabilire le condizioni di verità degli enunciati, tutto questo apparato allo scopo di stabilire quali enunciati sono veri e quali no, e a quali condizioni, come se la questione della verità fosse così importante, e lo è, ma perché? Qui Nietzsche sfiora la questione, in realtà non aveva gli strumenti per andare oltre una sorta di invettiva, di sdegno contro gli umani che si illudono di possedere la verità, si illudono di sapere come stanno le cose mentre invece ciò con cui hanno a che fare sono metafore, metafore prodotte da “stimoli nervosi” certo allora lui non aveva strumenti molto affinati nonostante che Nietzsche fosse un filologo essenzialmente, però di teoria di linguaggio, di semiotica, di filosofia del linguaggio sapeva molto poco ovviamente, non che i semiotici e i filosofi del linguaggio siano andati molto oltre naturalmente, però utilizzando i loro strumenti e in particolare quelli forniti da Sigmund Freud è possibile fare un passo avanti, e cioè incominciare a rispondere alla domanda “perché gli umani cercano la verità?”. Sono pronti a difenderla quando suppongono di averla anche a prezzo della propria vita, e dispostissimi a togliere la vita altrui se non credono nella loro. Ma è un illusione questa verità? Nietzsche è un poeta, però non dobbiamo farci sedurre dal suo stile ma continuare invece a riflettere, dunque riformulo la domanda “è un’illusione la verità oppure no?”. Tenendo conto di ciò che abbiamo detto ultimamente, alla luce di tutto ciò possiamo considerare che la “verità” in prima istanza è un parola, potremmo dire un sostantivo femminile singolare, ma ciò che la rende quello che è, e le dà il valore che ha presso gli umani, è che è stato considerato che la verità debba coincidere con le cose stesse, con la “cosa”, con la “quidditas”. Dunque la verità come adeguamento della parola alla cosa, la verità è il dire la cosa così com’è, su questo ovviamente Nietzsche ha mostrato delle obiezioni, la cosa in sé è assolutamente non conoscibile, perché? Il motivo è semplice: qualunque cosa io dica di ciò che io immagino sia la cosa in sé, lo dico, cioè costruisco delle proposizioni, costruisco delle proposizioni che per esempio ne descrivono le proprietà, e per quanto io immagini o mi sforzi di avvicinarmi alla cosa in sé questa continuerà a mostrarsi soltanto attraverso proposizioni, parole, e io mi avvicino ancora e incontro altre proposizioni, altre parole, altre sequenze e poi mi avvicino ancora e trovo altre parole, altre proposizioni. Questo è stato ed è il fallimento di quella cosa nota come metafisica, e cioè quella dottrina, per taluni una scienza, che si è ingegnata e impegnata moltissimo per millenni per rispondere proprio a questa domanda “che cos’è la cosa in sé?” ma questo dicevo ha portato il fallimento inesorabile, cioè non poteva non fallire, e non può non fallire perché di quella cosa che immagina essere la cosa in sé non può che dirne e ciò che trova quindi sono soltanto e sempre altre parole, all’infinito potremmo dire. Questo ha costituito e costituisce un grossissimo problema per tutta la teoria della conoscenza, perché a questo punto ci si ritrova di fronte alla domanda “che cosa si conosce?” “cos’è questa cosa che si conosce?”, ammesso che ci sia questa cosa che si conosce, ma primo, dovremmo sapere che cos’è la conoscenza, se volessimo giocare questo gioco ed essere corretti, dovremmo prima stabilire che cos’è la conoscenza, almeno avere un’idea di che cosa si sta parlando, però questo comporta un grosso problema perché se io mi pongo la domanda “che cos’è la conoscenza?” nel modo in cui ponevo prima e cioè per sapere della cosa in sé “che cos’è questa cosa che chiamo “conoscenza?” mi trovo a girare in tondo, cioè a dire cose, certo posso dirne quante ne voglio all’infinito, ma che cosa avrò fatto, avrò colto l’essenza della cosa in sé? Avrò colto questa essenza o, come direbbero i filosofi antichi l’Essere della conoscenza? Certo che no, ma gli antichi avevano posta questa nozione, l’Essere, l’Essere che risponde alla domanda “quod sit” che cosa sia. Ma ci troviamo punto e a capo. Immaginiamo di dovere rispondere a questa domanda “cos’è l’Essere?” e incominciamo a dire cose e ne sono state dette uno sterminio. Di nuovo, come dicevo, ci troviamo al punto di partenza e cioè dovremmo definire questa cosa che chiamiamo Essere e quindi ecco che ci troviamo a costruire delle sequenze, delle proposizioni, delle parole e siamo al problema di prima al quale se ne aggiunge un altro, perché non basta quello di prima e cioè che volendo dire che cos’è una cosa possiamo soltanto dire e continuare a dire, a dire, a dire, a dire, ma ciò che diciamo, le parole che usiamo per dire loro stesse, se le dovessimo prendere a una a una, che cosa dicono queste parole? Intanto perché possano funzionare all’interno di un sistema occorre che, come ci illustrava in modo interessante Quine, prima ci sia una grammatica che determini i modi in cui questi termini, questi elementi linguistici possano essere correttamente composti, quindi ciascuna di queste parole è debitrice per la sua stessa esistenza di una grammatica, grammatica che è una costruzione assolutamente arbitraria, tant’è che se ne possono costruire parecchie, così come viene fatto. Non solo, ma c’è un altro problema ancora a rendere le cose più complicate: ciascuno di questi termini, e qui viene in mente De Saussure che per primo incominciò a considerare attentamente la parola come segno, fatta di un significato e di un significante, ma sia il significato quanto il significante non esistono certo di per sé, esistono in una relazione che lui chiama differenziale del significato con tutti gli altri significati e del significante con tutti gli altri significanti, quindi qual è il senso a questo punto? Qual è il significato di una parola? Vi rendete facilmente e immediatamente conto di quanto non sia semplice rispondere a una domanda del genere, nonostante siano stati fatti sforzi notevoli da parte della filosofia analitica soprattutto, che si è occupata del significato, ma non solo per venire fuori da una cosa del genere senza riuscire a farlo, perché queste considerazioni sono tali da non essere facilmente eludibili. La semplice considerazione che ciascuna parola per esempio è tale in quanto connessa con tutte le altre: se voi isolate una parola, la togliete dal linguaggio quindi dalla grammatica, dalla sintassi, dalla semantica, questa parola è niente, non è neanche un suono perché per essere un suono io devo già sapere che cos’è un suono, quindi deve già essere inserita all’interno di un sistema di coordinate che mi dica determinate cose per cui io possa concludere che quella cosa è un suono, se no non è neanche quello. Ecco allora dove si è arenato il pensiero degli umani che da duemila e cinquecento anni si interroga sulla verità, quindi sul significato, quindi sulla realtà, quindi sull’Essere senza riuscire a venirne fuori. Questi problemi che vi ho enunciati prima in rapida successione di fatto non hanno trovato nessuna soluzione, perché significa molto semplicemente che attribuire un significato a una parola è un atto di consuetudine certo, Wittgenstein poi diceva questo, il significato non è altro che l’uso, l’uso che per tradizione viene fatto di una certa parola e lo diceva anche Nietzsche, la consuetudine, i millenni poi con tutte le variazioni perché la lingua è una cosa che non è identica a sé, eterna, ma è in continuo mutamento, lentissimo, ma in continuo mutamento infatti cambia. Il latino di Cicerone non era già più quello dei latini di mille anni prima, la lingua di Dante non era più quella di Cicerone e la lingua che parliamo noi non è più quella di Dante, sono passati quasi tre mila anni. Come dicevo è un cambiamento molto lento ma inesorabile. Ora ciò cui alludeva anche Nietzsche è una sorta di vacuità, di incertezza assoluta, di impossibilità di fermare, di stabilire alcunché, però qui sorgono delle domande, perché mai occorrerebbe stabilire qualcosa? Perché questa incertezza assoluta? La risposta viene forse da qui, questa certezza, questa instabilità che si rilevano, sì, ma a partire da che cosa? Dall’idea che debba esserci un qualche cosa che invece è certo, che è stabile e cioè sono tutte obiezioni alla metafisica, è come se tutte queste persone, Nietzsche compreso, dicessero alla metafisica che tutto ciò che cerca è illusorio e non si troverà mai, perché non c’è modo da nessuna parte di stabilire una certezza, senza tuttavia avere molto chiaro questo e cioè in che cosa consiste esattamente una certezza, anche in questo caso dovremmo sapere che cos’è, se la vogliamo cercare dovremmo sapere cosa stiamo cercando. Tutto ciò che si è riusciti a fare è immaginare che ci siano le cose e le parole che le dicono, ma non è così. È come se ogni volta che si cercasse di trovare qualche cosa su cui appoggiare il piede, questo qualche cosa, come diceva molto poeticamente Nietzsche, fosse fatto di acqua. Però come sapete perfettamente tutto ciò non impedisce agli umani di parlare, di essere convinti di una serie infinita di cose, di difendere queste cose strenuamente, di arrabbiarsi quando qualcuno non riconosce loro la ragione, tecnicamente come fanno a fare tutte queste cose? In base a che? Ecco che la questione a questo punto, siccome esige di essere affrontata in termini precisi e potenti, richiede un passo indietro rispetto a queste questioni e che riguarda il modo in cui gli umani imparano a parlare, per dirla altrimenti, come si trasmette il linguaggio. È lì che accade qualche cosa, a questo punto gli umani hanno qualche cosa di straordinario, che è il linguaggio, molto potente ma al tempo stesso è qualcosa che li condanna alla ricerca di qualcosa che non troveranno mai, perché è sorta la metafisica? Perché è sorta l’ontologia? Non era necessario per la sopravvivenza, se sono state inventate è perché c’è un’esigenza, Nietzsche se lo chiede ma non sa rispondere propriamente alla domanda da cui siamo partiti: perché per gli umani è così importante cercare la verità. Forse è proprio nel modo in cui il linguaggio viene appreso, viene trasmesso, forse lì c’è qualche cosa di importante. È una questione che continua a presentare dei grossi problemi, a tutt’oggi alcuni considerano che questa domanda non abbia una possibile risposta, perché? Perché dicono che perché qualcuno impari a parlare occorre che qualcuno glielo insegni ovviamente, ma per insegnare a parlare a qualcuno, perché qualche cosa abbia un senso e cioè venga colto come una forma di insegnamento occorre che ci sia già una struttura che consente questo, come dire che si può insegnare a parlare solo se l’altra persona sa già parlare. Questo è un intoppo non indifferente, però forse c’è il modo di superare questa difficoltà, ed è per questo che tempo fa ho ripreso delle cose che mi sono interessate e di cui incominceremo a parlare la prossima volta, cioè ho spostato la domanda da come si insegna a parlare agli umani, a come si insegna a parlare alle macchine, e vedere se c’è qualche connessione. È possibile trasformare un essere piccolissimo fatto di carne in un qualche cosa che incomincia a parlare e a pensare; anche una macchina, un computer è un pezzo di ferro, com’è che a un certo punto incomincia a pensare, a parlare? E quello che fa possiamo chiamarlo “pensare”? Se sì, come e perché? E se no, perché no? Se riuscissimo ad aggirarlo questo problema, o risolverlo in qualche modo, riusciremmo a dire come si insegna a parlare, e avremmo fatto un notevole passo avanti perché avremmo gli strumenti per potere dire perché gli umani parlano e pensano nel modo in cui parlano e pensano, cioè perché sono fatti nel modo in cui sono fatti.