30
luglio 1997
Il brevissimo saggio di Heidegger di cui leggeremo alcuni brani questa
sera riguarda la verità, scrive Heidegger:
La questione dell’essenza della verità non si cura
di stabilire se la verità è una verità dell’esperienza pratica della vita o di
un calcolo economico, se è la verità di una riflessione tecnica o
dell’intelligenza politica, in particolare non si propone di stabilire se è una
verità della ricerca scientifica o di una forma artistica o se è la verità di
una meditazione pensante o di una fede che si esprime nel culto. La questione
dell’essenza prescinde da tutto questo e guarda a una sola cosa: che cosa in
generale caratterizza ogni “verità” in quanto verità. Ma, occupandoci della
questione dell’essenza, non vaghiamo forse nel vuoto di una universalità che
toglie il respiro a ogni pensiero? La stravaganza di questo domandare non porta
alla luce del giorno l’infondatezza di ogni filosofia? Un pensiero ben radicato
e rivolto al reale deve mirare anzitutto e senza preamboli a penetrare la
verità reale, capace di offrirci oggi una misura e un sostegno contro la
confusione delle opinioni e dei calcoli. Di fronte a questa reale necessità,
che senso ha la questione dell’essenza della verità che “astrattamente”
prescinde da tutto ciò che è reale? La questione dell’essenza non è forse la
più inessenziale e la più gratuita che in generale possa essere posta? /…/ Che
cosa si intende abitualmente per “verità”? Questa parola “verità” così nobile e
al tempo stesso così logora e quasi insignificante, designa ciò che fa sì che
ad esempio: “E’ una vera gioia collaborare al buon esito di questo compito”, e
con ciò intendiamo dire che si tratta di una gioia pura e reale. Il vero è il
reale. In questo senso parliamo dell’oro vero per distinguerlo da quello falso
/…/ Il vero, si tratti di una cosa vera o di una proposizione vera, è
ciò che quadra, ciò che si accorda. Esser vero e verità qui significano
accordo, e questo in una doppia maniera: da un lato, l’accordo di una cosa con
ciò che si intende già per essa, dall’altro la concordanza tra ciò che è inteso
nell’asserzione e la cosa.
Qui in effetti è la nozione di veritas, che poi tra l’altro riprende
come adæquatio rei et intellectus, l’adeguamento dell’intelletto con la cosa,
se questo adeguamento c’è allora si dà la verità, questo nella tradizione, però
dice:
Ma l’intelletto è conforme all’idea solo in quanto
realizza nelle sue proposizioni l’adeguamento del pensiero alla cosa, la quale,
a sua volta deve essere conforme all’idea. Se tutti gli enti sono enti
“creaturali”, la possibilità della verità della conoscenza umana ha il suo
fondamento nel fatto che la cosa e la proposizione sono in ugual maniera
conformi all’idea, e, per l’unità del piano divino della creazione, sono
predisposte l’una per l’altra. La veritas come adaequatio rei ad intellectum
garantisce la veritas come adaequatio intellectus ad rem. Veritas significa
nella sua essenza e in generale la convenientia, il concordare degli enti tra
loro in quanto enti creati con il creatore, una sorta di accordo determinato
dall’ordine della creazione.
E in effetti la nozione più antica di verità viene da qui, cioè
dall’accordo fra la cosa e il concetto, ma questa idea è garantita essere
corretta da dio ovviamente, il quale è l’unico che possa compiere questa
operazione, ma questo ordine una volta sciolto dall’idea della creazione può
anche essere generalmente e indeterminatamente presentato come ordine
universale. e questo è ciò che avviene per lo più oggi.
Al posto dell’ordine della creazione teologicamente
pensatosi fa innanzi la possibilità di una pianificazione di tutti gli oggetti
ad opera della ragione universale, la quale si dà da sé la sua legge e quindi
esige anche l’immediata intelligibilità del suo procedere (ovvero ciò che si
ritiene logico). Che l’essenza della verità della proposizione risieda nella
conformità dell’asserzione, lo si dà per certo. Anche là dove, con uno sforzo
di una singolare inutilità, si tenta di spiegare come debba essere realizzata
questa conformità, essa viene già presupposta come essenza della verità. Ciò
significa che la verità della cosa consiste sempre nell’accordo della cosa data
col concetto “razionale” della sua essenza. Nasce così l’impressione che questa
determinazione dell’essenza della verità resti indipendente
dall’interpretazione dell’essenza dell’essere di ogni ente, la quale, a sua
volta, include una corrispondente interpretazione dell’essenza dell’uomo come
portatore e realizzatore dell’intellectus. In questo modo la formula
dell’essenza della verità (veritas est adaequatio intellectus et rei) acquista
immediatamente per chiunque un’evidente validità generale.
Come dire in altri termini che questo adeguamento tolto dio, e fattolo
passare alla legge universale, la legge delle cose, dovrebbe chiedere se l’uomo
sia il corretto interprete eventualmente di questa legge, ma siccome, dice, è
l’uomo che decide tutte queste cose la questione nemmeno si pone (acquista per
chiunque una evidente validità generale). Vi rendete conto che è un po’ sempre
la questione che già poneva Aristotele, che in definitiva il vero è ciò che i
più pensano essere tale. Ora qui incomincia ad entrare nello specifico, che
cosa dice? Perché rispetto a queste cose lui si pone in una posizione critica e
incomincia a dire quello che ne pensa lui, dice che ciò che si considera appare
e cioè ciò con cui ciascuno si confronta che è un modo particolare perché
questo ente si svela e qui riprende la nozione greca di alètheia, al posto
della veritas latina, ‘alètheia’ sarebbe secondo l’etimo che lui propone un non
nascondimento, la verità è ciò che non si nasconde o cessa di nascondersi,
cessando di nascondersi appare. Ma dove appare? E a quali condizioni? Questa è
la questione:
Questo apparire della cosa, nell’attraversare il “di
fronte”, si attua entro un aperto, (per Heidegger è ciò che interroga, il domandare),
la cui apertura non è creata dal rappresentare, ma viene da esso via via
occupata e assunta solo come un campo di riferimento. La relazione
dell’asserire rappresentativo con la cosa è l’attuazione di quel rapporto che
originariamente si mette ognora in moto come un comportarsi. Ma ogni
comportarsi è caratterizzato dal fatto che, stando nell’aperto, si attiene
ognora a un che di manifesto in quanto tale. Ciò che solo così e in senso
stretto è manifesto, viene presto esperito nel pensiero occidentale come “ciò
che è presente” e da tempo viene denominato “l’ente”.
Heidegger è un po’ arzigogolato, non è sempre chiarissimo. Ora che
cos’è ciò che lui intende con ente? È ciò che si svela davanti a me e rispetto
al quale io mi comporto in un certo modo come se, e qui sta la questione
centrale, non fossi io a produrre l’ente ma l’ente mi chiamasse e mi facesse
muovere in un certo modo. Dico la questione centrale perché tutto il pensiero
attuale volge nella direzione di supporre in Heidegger una sorta di eliminatore
della metafisica, invece non è proprio così, lui si trova a ipostatizzare
questo ente, il quale dice, non è prodotto dall’uomo perché se lo fosse allora
la verità sarebbe soggettiva, essendo soggettiva non varrebbe nulla ed è questo
che lo costringe a pensare a una verità e cioè ad una verità come svelamento
dell’ente e della sua essenza per ciascuno come la verità o meglio la sua
essenza…
- Intervento:…
L’ente è ciò che si dà, ciò che si pone… Sì, sono tutti enti, lui si
chiede “qual è l’essenza?” e cioè l’essenza di tutti questi enti non è altro
che la totalità dell’ente e l’essere dell’ente…
- Intervento: l’è è quello che conferisce
l’esistenza di questo ente, cioè quello che viene dimenticato, quello che viene
nascosto
Sì in parte anche se Heidegger non è che attribuisca l’essere alla
copula, all’‘è’. Sì questo però è un altro discorso che in Heidegger non si
pone, non arriva a porsi la questione in questi termini, lui insiste molto
sulla questione della libertà, cioè dice occorre essere liberi per lasciare
aperto questo interrogare. Ma liberi da che cosa? Liberi dalla necessità di
occultarlo e gli umani farebbero questa operazione perché sono preoccupati
dalle pratiche quotidiane…
- Intervento:…
Sì l’ente è l’effetto di una logica, ma l’ente è ciò con cui ciascuno
si trova ad avere a che fare quotidianamente, in tutte le cose che incontra,
questi sono gli enti, che distingue dall’essere che dovrebbe essere l’essenza
di ciascun ente. Così come diceva prima della verità, varie cose sono vere, ma
cosa dobbiamo dire quando diciamo vero? Cosa intendiamo esattamente con vero? Per
potere dire che questa affermazione è vera, che questa cosa è vera occorre che
ci chiediamo qualcosa sull’essenza di questo vero, e così allo stesso modo
rispetto all’ente, gli enti sono le cose che incontriamo, ma qual è la loro
essenza? È possibile pensare l’essenza degli enti, cioè il loro essere, in
definitiva, un essere quindi che trascenda ciascun ente?
- Intervento:...
Certo, tant’è che lui dice la libertà ora si scopre come lasciar essere
l’ente, lasciarlo essere. Perché dice contraddittoria?
- Intervento: perché propone un qualcosa per
cui la cosa si dovrebbe svelare però poi si copre…
Sì e lui come la risolve? Dicendo che è l’ente che si svela da sé, e
l’uomo non è l’artefice di questa operazione, lui è soltanto colui che si
lascia aperto a questo svelarsi dell’ente e mi rendo conto che la cosa possa
essere nebulosa, però tant’è che questo è quello che dice.
- Intervento: potrebbe anche
essere un discorso prammatico…
No, lui non si occupa molto dell’utilità in
questo senso, anzi dice che gli umani, proprio perché presi dalle incombenze
dell’utilità quotidiana non si occupano affatto di questo ente che si svela ma
svelandosi cosa fa? Al tempo stesso si vela. Qui sta la trovata di Heidegger.
Vediamo se troviamo il passo:
L’ente nella sua totalità si scopre come physis
”natura”, che qui non significa ancora un ambito particolare dell’ente, ma
l’ente come tale nella sua totalità, e precisamente nel senso di un venire alla
presenza che si schiude. Solo dove l’ente stesso è elevato e custodito espressamente
nella sua svelatezza, e solo dove questa custodia è intesa a partire dalla
domanda sull’ente in quanto tale, nasce la storia. L’iniziale svelamento
dell’ente nella sua totalità, la domanda sull’ente come tale e l’inizio della
storia occidentale sono la stessa cosa…ecc. ecc. però non è questo che volevo leggervi.
Ecco: La libertà così intesa, in quanto lasciar essere l’ente, attua e
realizza l’essenza della verità nel senso dello svelamento dell’ente. La
“verità” non è un connotato della proposizione conforme che viene enunciata da
un “soggetto” umano a proposito di un “oggetto” e che poi “vale” non si sa in
quale ambito, ma è lo svelamento dell’ente, grazie a cui un’apertura dispiega
la sua essenza.
“Apertura” siamo sempre alla questione dell’interrogazione cioè è
l’ente che in qualche modo schiudendosi interroga e la libertà è lasciare che
questo ente interroghi in definitiva, e poi tutto ciò che dopo Heidegger è
stato inteso come problematicizzazione cioè il volgere in problema:
Nell’aperto è esposto ogni umano comportarsi e il
rispettivo atteggiamento. Per questo l’uomo è nella modalità dell’esistenza.
/…/ La
libertà, come lasciarsi coinvolgere nello svelamento dell’ente nella sua
totalità in quanto tale, ha già disposto ogni comportarsi in uno stato d’animo
in relazione all’ente nella sua totalità…/…/ Il lasciar essere, proprio
mentre nel singolo comportarsi lascia essere l’ente in rapporto a cui si
comporta, e così lo svela, proprio allora vela l’ente nella sua totalità. Il
lasciar essere è in sé contemporaneamente un velare. Nell’esistente libertà
dell’esserci avviene il velamento dell’ente nella sua totalità, è la velatezza.
La velatezza impedisce lo svelamento dell’alètheia e non lo lascia essere
ancora come steresis (privazione), ma custodisce ciò che ad essa è più proprio
come proprietà. Pensata dal punto di vista della verità come svelatezza, la
velatezza è allora la non svelatezza e quindi la non verità autentica e più
appropriata all’essenza della verità. La velatezza dell’ente nella sua totalità
non si pone mai solo a posteriori come conseguenza della conoscenza sempre
parziale dell’ente. La velatezza dell’ente nella sua totalità, l’autentica non
verità, è più antica di ogni evidenza di questo o quell’ente. Essa è più antica
anche dello stesso lasciar essere, che, mentre svela, già tiene velato e in
rapporto al velamento si comporta. Che cosa costudisce il lasciar essere in
questo suo riferimento al velamento? Niente di meno che il velamento di ciò che
è velato nella sua totalità, dell’ente in quanto tale, vale a dire: il mistero.
Non si tratta di un particolare mistero relativo a questa o a quella cosa, ma
dell’unico fatto che in generale il mistero (il velamento del velato) pervade e
domina come tale l’esserci dell’uomo.
Ecco qui siamo alla questione centrale di questo brevissimo ma denso
saggio di Heidegger, dunque questo svelamento questo darsi, per così dire,
dell’ente non è mai totale, è sempre parziale e cioè l’ente non si dà mai tutto
e questo comporta che mentre si svela al tempo stesso si vela l’ente nella sua
totalità, cioè si svela parzialmente, si dà, ma l’ente nella sua totalità non è
accessibile agli umani e questo lui lo chiama il mistero. Ora voi vi rendete
conto immediatamente della portata metafisica di tutto questo, dal momento che
lui è costretto a presupporre 1) che l’ente esista di per sé 2) che questo ente
si dia e che il suo darsi sia la verità 3) che per potere accedere a questo
ente occorra essere liberi e cioè lasciarsi coinvolgere dall’ente. Come sa
tutte queste cose e perché soprattutto ipostatizza un ente che, come abbiamo
vista prima, lui fa precedere in qualche modo anche se non cronologicamente, ma
diciamo logicamente l’uomo, perché? Il motivo l’abbiamo detto prima, perché se
fosse l’uomo a precedere l’ente allora l’uomo sarebbe la misura, diceva
Protagora, di ogni cosa e quindi la verità perderebbe al sua essenza. Qualcosa
lo spinge a pensare a un ente che non è soggetto ai capricci dell’uomo ma
esiste così, di per sé, e questa è esattamente la posizione della metafisica.
Perché è costretto a questa sorta di ritorno alla metafisica? Perché o si pone
in una sorta di… chiamiamolo “relativismo” alla Protagora, oppure si astiene
dal formulare una soluzione come hanno fatto molti oppure ancora è costretto a
ipostatizzare un elemento che debba rimanere identico a sé necessariamente, e
cioè l’essenza dell’ente, ma il fatto che sia costretto a questa operazione è
abbastanza curioso e fa riflettere sulla necessità del pensare religioso.
Possiamo pensare o considerare queste proposizioni di Heidegger come qualcosa
di molto religioso, in quanto questa sorta di ipostatizzazione dell’ente non ci
risulta né necessaria né provabile, né tutto sommato di grande interesse,
questo ente che si dà, e perché dovrebbe proprio essere così? La questione non
è semplice ovviamente e lui cerca di risolverla così, ma c’è un altro modo per
risolvere la questione, perché ciò che sfugge ad Heidegger è che questo ente
anziché ipostasi è in prima istanza un significante, una parola e questa
semplicissima e banale considerazione ha invece, portata alle sue estreme
conseguenze, degli effetti devastanti anche sul testo di Heidegger, perché se
diciamo che è un significante facciamo un’affermazione che dice che questo ente
è un elemento linguistico che come tale non ha un senso ma lo attende, da chi?
Da chi lo pronuncia. Mentre per Heidegger sembra averlo di per sé, da sé e da
sempre, affermazione assolutamente arbitraria. Ma porlo come significante
l’ente, così come anche la verità ovviamente, come significante, come elemento
linguistico, ha effetti devastanti su tutto il pensiero occidentale perché non
necessità più di un elemento fuori dalla parola che lo garantisca e soprattutto
non richiede più il pensare che l’elemento sia da sé garante della propria realtà,
della propria verità, della propria essenza.
Là dove la velatezza dell’ente nella sua totalità viene ammessa solo
come un limite che talvolta si annuncia, il velamento, come evento
fondamentale, è già affondato nell’oblio.
Cioè dove si ammette come limite, come principio, che esista la
velatezza allora questo velamento è affondato nell’oblio, come dire, in altri
termini, che se io dicessi che nulla è fuori dalla parola e ponessi questo come
una sorta di dogma, di principio universale, allora questa proposizione
cesserebbe di interrogare e cadrebbe nell’oblio, si perderebbe. E di questo
dobbiamo dare atto ad Heidegger, in quanto effettivamente accade in questi
termini. Dicevo prima che non è sempre interessante, in alcuni casi sì, e
questo è un caso cioè quando dice che ciascun elemento occorre che rimanga
aperto, potremmo dire che continui ad interrogare, se si dà per acquisito che
ciascun elemento interroga e lo si pone come principio, come regola allora
cessa di interrogare, cade nell’oblio.
Eppure il mistero obliato dall’esserci non è eliminato dall’oblio, al
contrario l’oblio conferisce all’apparente scomparsa di ciò che è stato obliato
una propria presenza.
Con ciò, dice Heidegger, non è che nonostante tutto questo sia
cancellato di fatto, lo sia proprio effettivamente, ma è proprio in questa
cancellazione, che qua e là si mostra la sua problematicità, come dire che
l’operazione di cancellare le cose nonostante tutto è problematica, cioè il
pensare di togliere il problema a qualunque cosa è, dice Heidegger,
un’operazione problematica e cioè che ciò che vuole togliere lo reinstaura:
Non concedendosi nell’oblio e per l’oblio, il mistero lascia stare
l’uomo storico nell’ambito del praticabile e dei suoi artefatti. Così lasciata
stare, un’umanità riempie il proprio “mondo” in base ai bisogni e agli intenti
via via più attuali e lo satura dei suoi progetti e dei suoi piani. Da questi,
l’uomo, dimentico dell’ente nella sua totalità, desume poi la propria misura.
Insistendo su di essi, si procura sempre nuove misure, senza ancora riflettere
sul fondamento da cui le desume e sull’essenza che le fornisce. Nonostante il
progresso verso nuove misure e nuovi scopi, l’uomo si inganna sull’autenticità
dell’essenza delle sue misure. Sbaglia misura, quanto più esclusivamente assume
sé stesso in quanto soggetto come misura di tutti gli enti. Lo smisurato oblio
dell’umanità insiste nell’assicurare se stessa con quel praticabile che di
volta in volta le è accessibile. Questo insistere ha il suo sostegno, che gli è
inconoscibile, nel rapporto con l’esserci è non solo in quanto esiste, ma in
quanto nello stesso tempo insiste, ossia caparbiamente persiste in ciò che
l’ente, quasi da sé e in sé aperto, gli offre. Esistendo, l’essere è
insistente. Anche nell’esistenza insistente il mistero domina e si impone, ma
come essenza obliata, e quindi divenuta “inessenziale”, della verità.
Ora come dire in altri termini ancora, che pur occupandosi di ciò che è
praticabile rispetto a questo svelamento dell’ente (ciò che Heidegger chiama
gli artefatti) di cui essenzialmente gli umani si occupano, ebbene facendo
questo l’uomo si inganna perché è come se prendesse sé a misura, come diceva
Protagora, di tutte le cose, ma si inganna perché? Perché non sa da dove viene
questa misura, che lui invece ritiene fondata e che non sa fondare. Ora quando
si parla di inganno o di sbaglio occorrerebbe andare sempre molto cauti,
straordinariamente cauti, almeno in questo tipo di argomentare, dal momento che
ciascuno di voi potrebbe obiettargli, sbaglia rispetto a che? A quale
metacriterio? A quello di Heidegger? Perché quello di Heidegger è fondato o è
fondabile? No. E allora come fa a dire che sbaglia? Come dicevo, in questi
casi, cioè quando si ragiona in questi termini è sempre molto arduo affermare la
presenza dell’errore, perché immediatamente ci si espone alla richiesta del
criterio per stabilire quell’errore, e potrebbe non essere facilissimo
reperirlo. Comunque sia, l’esserci, dice lui, insiste, l’esserci dell’ente,
l’essere progettati, come dice in Essere e Tempo insiste, insiste nonostante
tutto ed è questo che consente a chi ascolta, chi si dispone all’ascolto
dell’ente di fare quel passo che a lui pare essenziale per giungere all’essenza
della verità e l’essenza della verità non è altro che ascoltare l’ente che si
svela e constatare come l’ente che si svela, svelandosi si vela, in quanto si
svela parzialmente e mai tutto. Questa molto rapidamente è la questione
centrale in Heidegger. Leggiamo ancora questo:
Lo svelamento dell’ente come tale è in sé ad un
tempo il velamento dell’ente nella sua totalità. Nella contemporaneità dello
svelamento e del velamento domina l’erranza. Il velamento del velato e
l’erranza appartengono all’essenza iniziale della verità. La libertà concepita
a partire dall’insistente esistenza dell’esserci, è l’essenza della verità (nel
senso della conformità del rappresentare), e ciò solo per il fatto che la
libertà stessa nasce dall’essenza iniziale della verità, dal dominare del
mistero nell’erranza.
Come dire che la verità nascendo dal mistero è qualcosa che si incontra
di fatto nell’erranza, ma questa erranza non è altro che l’accorgersi che lo
svelamento produce un velamento e che la verità si mostra soltanto
nascondendosi. Questo è il messaggio di Heidegger, la fa lunga per dire questo,
che la verità si mostra nel suo nascondersi.
- Intervento:…
Lui in effetti non definisce la verità dicendo: è questo, dice come si
mostra, qualche cosa che lui in definitiva ipostatizza con verità, certo non
accoglie la vulgata circa la verità, la definizione latina di veritas, come
adæquatio rei et intellectus, adeguamento dell’intelletto alla cosa, che sì,
evoca sicuramente come dice lui delle eco religiose, perché in effetti il
pensiero garantisce della cosa, ma questo pensiero chi lo garantisce? Dio,
originariamente, poi la natura che ne è il presupposto, e quindi, dice, come
criterio non è così affidabile, ma dire che l’ente si svela e nel suo svelarsi
si nasconde e in questo consiste la verità, non è tanto che la cosa sia
confutabile, è negabile, e come si nega? Dicendo che non è così e non è così
perché l’ente non è ciò che lui pensa che sia, per esempio. Che cos’è?
Qualunque altra cosa non ha importanza, in effetti con questo che potremmo
anche chiamare escamotage, lui si mette le spalle al coperto, parlando del
mistero, come dire che al di là di questo non possiamo andare, è inutile che ci
interroghiamo perché al momento in cui ci si dà si vela e quindi non si
manifesta mai completamente, che poi non è molto lontana questa posizione da ciò
che dicevano alcuni padri della chiesa di dio, che si mostra attraverso la
natura, attraverso il cielo, gli alberi, gli animali ecc. ma nella sua
interezza non si mostrerà mai. Possiamo averne delle visioni solo molto
parziali. E su questo ci sono anche molti luoghi comuni, pensate già a Sofocle:
L’Edipo Re e l’accecamento della verità, la verità acceca, anche quello è un
messaggio che può essere preso al pari di quello di Heidegger: la verità al
momento in cui si mostra acceca e perciò non si lascia vedere. Ma sembra che
tutto questo sia ancora vincolato a qualcosa di religioso, se non di mistico,
tutta questa storia del mistero, anche l’esistenza di questo mistero è tutto
sommato ipostatizzata da Heidegger, perché occorre concordare sul fatto che la
verità nel suo manifestarsi si veli, se non concordiamo su questo non
concordiamo neanche sul mistero e perché non concordiamo su questo? In parte
abbiamo risposto dicendo che la verità è in prima istanza e ineluttabilmente un
significante, e allora se con verità intendo ciò che intende Heidegger allora
effettivamente la verità è inaccessibile, se la intendo come veritas, come
adæquatio rei et intellectus, allora è conoscibile. Voi immediatamente vi
rendete conto che non è possibile stabilire se una delle due è vera e l’altra
falsa, perché ci occorrerebbe una terza nozione di verità a cui appellarci, e
quale? E se poi ci fosse la terza, una quarta e così via. Questo modo di
procedere che i filosofi aborriscono e che ci viene tramandato dai sofisti è un
modo di procedere che non ammette né accoglie nessuna affermazione che sia
negabile, se non come una affermazione negabile, e cioè che in definitiva non
affermo niente in quanto potrei affermare altrettanto legittimamente il
contrario, cioè Heidegger potrebbe sostenere che la verità è uno svelamento e
basta, oppure un totale nascondimento, sarebbe meno vera questa seconda
affermazione? Non lo potremmo sapere, ma allora cosa farcene a questo punto
della nozione di verità? Parrebbe che non ci sia più alcun modo di utilizzarla,
però se proprio vogliamo possiamo anche utilizzarla, se ci mettiamo con impegno
la utilizziamo attenendoci proprio a ciò che la verità non può non essere. Che
cosa non può non essere? Ciò che io non posso negare in alcun modo. Non che
posso confutare, o affermare, ma che non posso negare, ed è questo ciò che
andiamo dicendo, in effetti è la soluzione che abbiamo fornita al problema
filosofico più massiccio, vale a dire che ciò che non posso negare muove da ciò
che mi consente di fare questa affermazione. Ad Heidegger, che pure è molto
attento per altri aspetti e in altri luoghi alla questione del linguaggio,
sfugge che di fatto, lui, di queste cose ne sta parlando, e che se può fare le
considerazioni che va facendo è perché esiste una struttura che glielo
consente, e senza la quale nessuna di queste sue riflessioni si sarebbe potuta
fare. Ciò che lui va cercando in questo saggio è qualcosa che è fuori dal
linguaggio, cioè trascende l’uomo per i motivi che abbiamo detti prima, cioè
per trovare una verità che non sia soggetta agli umori degli umani. Ma in
effetti poteva trovarla facilmente considerando che ciò che non è soggetto agli
umori degli umani è ciò che l’umore degli umani lo produce, e cioè il
linguaggio con tutte le sue prerogative, le sue regole, le sue procedure. E che
quindi, ciò che non può negarsi è che tutto ciò avviene nel linguaggio. Ora che
cosa non può non essere? Questo, che tutto ciò che si va facendo non esiste né
potrebbe darsi in alcun modo fuori dal linguaggio, se allora intendiamo con
verità ciò che non può non essere allora questo è ciò che non può non essere,
necessariamente. E allora se proprio volete una definizione di verità, se vi
scappa di volerne una a tutti i costi: nulla è fuori dalla parola. C’è qualche
altra cosa che al pari di questa non può non essere? No. È l’unica formulazione
che non è negabile, la questione è che non è negabile per una procedura
linguistica non per questioni filosofiche o ontologiche o metafisiche, ma per
una questione direi addirittura grammaticale, ma tant’è, il linguaggio funziona
così e non è possibile uscirne come abbiamo rilevato in moltissime occasioni e
allora ciò che non può non essere è esattamente questo, perché? Qualunque altra
cosa può non essere? Certo, basta che lo affermi, mentre non posso affermare
che qualcosa è fuori dalla parola, salvo trovarmi in una irrimediabile
contraddizione, perché per poterlo affermare, descrivere, dire, individuare,
isolare devo usare la parola, quindi posso dirlo, ma cosa dico? Nulla, dicendo
che qualcosa è fuori dalla parola di fatto dico che nulla è fuori dalla parola,
perché non dico nulla.
La questione dell’essenza della verità scaturisce dalla questione della
verità dell’essenza. La prima questione intende l’essenza anzitutto nel senso
della quiddità o della cosalità, quindi la verità come carattere della
conoscenza.
E sì, non ha torto, cercare l’essenza della verità è cercare il quid
che renderebbe conto della verità, la sua cosalità…
La questione della verità dell’essenza pensa l’essenza in senso verbale
e, restando ancora all’interno della rappresentazione tipica della metafisica,
pensa con questa parola l’essere come differenza che domina tra essere e ente.
Verità significa quel velarsi diradante che è il tratto fondamentale
dell'essere.
Lui non ha torto a dire che la metafisica si pone in questi termini,
esattamente come dice lui, cioè pensa con questa parola l’essere come
differenza che domina fra essere ed ente, perché la verità o meglio l’essenza
della verità sarebbe l’essere dell’ente, l’essere della cosa:
La questione dell’essenza della verità trova la sua risposta
nell’affermazione che l’essenza della verità è la verità dell’essenza.
Heidegger, come avete inteso, muove non dall’essenza della verità cioè
dalla sua quiddità ma dalla verità dell’essenza cioè fa il percorso inverso
apparentemente a quello della metafisica che cerca un quid della verità, per
potere dire che cos’è. Lui parte da ciò che si mostra, per stabilire la verità
appunto come il disvelarsi - velarsi di ciò che si mostra:
Dopo i chiarimenti dati (riprende: la questione dell’essenza della verità
trova la sua risposta nell’affermazione che l’essenza della verità è la verità
dell’essenza), si vede facilmente che questa affermazione non vuole essere
un semplice capovolgimento di parole e suscitare l’apparenza del paradosso. Il
soggetto della proposizione, nel caso sia ancora lecito fare uso di questa
fatale categoria grammaticale, è la verità dell’essenza. Il velarsi diradante
è, anzi, lascia essere la concordanza tra la conoscenza e l’ente. La
proposizione non è dialettica. E non è affatto una proposizione nel senso di
un’asserzione. La risposta alla questione dell’essenza della verità è il dire
di una svolta entro la storia dell’essere. Poiché all’essere appartiene un
velarsi diradante, esso appare inizialmente alla luce di un sottrarsi che vela.
Il nome di questa radura è alètheia. Già nel progetto originario la conferenza
“Dell’essenza della verità” avrebbe dovuto essere completata da una seconda
“Della verità dell’essenza”. Questa fallì per i motivi ora esposti nella
Lettera sull’umanesimo. La questione decisiva del senso dell’essere, vale a
dire dell’ambito del progetto, cioè dell’apertura, cioè della verità
dell’essere e non soltanto dell’ente, intenzionalmente non è stata svolta. Il
pensiero si tiene apparentemente nell’orbita della metafisica, e tuttavia, nei
suoi passi decisivi che dalla verità come conformità conducono alla libertà
esistente, e da questa alla verità come velamento ed erranza, esso mette in
atto un cambiamento del domandare che fa parte dell’oltrepassamento della
metafisica. Il pensiero tentato in questa conferenza si compie in
quell’esperienza essenziale in cui si constata che solo a partire dall’esserci,
in cui l’uomo può entrare, si prepara per l’uomo storico una vicinanza alla
verità dell’essere. Qui, come già in Sein und Zeit, non soltanto è abbandonata
ogni specie di antropologia e ogni forma di soggettività dell’uomo in quanto
soggetto, e non soltanto è cercata la verità dell’essere come fondamento di una
diversa posizione storica, ma nel corso della conferenza ci si accinge a
pensare muovendo da questo diverso fondamento (dell’esserci). La progressione
del domandare è in sé il cammino di un pensiero che, invece di fornire
rappresentazioni e concetti, si esperisce e si mette alla prova come
cambiamento del riferimento all’essere.
Ecco, qui secondo lui c’è la distanza abissale tra la sua posizione e
la metafisica, in questa sorta di capovolgimento, non più dunque l’essenza e la
quiddità della verità, ma la verità dell’essenza che si mostra appunto nel suo
svelarsi e velarsi, e secondo lui l’unico modo per procedere in una via che
abbia qualche interesse è cambiare questa posizione e cioè non muovere più
dalla ricerca dell’essenza della verità ma gettarsi, per così dire,
nell’apertura che l’ente offre e dal quale solo è possibile trarre la verità.
Che dire di tutto ciò? La prima cosa che possiamo dire è che è quello che pensa
Heidegger, possiamo concordare con lui rispetto alle obiezioni che rivolge alla
metafisica, ma poi non pare fare un passo così distante dalla metafisica, dal
momento che questa verità dell’essenza ipostatizza comunque un ente che
necessariamente si debba svelare e nel modo in cui lui decide,
questa ipostatizzazione, cioè l’ipostatizzazione di un elemento fuori dal
linguaggio, è ciò che io chiamo metafisica. “Metafisica” in effetti è una
parola abusata e inflazionata, per alcuni aspetti la metafisica è tutt’altro
che una stupidaggine, è una ricerca estrema per cercare di fondare ciò che in
nessun modo è fondabile, ma in questa ricerca estrema reperisce tutte le forme
di argomentazione a favore e contro qualunque tipo di asserzione. Direi che
almeno in parte quanto di meglio è stato pensato dall’uomo, almeno nell’ambito
del pensare filosofico ma non soltanto, è proceduto dal pensare metafisico,
proprio per questo sforzo immane di dimostrare l’indimostrabile, e tutto
sommato Heidegger se la cava facilmente, c’è il mistero, ma non mi sembra vada
modo lontano.
- Intervento: C’è il mistero, però
quell’esserci c’è ed è un elemento non linguistico, qualcosa fuori dalla parola
L’esserci lui lo pone nel linguaggio, è l’ente più ancora, l’essenza
dell’ente quella no, non può più essere nel linguaggio perché se fosse nel
linguaggio allora sarebbero quegli intoppi di cui si diceva prima, cioè sarebbe
condotto all’inevitabile considerazione e conseguenza che la verità è un
effetto della parola e quindi dell’uomo e pertanto la verità è relativa e
soggetta quanto meno all’umano e questo è esattamente ciò che lui vuole
evitare, per potere fondare una verità che non sia invece affidabile alle umane
sorti…
- Intervento: In pratica un
fondamento di cui si può solo parlare ma non si può toccare
Vi sarete resi conto che le argomentazioni in alcuni punti sono molto
delicate, molto tenui, tutt’altro che solide, sono quasi sfumate ché
effettivamente non ha, né può avere i termini per precisarle perché dovrebbe
porsi, esattamente come lui dice dovrebbe fare la filosofia, delle domanda a
cui non potrebbe rispondere e cioè: perché affermo una cosa del genere? Da dove
gli viene questa idea? Dal momento che Heidegger pare non affermare tutto
questo come un suo ghiribizzo, un suo arbitrio o una sua pensata notturna dopo
una notte di sbronza, ma bensì qualcosa di fortemente autentico e vero
nell’accezione che lui ha indicato, è proprio per questo che si è legittimati a
porgli delle obiezioni, contrariamente a quanto si fa con un poeta per esempio,
a nessuno passerebbe per la mente di fronte a una poesia del Leopardi di
muovere questo tipo di obiezioni, perché fa un gioco differente, che ha regole
diverse, che non prevedono che la poesia del Leopardi sia sottoposta a
un’interrogazione logica o linguistica così serrata, perché non fa affermazioni
e se le fa, le fa all’interno di un gioco retorico. Facevamo l’esempio un po’
di tempo fa di una figura retorica che afferma che Don Abbondio non ha un cuor
di leone, dove non avrebbe senso, perché non è previsto dal gioco che si fa,
che qualcuno obietti che Don Abbondio in nessun modo poteva avere il cuore di
leone, perché apparteneva ad una specie differente e il cuore che aveva dentro
il petto non poteva essere quello di un animale, un’obiezione del genere non
avrebbe nessun senso. Come muovere un’obiezione di fronte ad una barzelletta
per esempio, il tal dei tali fa questo e quest’altro. Dice no, il tal dei tali
non può fare questo e quest’altro perché se facesse questo allora… ma allora
non potrebbe più raccontare la barzelletta, cioè non fa più quel gioco, ne fa
un altro, ma siccome Heidegger pretende di fare un certo gioco, che è quello
della filosofia, della logica e quindi del rigore teorico allora siamo
legittimati a porgli queste obiezioni e come vedete obiezioni legittime, alle
quali non si trova risposta nel testo di Heidegger, qui, ma neanche altrove.
Heidegger è bravo a cogliere tutti gli aspetti per cui della verità non si può
dire, questo sulla scia dei greci, lui era molto attento, aveva molto studiato
i greci, e riprende questo etimo non latino ma greco di alètheia, cioè di non
nascondimento, però dire che la verità è un non nascondimento, di per sé in
quanto tale non significa niente, assolutamente niente…
- Intervento: La diversa autorità di un testo
come quello di Heidegger, come si impone cosa produce,
Dovrebbe produrre l’assenso
- Intervento: Ma non meno di
quello di un Leopardi
In questo caso non si pone la questione dell’assenso.
- Intervento:…
La questione è che la filosofia vorrebbe stabilirsi come autorità sulla
domanda essenziale e quindi come risposta alla domanda essenziale e cioè che
“cos’è l’essere?” Questo è per molti filosofi lo scopo della filosofia,
rispondere a questa domanda, la domanda intorno all’essere.
- Intervento: pensavo comunque anche
all’autorità del poeta nel senso che anche il poeta impone, cioè fa passare
delle verità, fa credere. Per esempio quando Freud parlando di Sofocle e
dell’Edipo ci dice della verità, o meglio del sapere che si accoglie,
accogliendo quella poesia.
Ecco però in quel caso Freud utilizza la nozione di verità
nell’accezione di cui parlava Heidegger, veritas come adæquatio rei et
intellectus, cioè dice la verità nel senso che spiega come stanno le cose. Ecco
se voi avete voglia di andare a leggere Heidegger ci sono in questa raccolta
che si chiama Segnavia molti saggi interessanti…
- Intervento:…
Forse non è tanto l’intenzione di chi scrive quanto ciò che si produce,
e il testo di filosofia con ciò che produce è una serie di risposte o tentativi
di risposte a delle domande e quindi muovendo da alcune domande dà per
acquisiti alcuni elementi che possono essere messi in discussione. Il poeta
qualunque sia la sua intenzione muove da un domandare differente, che non
chiede né presume che il lettore chieda, l’assenso, ma potremmo dirla così,
molto rapidamente, poi preciseremo, racconta delle sensazioni, delle emozioni
che rispetto al discorso occidentale sono per definizione fuori dal gioco
prettamente logico o filosofico, non chiedono l’assenso, quando dice: “e il
naufragar mi è dolce in questo mare” non si aspetta che si dica sì è vero
oppure no è falso. Non è questo che si attende, ma la produzione di una
sensazione, e cioè sono figure retoriche che in buona parte rientrano nella
famosa ipotiposi, quella figura retorica che letteralmente è uno schizzo, un
tratteggio, un quadro che rappresenta ciò che dice, fa vedere ciò che dice.
Bene questa sera ci fermiamo qui, buona notte a tutti e grazie.