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30 giugno 2021

 

Lezioni sulla storia della filosofia di G.W.F. Hegel

 

Volevo innanzitutto leggervi alcune cose intorno a Eraclito che scrive Nietzsche nel suo testo I filosofi preplatonici. Tale uomo (Eraclito), solitario ed estatico, lo si deve immaginare trasferito in un luogo sacro e sperduto. Egli risultava inaccessibile agli altri uomini e tutt’al più poteva comunicare coi fanciulli. Egli non aveva bisogno degli uomini, neanche per la sua conoscenza, perché tutto ciò che si può apprendere dall’esterno lo disprezzava come historiæ, in contrapposizione alla sophia, che proviene dall’interno. Ogni apprendimento dagli altri per lui rappresentava il segno della non sapienza, perché il sapiente terrebbe sempre il proprio sguardo fisso all’unico lògos, che è il tutto. Egli considerava il suo modo di filosofare un cercare e un interrogare se stesso, così come si interroga un oracolo. Non a caso Diogene Laerzio osserva che egli dichiarava di investigare se stesso e di apprendere tutto da se stesso. Ciò ribadiva Plutarco: “ho indagato me stesso”. Il che rappresentava l’interpretazione più orgogliosa del detto delfico e tra le parole di Delfi il più divino sembrava il detto “conosci te stesso”. Il secondo brano dice così: L’eterno divenire in un primo momento ha qualcosa di spaventoso e di inquietante, da paragonare in modo più appropriato alla sensazione con la quale qualcuno in mezzo al mare o in un terremoto vede tutto mosso. Ci volle una forza notevole per trasformare questo effetto in quello del grandioso e dello stupore gioioso. Se tutto è in divenire, allora nessun predicato può essere attribuito a una cosa, ma deve essere altresì nel flusso del divenire. Eraclito osservava che i predicati contrapposti si pongono reciprocamente, così come Platone asseriva nel Fedone in relazione al piacevole e allo spiacevole; essi sarebbero intrecciati come in un nodo. In ogni uomo, per esempio, la forza della morte e della vita agisce in ogni istante della sua esistenza; l’accadere di vita e di morte, di vegliare e dormire, è solo il sopravvento, divenuto visibile, che una forza ha avuto sul suo opposto e che comincia subito a perdere rispetto ad esso. Sono sempre due le forze attive in ogni momento, poiché la loro eterna contesa alla lunga non permette né vittoria né sconfitta. Questo dunque scrive Nietzsche, che sottolinea una questione sulla quale stiamo lavorando e sulla quale Zenone ha posto l’accento. In fondo, Zenone, nella sua famosa aporia di Achille e la tartaruga, ci ha detto che ciò che vediamo, e di cui siamo certi proprio perché lo vediamo, di fatto non lo possiamo concettualizzare, cioè non lo conosciamo, lo vediamo ma non lo conosciamo. Questo è il senso più preciso del pensiero di Zenone. Io vedo che Achille sorpassa la tartaruga, lo vedo ma non lo posso concettualizzare, non lo posso dimostrare razionalmente, perché razionalmente devo considerare che questo spazio è divisibile e, se è divisibile, è divisibile all’infinito e, quindi, non la raggiunge. Quindi, ciò che vedo e che mi dà la certezza, in realtà, è proprio ciò che manca alla certezza, è ciò che non conosco: ciò che vedo non lo conosco. Per dirla ancora in un altro modo: vedo ma non so che cos’è ciò che vedo. E, allora, a questo punto interviene Eraclito. Qui è Hegel che parla. Se lasciamo da parte gli Ioni, che non concepirono ancora l’assoluto il pensiero, e così pure i pitagorici, abbiamo il puro essere degli eleati e la loro dialettica che distrugge tutti i rapporti finiti. Perché distrugge tutti i rapporti finiti? Perché mostra che c’è l’infinito. Per loro il pensiero è il processo di tali fenomeni: il mondo è in se stesso parvenza e soltanto il puro essere è vero. Pertanto, la dialettica di Zenone si aggrappa a determinazioni che si trovano nl contenuto medesimo; tuttavia, essa può anche chiamarsi dialettica soggettiva in quanto si compie nel soggetto considerante e in quanto l’Uno senza questo movimento della dialettica non è altro che identità astratta. Ma ora Eraclito concepisce l’assoluto medesimo come siffatto processo dialettico, sicché la dialettica è triplice: dialettica esteriore, che si limita a ragionare in un senso o nell’altro, senza sciogliere l’anima delle cose; dialettica immanente dell’oggetto, che però cade nella considerazione del soggetto; l’oggettività di Eraclito che concepisce come principio la dialettica medesima. Naturalmente, attribuisce ad Eraclito qualcosa che è in realtà più suo che di Eraclito. Il progresso necessario compiuto da Eraclito consiste nell’essere egli passato dall’essere, come primo pensiero immediato, alla determinazione del divenire come secondo termine. Abbiamo così il primo concreto, l’assoluto in quanto in esso si realizza l’unità degli opposti. Sembra attribuire ad Eraclito l’Aufhebung, che invece è opera sua. Mentre il ragionare di Parmenide e Zenone era puro intelletto astratto, in Eraclito incontriamo per la prima volta l’idea filosofica nella sua forma speculativa. Perciò, egli fu sempre ritenuto e talvolta denigrato come filosofo profondo. Qui vediamo finalmente terra, non v’è proposizione di Eraclito che non abbia accolta nella mia logica. /…/ Noi ci associamo all’affermazione di Eraclito che l’assoluto è l’unità dell’essere e del non essere. Vedete che qui, in effetti, Eraclito aggiunge questa unità tra l’essere e il non essere, che Zenone manteneva ancora separati pur avendoli individuati. Quando sentiamo enunciare così senz’altro la tesi che l’essere è e anche non è, ci sembra che essa abbia poco senso, si riduca alla negazione universale e riveli mancanza di pensiero; senonché, abbiamo anche un’altra espressione da cui si ricava con maggior precisione il senso del principio. Eraclito, infatti, dice “Tutto scorre, niente permane né resta sempre identico”. Platone dice poi ancora che Eraclito paragona le cose al corso di un fiume, afferma che non possiamo tuffarci due volte nella medesima acqua; infatti, questa scorre e si ha contatto con un’altra. Secondo Aristotele gli eraclitei posteriori dissero anzi che non si poteva tuffarsi neppure una volta, giacché essa si muta immediatamente: ciò che è immediatamente non è più. È una buona descrizione dell’atto di parola. Qui è Aristotele che parla: Dice inoltre Eraclito aver affermato che soltanto l’Uno che rimane e da esso tutto l’altro si riforma, tutto l’altro all’infuori di quest’Uno non è duraturo. Qui non aveva torto Heidegger ad accostare Parmenide ad Eraclito, anche se generalmente vengono considerati opposti, in quanto per uno l’essere è immobile, per l’altro è in divenire, ma Heidegger diceva giustamente che anche per Eraclito, sì, c’è il divenire, ma questo divenire è identico e immobile. La determinazione ulteriore di questo principio in generale è quella del divenire, la verità dell’essere. Dicendo che tutto è e anche non è, Eraclito ha affermato che il tutto è il divenire. Questo include non solo il generarsi ma anche il dissolversi, ed entrambi non sono per sé ma identici. /…/ Ma anche il niente è lo stesso, è questo identico a se stesso. In Eraclito abbiamo un passaggio assoluto nell’opposto, passaggio al quale non pervenne Zenone, che si fermò alla tesi “da niente non diviene niente”. Invece, in Eraclito il momento della negatività è immanente. È conquistato così il concetto dell’intera filosofia. /…/ Aristotele nel De mundo dice che Eraclito unisce insieme tutto e non tutto, concorde e discorde, consono e dissono, e da tutto è Uno e da Uno tutto. Quest’Uno non è l’astratto ma l’attività di dirimersi in opposti. Il morto infinito è misera astrazione rispetto alla profondità che scorgiamo in Eraclito. Il morto infinito, cioè, l’infinito come entificato. L’infinito si può intendere soltanto dialetticamente, e cioè insieme con il finito. L’identità di ogni cosa consiste appunto nell’essere essa l’altro dell’altro in quanto suo altro. Questa è l’identità. Questo il grande principio di Eraclito. Esso può apparire oscuro ma speculativo, e la speculazione è sempre difficile e oscura per l’intelletto che tien fermo all’essere e al non essere, al soggettivo e all’oggettivo, al reale e all’ideale per sé stanti. Cioè: che li tiene separati. Qui c’è in effetti una continua oscillazione tra Eraclito e Hegel, tant’è che lui diceva che era disposto a sottoscrivere tutto quello che dice Eraclito. A suo parere Eraclito ha posto in modo preciso la questione della dialettica, e cioè si era accorto che l’essere e il non essere sono due momenti dello stesso, che non possono separarsi. Cosa che invece aveva ancora fatto Zenone, che li aveva individuati ma non integrati. Il tempo, come primo essere sensibile, è l’intuizione astratta del processo (dialettico). Quindi, il tempo è il primo modo di cogliere la dialettica, in quanto simultaneità, naturalmente. Poiché Eraclito non si arrestò all’espressione logica del divenire, ma volle dare al suo principio la forma dell’esistente, ne deriva che dovesse presentarglisi anzitutto il tempo, che nell’intuibile è appunto la prima forma del divenire. Il tempo è il puro divenire in quanto oggetto di intuizione, il puro concetto, il semplice che nasce armonicamente dalla contrapposizione assoluta. Questo è il tempo per Eraclito, dice Hegel. Questa idea del tempo nasce dalla contrapposizione assoluta. La sua essenza è di essere e di non essere in un’unica unità, e non ha alcun’altra determinazione. È e non è in un’unica unità, perché nell’unità, cioè nell’atto, il tempo è la simultaneità tra il dire e il detto. È chiaro che c’è anche quell’altro aspetto del tempo, come viene definito per lo più, come una successione di stati, ma questa successione di stati è pensabile perché c’è la dialettica, perché è all’interno di un processo. Sta dicendo, cioè, che è la dialettica che rende pensabile ogni cosa. Il tempo e lo spazio sono per Kant i due elementi fondamentali, sono analitici a priori, cioè dati immediatamente, non sono deducibili. Per Eraclito, invece, non è esattamente così, perché l’idea del tempo non è originaria come per Kant ma è simultanea al processo dialettico. Senza processo dialettico, senza questa separazione, senza questa distinzione, senza questa distanza tra il dire e il detto, non c’è nessuna possibilità di intendere alcunché, né del tempo né di nient’altro. Il tempo quindi lo definisce Eraclito come la prima forma di ciò che diviene. La prima forma del divenire è il modo in cui si coglie questa separazione tra il dire e il detto. Una volta che si è colta questa separazione, allora può cominciare tutto; ma finché non è colta questa separazione non incomincia niente, non c’è niente.

Intervento: Non c’è niente perché non si può distinguere nulla dentro al tutto….

Sì. Non c’è l’astratto e, quindi, non c’è l’ente, non c’è la cosa, non c’è niente. È soltanto questa distanza, questa distinzione, questa differenza… Ricordate quello che diceva de Saussure: nel linguaggio non vi sono se non differenze. Anche lui aveva inteso a modo suo: ci sono solo differenze, distanza, dif-ferire, dividere, portare fuori. E questo è il linguaggio, è l’agire del linguaggio, il linguaggio fa questo. Dal momento in cui lo fa allora è possibile pensare qualunque cosa, ma finché non c’è questo non si pensa niente, è impossibile pensare qualunque cosa, perché questa qualunque cosa non c’è, non esiste. Dal suo principio, secondo cui tutto ciò che è nello stesso tempo anche non è, consegue immediatamente la sua affermazione che la certezza sensibile non ha verità. Come diceva anche Zenone: lo vedo ma non so che cos’è. Poiché cotesta è appunto la certezza per la quale sussiste come essere quello che nel fatto è parimenti non essere. Come dire che Eraclito spiega perché Zenone dice quello che dice. Zenone dice quello che dice perché si è accorto della simultaneità di finito e infinito. Certo, li tiene ancora separati. Eraclito direbbe che bastava accorgersi che sono due momenti dello stesso e, allora, non c’è più questa aporia, non c’è più il paradosso, ma c’è per l’appunto dialettica. Non già questo essere immediato, ma la mediazione assoluta, l’essere pensato: il pensiero è il vero essere. Questo intorno a Eraclito. Eraclito come il precursore della dialettica di Hegel. La questione interessante è che accorgendosi di questo si è accorto di tutto, cioè, è stato individuato l’agire del linguaggio. Oltre non c’era altro. È come se i presocratici avessero colto il pensiero e, cogliendo il pensiero, anche il suo limite, ma limite nel senso sia di soglia non oltrepassabile, nel senso che non si va oltre il linguaggio, sia nel senso di impossibilità connessa con il linguaggio. È poi la stessa cosa perché in fondo l’impossibilità del pensiero è naturalmente di uscire dal linguaggio. I presocratici hanno “inventato” il pensiero e mentre lo hanno inventato hanno posto il suo limite, hanno detto fin dove può arrivare. Può arrivare fin dove può pensare, ma per potere pensare occorre che ci sia la dialettica, sennò non si pensa niente. Quindi, hanno già detto tutto, tutto quello che c’era da dire sul linguaggio. Ora considera Leucippo e Democrito, atomisti. L’atomo e il vuoto costituiscono l’assoluto, ciò che è in sé e per sé. Questa è una determinazione importante per quanto insufficiente. Quindi, l’atomo e il vuoto. Il vuoto naturalmente è necessario perché l’atomo si muova. Non soltanto gli atomi, come diciamo noi e che ci raffiguriamo come nuotanti nell’aria, formano il principio, ma è altrettanto necessario è il niente frapposto. Abbiamo dunque qui la prima apparizione del sistema atomistico. Occorre ora esporre in modo più particolareggiato, ecc. /…/ La cosa principale è l’Uno, l’essere per sé. Questa determinazione è un grande principio che non avevamo sinora. Parmenide pone l’essere come universale astratto; Eraclito il processo; la determinazione dell’essere per sé spetta a Leucippo. Parmenide dice che il niente non è affatto; Eraclito ammette soltanto il divenire, come trasformazione dell’essere e del nulla, nella quale tutto è negato, sebbene si ammetta che entrambe stiano semplicemente in sé, il positivo come l’Uno che è per sé, il negativo come vuoto. Ora, in Leucippo questo pensiero viene alla coscienza e diventa determinazione assoluta. Per questo lato il principio atomistico non è morto ma deve sopravvivere per sempre. In ogni filosofia logica l’essere per sé deve apparire sempre come momento essenziale, non però come ultimo. In Leucippo – che sarebbe poi Democrito, perché di Leucippo non sappiamo niente – il per sé è ciò che fa di due elementi l’unità. Questo è il fondamento del pensiero hegeliano: l’in sé e il per sé che formano la coscienza, il pensiero assoluto, formano il tutto, l’Uno. Quindi, l’atomo e il vuoto: ci vuole l’elemento e il suo contrapposto, ma questi due formano l’Uno, l’unità. Questo secondo Hegel era ciò che era mancato anche in Eraclito, pur avendo colto l’integrazione tra i due, però ancora non li ha resi l’Uno. Se dunque anche lo svolgimento storico della filosofia deve corrispondere allo svolgimento della logica filosofica, anche in quest’ultima devono trovarsi dei punti che nello svolgimento storico invece non appaiono. /…/ L’essere per sé, come essere, è semplice relazione con se stesso, però attraverso la negazione del suo alienarsi da sé. Qui Hegel sta parlando di Leucippo. Quando io dico che sono per me, io non soltanto sono ma nego anche in me ogni altro… Se sono io vuol dire che non sono lui, per esempio. Lo escludo da me in quanto appare esterno. L’essere per sé, come negazione dell’essere altro, che è esso stesso negazione di fronte a me, è negazione della negazione e, quindi, affermazione. E questa io la chiamo negatività assoluta, la quale contiene bensì mediazione, ma non mediazione che in pari tempo è superata. Qui ciò che Hegel attribuisce a Leucippo è l’avere colto come l’una cosa, negandosi, attraverso ciò che ha negato, che ritorna sul negante, costituisce l’unità. Il che è raffigurato da questa immagine dell’atomo e del vuoto; questi due elementi non si danno l’uno senza l’altro. L’atomo non può darsi senza il vuoto, e il vuoto lo posso pensare perché ci sono gli atomi, cioè, perché c’è qualcosa che non è vuoto. Il principio dell’Uno è affatto ideale, appartiene completamente al pensiero, anche se si volesse dire che esistono realmente atomi. Qui ci fa capire che il pensiero di Democrito, di Leucippo, non è da considerare come il pensiero di un fisico moderno. Per loro l’atomo era qualcosa che riguardava il pensiero, non era un ente di natura ma un ente di ragione: questa è la differenza fondamentale. Per il fisico oggi l’atomo è un ente di natura e non un ente di ragione. L’atomo può essere concepito come materiale ma è inaccessibile al senso puramente intellettuale. Nei tempi moderni questo atomismo è stato rinnovato particolarmente da Gassendi, ma gli atomi di Leucippo non sono le molecole, le particelle della fisica. È vero che secondo Aristotele, nel De generatione et corruptione, Leucippo credette che gli atomi siano invisibili a causa della piccolezza della loro corporeità. Ciò corrisponderebbe a quanto si dice modernamente intorno alle molecole, ma in Leucippo è soltanto una scappatoia: l’Uno non si può indicare né vedere con le lenti o il bisturi perché è un’astrazione del pensiero. Ciò che si può mostrare è sempre materia che si è raccolta. Altrettanto vano è il tentativo che si fa oggi di scrutare con il microscopio l’interno degli esseri organici, l’anima, e di venirne a capo con la vista e i sensi. Il principio dell’Uno è affatto ideale, non nel senso che esista soltanto nel pensiero, nel cervello, ma nel senso che la vera essenza delle cose è il pensiero. È questa la questione che sta ponendo Hegel, leggendo Leucippo: l’atomo è un ente di ragione. Il fatto che si pensi che esista in natura potrebbe dopo tutto anche essere un’illusione, ma la cosa che interessava loro era cogliere l’opposizione tra l’atomo e il vuoto: questo interessava. Il sistema di Leucippo è tutto l’opposto di quello degli eleati; egli conosce il mondo dell’esperienza come l’unico oggettivamente reale e i corpi come unico modo di essere. Ma l’atomo e il vuoto non sono cose d’esperienza. Leucippo dice che non sono i sensi quelli che ci danno la conoscenza del vero, e così egli pone le basi di un idealismo di tipo superiore, non semplicemente oggettivo. Dice in modo esplicito che non sono i sensi quelli che ci danno la coscienza del vero. Noi potremmo aggiungere: certo, ma che cosa ci dà la certezza del vero? L’argomentazione, quindi, la retorica. Ecco la catastrofe del pensiero, che ancora non era ben viva; ci si stava avvicinando ma ancora non era così palpabile. Certo, i sensi mentono, solo la ragione coglie la verità. Sì, ma la ragione si impianta su che cosa? Sull’argomentazione, e l’argomentazione di che cosa è fatta? Di retorica. È questa, se vogliamo chiamarla così, la catastrofe del pensiero, il quale non può reggersi che sulla retorica. Per questo andremo alla fine sulla retorica, e ci sarà molto da dire. Pertanto l’atomismo in generale si schiera contro la rappresentazione secondo cui il mondo sarebbe stato creato e sarebbe conservato da un essere estraneo. Nell’atomismo l’indagine naturale si sente per la prima volta liberata dall’obbligo di ammettere una ragion d’essere del mondo. Solo atomi che si raggruppano. Perché si raggruppano in un modo anziché in un altro? A tutt’oggi non è che ci sia una risposta molto chiara rispetto a questo. Infatti, quando la natura è rappresentata come creata e conservata da un altro (la religione) essa non viene più rappresentata come un essere in sé, ma è il proprio concetto fuori di lei, cioè il suo fondamento estraneo a lei, non ha quindi proprio fondamento, ma può intendersi solo riferendola alla volontà altrui. Questa è la religione. La rappresentazione li (atomi) tiene bensì separati e dà loro un essere rappresentato sensibilmente, ma essi sono identici; quindi, come pura continuità sono lo stesso del vuoto… Sono i due momenti. Senonché ciò che è concreto, determinato; come mai da siffatti principi si può capire la differenza? Donde deriva il carattere determinante (la pianta, il colore, la forma)? L’essenziale è che, non appena si pongono questi atomi indipendentemente l’uno dall’altro come particelle, l’unione loro diventa un ammasso del tutto esteriore e casuale. Si sente la mancanza di diversità determinata: l’Uno come ciò che è per sé perde ogni carattere determinato. Qui è interessante perché finché i presocratici si attengono al movimento dialettico, al pensiero teoretico, colgono questioni di straordinario interesse. Appena vogliono applicare il concreto all’astratto, lì cadono delle volte anche in banalità, perché a questo punto è come se si volesse tradurre l’astratto nel concreto. Cadono ancora in questo abbaglio. Si coglie il concreto, sembra straordinario, e lo è, ma lo si vuole determinare e determinandolo diventa astratto, diventa un’altra cosa. Democrito dice: per effetto della resistenza dell’uno contro l’altro e di un movimento eccitato e sussultorio, e quivi accumulandosi, formano un vortice in cui urtandosi e incrociandosi in varia guisa si separano per il fatto che gli uguali si uniscono con gli uguali. Anche qui vedete il tentativo di determinare il concreto nell’astratto. È un problema, perché ciò che voglio determinare, cioè il concreto, nel momento in cui lo determino o penso di determinarlo, non è più il concreto, è un astratto, è un’altra cosa. Ogni tanto avvertono questo problema, però la volontà di potenza è più forte di tutto, la volontà di potenza vuole dominare, per dominare deve determinare, per determinare deve trasformare il concreto in astratto, e non può non farlo. Arriviamo così a Empedocle. In effetti, il testo di Hegel è singolare perché è molto fluido, Hegel scorre via, coglie le questioni essenziali tralasciando il resto, per cui risulta agile, veloce. In Empedocle l’unità dei contrari i presenta anzitutto come miscuglio. Questo concetto, espresso per la prima volta da Eraclito, nel suo aspetto di quiete si offre alla rappresentazione come miscuglio, prima che con Anassagora il pensiero abbracci l’universale. Pertanto la sintesi di Empedocle, come compimento del rapporto, spetta ad Eraclito... Tra l’altro non sono neanche disposti in ordine cronologico, come si usa generalmente, li mette come pare a lui, a seconda del pensiero. …la cui idea speculativa si afferma bensì anche nella realtà in genere come processo, ma senza che nella realtà i singoli momenti stiano l’uno di fronte all’altro come concetti. Il concetto che Empedocle ebbe della sintesi rimane in vigore anche ai giorni nostri; egli è inoltre l’autore dell’opinione volgare, tramandatasi sino a noi, secondo cui l’essenza fondamentale è costituita dai quattro noti elementi fisici: fuoco, aria, acqua, terra. I presocratici chiaramente usano dei termini così… per es, ciò che attrae lo chiamano amore, ciò che divide odio, ma sono da intendere; indicavano l’amore come l’unione perché era ciò che vedevano. Tenete conto che per i Greci ciò che si vede è comunque sempre il riferimento, e cioè il fenomeno; è da lì che si parte, da ciò che vedo, non posso partire da altro. Poi, ciò che vedo posso interrogarlo e, quindi, andare molto al di là, ma parto sempre e comunque da lì, dalla chiacchiera, direbbe Heidegger. Come bene deve intendersi ciò verso cui si tende, ciò che è fine in sé e per sé, ciò che è saldo senz’altro in sé, ciò che è a motivo di se stesso e a causa di cui è tutto l’altro. Il fine ha la determinazione dell’attività di produrre se stesso, sicché come scopo autonomo è l’idea, il concetto che si soggettiva, e nella sua oggettività ha identico con sé. In tal modo Aristotele polemizza fortemente contro Eraclito, il cui principio rappresenta soltanto un mutamento, senza rimanere identico a sé il conservarsi, il ritornare in sé. Qui c’è già una prima critica di Aristotele, che ci fa intravedere quale sarà la critica fondamentale di Aristotele nei confronti dei presocratici, è racchiusa qui in queste due righe. Aristotele dice che questo principio rappresenta soltanto un mutamento, senza rimanere identico a sé il conservarsi. Perché qualcosa sia controllabile, gestibile, deve rimanere fermo, deve essere quello che è, per virtù propria. Da qui la metafisica. Mentre per Empedocle la separazione degli elementi riuniti nel tutto, che si riuniscono e separano continuamente, è anche necessariamente unificazione delle parti di ciascun elemento tra loro. D’altra parte, ciò che finisce col fermarsi è in quanto indipendente nello stesso tempo unito in sé. Ma se per virtù dell’amicizia tutto si ricongiunge nuovamente in Uno, è necessario che da ciascun elemento si separino di bel nuovo le singole parti. Queste si unificano e si separano ininterrottamente. L’unificarsi è esso stesso un molteplice, una diversa relazione dei quattro separati, sicché il riunirsi è al tempo stesso un separarsi. Si riuniscono in quanto sono separati. Questo è il caso generale di ogni determinatezza, che essa cioè deve essere il contrario in se stessa e deve mostrarsi come tale. Per determinare qualche cosa devo muovere dall’idea che sia indeterminato; solo così posso determinarlo. Solo che determinandolo questa cosa non è più quella che era prima, perché prima era indeterminata. È una profonda osservazione questa che in generale non v’ha unione senza separazione, né separazione senza unione, identità e non identità sono determinazioni di pensiero che non possono essere separati. A questo punto del pensiero era già chiaro come ciascun elemento coesiste con il suo opposto. Poi, il modo di questa coesistenza è ancora vacillante, però sono individuati: ciascun elemento è quello che è in virtù del suo opposto. Passiamo ad Anassagora. Con Anassagora comincia ad apparire un raggio di luce seppur ancora fioco. Infatti, egli riconosce come principio l’intelligenza. Di lui dice Aristotele: chi disse che anche nella natura, come in ciò che vive, la mente (νος) è causa dell’universo e di ogni ordine, appare come uno che non ha bevuto in confronto con gli altri che prima di lui avevano parlato a caso. Gli altri filosofi, dice Aristotele, si possono paragonare a quei lottatori che chiamano dilettanti, i quali si dibattono di qua e di là, assestano anche dei bei colpi ma senza arte; così anche questi filosofi sembra che non abbiano coscienza di ciò che dicono. Aristotele ha avuto sempre giudizi pesanti con i presocratici, in particolare con Parmenide, con il quale ce l’aveva in particolare. Generalmente, Aristotele si attiene a un dibattito corretto con i presocratici, anche se li critica pesantemente; con Parmenide, invece, diventa quasi offensivo, non lo sopporta. Orbene, Anassagora, come un temperante tra ubriachi, ebbe bensì per la prima volta appunto questa coscienza, in quanto affermò essere il puro pensiero l’universale e il vero che è in sé e per sé. Ma anche il suo colpo va in un certo modo a vuoto. Questo sempre per Aristotele, naturalmente. Nell’idea di Eraclito come movimento tutti i momenti sono come evanescenti. Empedocle raccoglie questo movimento nell’unità, ma solo sinteticamente, e così pure fanno Leucippo e Democrito. Senonché per Empedocle i momenti dell’unità sono costituti dagli elementi del fuoco, dell’acqua, ecc., come sono immediatamente, mentre negli atomisti sono pure astrazioni, essenze ferme in sé, pensieri. Così però si pone immediatamente l’universalità giacché gli opposti non hanno più alcun punto di appoggio sensibile. Questo era anche il problema di Aristotele: il punto di appoggio del sensibile, della cosa. Avete presente il celebre quadro di Raffaello, la Scuola di Atene. Ci sono vicini Platone e Aristotele; Platone che punta l’indice verso l’alto, verso l’empireo, lì c’è l’essere, la realtà; mentre Aristotele, ha la mano aperta verso il basso, cioè alla realtà delle cose, all’immanente. Immanente che Aristotele sistematizza attraverso i predicati, cioè attraverso le categorie. Come principi abbiamo visto l’essere, il divenire, l’Uno: sono pensieri generali, non sono nulla di sensibile e neppure rappresentazioni della fantasia. Tuttavia, il loro contenuto e le parti di esso sono tratti dal sensibile, sono pensieri in una determinazione quale che sia. Orbene, Anassagora viene ora a dirci che l’universale, non già le divinità o i principi sensibili o gli elementi, neppure i pensieri i quanto essenzialmente determinazioni della riflessione, ma il pensiero stesso in sé e per sé, senza opposizione comprendente in sé tutto e la sostanza o il principio. Il pensiero, cioè il linguaggio, è il tutto. L’unità come universale ritorna in se stessa dall’opposizione… Tra l’immanente e il trascendente, tra l’in sé e il per sé. …mentre invece nel sintetizzare di Empedocle, ciò che è contrapposto è ancora per sé separato da essa e non è il pensiero stesso che è essere; ora, invece, il pensiero, come processo puro e libero in se stesso e universale autodeterminantesi, non è differente dal pensiero cosciente. Pertanto, con Anassagora si schiude un altro regno. Anassagora ha anticipato la questione dell’autoctisi, del pensiero che crea se stesso; crea se stesso e ogni cosa, perché ogni cosa è pensiero. Ciò che c’è di interessante in questo corso di Hegel è come la questione si sia posta sin dall’inizio nei suoi principi fondamentali. Un elemento è quello che è per il fatto che si oppone a ciò che non è, cioè al suo contrario, al suo opponente. Questo è l’agire stesso del linguaggio, è il linguaggio che pone un elemento e ponendolo pone il suo opponente. Senza questo porre e opporre non c’è linguaggio: il linguaggio pone, cioè fa esistere qualche cosa, alla quale cosa oppone immediatamente ciò che quella cosa non è, per poterla fare esistere. In fondo, è come accennava Zenone: il linguaggio mi consente di vedere che Achille sorpassa la tartaruga, posso vederli, li distinguo, ma come li colgo? Li colgo attraverso il pensiero, attraverso il significato, il trascendente, li colgo attraverso uno spostamento, cioè, attraverso un’infinitizzazione. Quindi, sì, il linguaggio mi consente di cogliere qualcosa, ma nel momento in cui colgo questo qualche cosa, questo qualche cosa dilegua. E questo era ciò che aveva inteso Eraclito. Anassagora ci sta dicendo ora che tutto questo non è altro che pensiero, il modo in cui il pensiero funziona. Di tutte le cose che son grandi fra gli uomini la più grande è il dominio sulle volontà degli uomini che ne hanno una, giacché allora questa individualità dominante deve essere non solo la più universale ma anche la più viva. Sorte questa che non tocca più se non a pochi mortali. E qui Anassagora ci ha detto perché è così importante la volontà di potenza: il dominio sulle volontà degli uomini. Perché gli uomini ne hanno una, per cui è una volontà che domina un’altra volontà. Dominare un oggetto non ha grande rilievo perché l’oggetto non ha nessuna volontà, mentre piegare la volontà altrui dà quella sensazione di potere, di benessere, che gli umani cercano ininterrottamente e, quindi, hanno bisogno che ci sia un’altra volontà. Questo poi Hegel lo trasferirà sulla questione servo-padrone. Però, qui c’è già in nuce tutta la questione della volontà di potenza, perché dice questa individualità dominante deve essere non solo la più universale, cioè la più vera, ma anche la più viva. Sorte questa che non tocca più se non a pochi mortali o a nessuno. Quindi, solo io, solo io al mondo ho piegato tutti al mio volere. Poi, naturalmente interviene subito il depotenziamento, come dice Nietzsche, e quindi devo subito trovare qualcun altro da piegare alla mia volontà per potere mantenere la posizione di potenza. Lo spirito nel pensiero come identità di se stesso con l’essere… Il pensiero è l’essere. Questo lo avevamo visto già con Parmenide. …lo spirito sa d’essere esso stesso il vero reale. Il pensiero sa di essere lui il vero reale. La realtà delle cose sono io, dice il pensiero. Sicché nel pensiero ciò che non è spirituale, che è materiale, s’abbassa per lo spirito a cosa, a negatività dello spirito. Qui c’è ancora l’idea un po’ ingenua che ci sia comunque qualcosa. Anche se da una parte lo negano, dall’altra parte ritorna questa idea di una realtà, perché se lui dice che lo spirito è il vero reale, da dove arrivano allora queste altre cose che sarebbero ciò che si oppone allo spirito? Non sono realtà, sono niente. Non appena lo spirito comprende se stesso… Lo spirito assoluto. Qui c’è Hegel, ovviamente. …è per sé, e appunto per questo deve porsi di contro l’altro da sé, come negazione della coscienza, vale a dire, determinarlo come cosa priva di spirito, di coscienza, di vita, e solo da questo oggetto venire a sé. Questo è ciò che deve fare per ottemperare a ciò che diceva prima. La individualità dominante, che è la più universale di tutte, cosa deve fare? Lo dice qui: deve porsi di contro l’altro da sé, come negazione della coscienza, vale a dire, determinarlo come cosa priva di spirito, di coscienza. Deve fare questo: piegare la volontà dell’altro è renderlo privo di coscienza, cioè togliergli la sua volontà; e quindi, non volendo nulla, diventa una cosa. In definitiva, devo trasformare tutti quanti in cose, senza volontà in quanto l’univa volontà è la mia, è quella universale. Il principio logico di Anassagora consiste nell’aver egli riconosciuto in generale il νος (l’intellletto) come essenza semplice assoluta del mondo. La semplicità del nous non è un essere m un’universalità distinta da se stessa, in modo però che la distinzione è immediatamente superata e che questa identità vien posta per sé. Questo universale per sé separato esiste soltanto come pensiero. Questo universale, che mi si contrappone, sta dicendo dopo aver detto che bisogna schiantarlo, esiste solo nel mio pensiero. È per questo che è così minaccioso, perché è il mio pensiero. Esiste bensì anche nella natura come essenza oggettiva, ma allora non più puramente per sé, sibbene in quanto ha in lui immediatamente la particolarità. Per esempio, spazio e tempo sono quanto va più di ideale e di universale nella natura come natura. Cosa c’è di più universale dello spazio e del tempo? Il concetto di cosa, perché anche spazio e tempo sono cose. Ma non esistono spazio puro, tempo puro, movimento puro, allo stesso modo che non esiste pura materia… Questa sarà poi la maledizione di Aristotele nel De generatione et corruptione: questa materia non la troviamo mai perché troviamo sempre e soltanto la materia signata, cioè il qualche cosa, non la materia. …sibbene questo universale è spazio, aria, terra, ecc., immediatamente determinati. Questo universale è immediatamente determinato: come lo penso lo determino, così come qualunque universale, come qualunque cosa. Nel pensiero io sono io, oppure Io=Io, distinguo bensì anche qualcosa da me, ma questa medesima pura unità rimane, non è un movimento ma soltanto una differenza che non è una differenza vale a dire, l’essere per me. Questo Io=Io significa che il secondo Io torna sul primo rendendolo l’in sé. E tutto ciò che penso, cioè pensare a un contenuto determinato, è mio pensiero. In questo oggetto (il secondo Io) io sono cosciente di me. Senonché questo universale, che così per sé, si contrappone a un tempo determinatamente al singolo, vale a dire, il pensiero si contrappone a ciò che è. Ciò che mi si contrappone è sempre il mio pensiero; quindi, è il mio pensiero che li contrappone a sé. È il linguaggio che si contrappone a sé, che ha in sé questa contrapposizione. A questo punto occorrerebbe considerare l’unità speculativa di questo universale col particolare, quale essa è posta come unità assoluta; ma agli antichi non accadde naturalmente di concepire il concetto medesimo. Non dobbiamo aspettarci di trovare in essi l’intelletto che si realizza in un sistema che si organizza in universo, in puro concetto. E questo è quello che ha fatto lui, Hegel.