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30 maggio 2018

 

Concetti fondamentali della metafisica di M. Heidegger

 

Siamo a pag. 91. Bisogna vedere e dire ciò che qui accade. Viene alla luce il fatto che gli stati d’animo non sono qualcosa di solamente sussistente, bensì un modo e una maniera fondamentali dell’essere, e precisamente dell’esser-ci, e ciò implica immediatamente l’essere-assieme. Parla degli stati d’animo. Ricordate che lui pensa che per affrontare la questione metafisica, e cioè la questione della filosofia, per un pensiero autentico occorre uno stato d’animo. Sono maniere dell’esser-ci e in quanto tali dell’esser-via. Uno stato d’animo è una maniera, non semplicemente una forma o un modo, ma una maniera nel senso di una melodia, la quale non fluttua al di sopra del presunto sussistere autentico dell’uomo, bensì dà il tono a questo essere, cioè dispone e determina il modo e il “modo” del suo essere. Sta dicendo che questo modo di essere, la Stimmung, la tonalità emotiva, è qualcosa che c’è sempre nelle persone, in un modo o nell’altro. Anche quando sembra che non ci sia, comunque c’è. La cosa fondamentale, che già leggevamo la volta scorsa, è che per Heidegger l’essere in uno stato d’animo, cioè essere in un certo modo, è la condizione perché si verifichino certe cose, o meglio, tutto ciò che accade si verifica per via di uno stato d’animo, nel senso che è lo stato d’animo che determina ciò che si incontra, il modo con cui si incontra. Abbiamo così il dato positivo corrispondente alla prima tesi negativa, secondo la quale lo stato d’animo non è un ente: dal punto di vista positivo è modo fondamentale, la maniera fondamentale di come l’esser-ci è in quanto esser-ci. Dice, cioè, com’è l’esser-ci in questo momento, come sono io in questo momento: arrabbiato, nervoso, tranquillo, rilassato, felice, triste, ecc. Lo stato d’animo dice come l’esser-ci, cioè io, sono in questo momento. Ora abbiamo anche la tesi contrapposta alla seconda tesi negativa, secondo la quale lo stato d’animo non è quanto c’è di più inconsistente e fugace, qualcosa di meramente soggettivo: poiché lo stato d’animo è il modo originario nel quale ogni esser-ci è come è, esso non è ciò che c’è di più inconsistente, bensì ciò che dà all’esser-ci, in senso fondamentale, consistenza e possibilità. Ricordate l’assoluta possibilità. È lo stato d’animo che muove tutto, è lo stato d’animo che fa dell’esser-ci ciò che è in quel momento, così com’è. Da tutto ciò dobbiamo comprendere che cosa significhi intendere in modo corretto i cosiddetti “stati d’animo”. Non si tratta, contrapponendosi alla psicologia, di delimitare meglio una specie particolare di esperienze psichiche vissute e migliorare così la psicologia stessa, bensì di rivolgere da principio lo sguardo sull’esser-ci dell’uomo. Gli stati d’animo sono le maniere fondamentali nelle quali noi ci troviamo-situati in un lodo oppure nell’altro. È per questo che diceva che lo stato d’animo è ciò che fa dell’esser-ci quello che è. Gli stati d’animo sono il “modo” secondo il quale uno sta così o così. Certo, per ragioni che non possiamo ora esporre, prendiamo spesso questo “stare così o così” come qualcosa di indifferente nei confronti di ciò che abbiamo in mente, di ciò di cui ci stiamo occupando, di ciò che ci accade. Sottintende che non è affatto così. Eppure questo “stare così o così” non è mai soltanto la conseguenza e il fenomeno concomitante del nostro pensare, fare e lasciar fare, bensì – in termini sommari – ne è il presupposto, il “medio” nel quale soltanto quelli accadono. Qui dice una cosa molto forte: il mio pensare accade soltanto in relazione a uno stato d’animo. E proprio quegli stati d’animo che ci dispongono in modo tale per cui ci sembra che non ci sia stato d’animo alcuno, e che noi non siamo da essi determinati, proprio questi sono i più potenti. Innanzitutto e per lo più ci colpiscono solamente stati d’animo particolari, che oscillano tra “estremi”: gioia, tristezza. Già meno percettibili sono un’ansietà lieve o uno stato di soddisfazione che ci scivola accanto. Ma quel non-essere-in-uno-stato-d’animo nel quale non siamo né maldisposti né “ben” disposti apparentemente non c’è, e tuttavia c’è. Come dicevo prima, non c’è un momento in cui non ci sia uno stato d’animo. Ma, in questo né-né, non siamo tuttavia mai non-determinati da uno stato d’animo. Il fatto però che riteniamo questo non-essere-in-uno-stato-d’animo un non-essere-affatto-determinati da uno di loro, ha ragioni di carattere essenziale. Quando diciamo che una persona di buon umore porta allegria in una compagnia, significa soltanto che viene prodotto uno stato d’animo brioso o rilassato, non significa che prima non vi fosse alcun stato d’animo. C’era un non-essere-in-uno-stato-d’animo apparentemente difficile da cogliere e che sembra essere qualcosa di indifferente, mentre in realtà no lo è affatto. Lo vediamo ancora una volta: gli stati d’animo non affiorano nello spazio vuoto dell’anima per poi scomparire nuovamente; l’esser-ci in quanto esser-ci è già da sempre radicalmente determinato. Ciò che avviene, è sempre e soltanto un mutamento degli stati d’animo. In modo provvisorio e sommario abbiamo affermato che gli stati d’animo sono il “presupposto” e il “medio” del pensare e dell’agire. Qui pone la cosa in modo ancora più forte: lo stato d’animo è il presupposto del pensiero, come dire che il pensiero non c’è senza lo stato d’animo; è lo stato d’animo che indirizza il mio pensiero, che muove il mio pensiero. Ovviamente, potremmo qui fare una considerazione, perché a questo punto non possiamo non pensare che lo stato d’animo abbia a che fare con la volontà di potenza. Quando dice che è lo stato d’animo a muovere il pensiero, in effetti sta dicendo qualcosa di molto prossimo a ciò che dicevamo tempo fa, e cioè che è la volontà di potenza a muovere il pensiero. Potremmo quasi dire che lo stato d’animo e la volontà di potenza sono due aspetti della stessa cosa. Ciò vuol dire che risalgono in modo più originario alla nostra essenza: in essi soltanto incontriamo noi stessi in quanto esser-ci. Soltanto negli stati d’animo incontriamo noi stessi. Questo se ci accorgiamo dello stato d’animo. Poi, vedremo in che modo. L’essenza dello stato d’animo ci rimane nascosta o ci appare falsata proprio perché non consiste nell’essere un fenomeno concomitante, ma che ci riporta nel fondo dell’esser-ci. Come dire che per intendere più autenticamente la questione dell’esserci, occorre che riusciamo a capire qualcosa di più dello stato d’animo. Per questo cogliamo l’essenza dello stato d’animo innanzitutto a partire da quanto, venendoci incontro, ci colpisce, cioè a partire dalle oscillazioni estreme dello stato d’animo, da ciò che sorge e scompare. Poiché consideriamo gli stati d’animo a partire dalle loro oscillazioni, sembrano accadimenti tra gli altri, e noi non vediamo quel peculiare esser-disposti, l’originario venir-pervaso-da-uno-stato-d’animo da parte di tutto l’esser-ci in quanto tale. Non ci accorgiamo, se non in questi esempi macroscopici, dello stato d’animo. Da ciò risulta evidente che destare gli stati d’animo è un modo e una maniera di afferrare l’esser-ci rispetto alle “maniere” in cui di volta in volta l’esser-ci è, in quanto esser-ci, o meglio, di lasciar essere l’esser-ci così com’è, o può essere, in quanto esser-ci. Per Heidegger, quindi, ne va di qualcosa di importante, ne va della comprensione dell’esser-ci. Questo destare può forse essere un modo di agire singolare, difficile e poco chiaro. Se abbiamo compreso il nostro compito, dobbiamo fare attenzione proprio a non ricominciare improvvisamente a trattare dello stato d’animo o magari del destarlo, ma dobbiamo agire nel modo del destare inteso come azione. A pag. 93, § 18. L’accertarsi della nostra condizione odierna e dello stato d’animo fondamentale che la domina e la pervade come presupposto per il destare tale stato d’animo fondamentale. Qui fa una breve trattazione dello stato d’animo di un’epoca, dello stato d’animo nella condizione odierna. Cita alcuni personaggi: Oswald Spengler, Ludwig Klages, Max Scheler, Leopold Ziegler. Non ci occuperemo di loro ma soltanto dell’aspetto più interessante per noi, e cioè della questione così come la pone Nietzsche. A pag. 97, il punto b) Il contrasto fondamentale nietzscheano tra il dionisiaco e l’apollineo come fonte delle quattro interpretazioni della nostra condizione odierna. Considera la contrapposizione in Nietzsche tra Dioniso e Apollo, in definitiva, due figure di stati d’animo. Questa contrapposizione Dioniso-Apollo sorregge e guida fin dall’inizio il filosofare di Nietzsche. Egli stesso lo sapeva. Tale contrapposizione, desunta dall’antichità, doveva schiudersi al giovane filologo che voleva rompere con la sua scienza. Ma egli sapeva anche che tale contrasto, quanto si manteneva nel suo filosofare, altrettanto mutava per lui con il suo filosofare. Egli stesso sapeva: “Solo chi si trasforma, mi è affine”. Intenzionalmente, vorrei rifarmi all’ultima interpretazione da lui fornita nella sua opera maggiore e decisiva, in quell’opera che non poté portare a termine come l’aveva progettata: La volontà di potenza. Il secondo capitolo del IV libro ha per titolo: “Dioniso”. In esso si trovano aforismi di tipo singolare, come in generale l’intera opera è più che altro un accostamento di pensieri essenziali, rivendicazioni e valutazioni. Vi do innanzitutto un esempio di come in questo periodo, poco prima del crollo, Nietzsche avesse chiara coscienza che tale contrasto era per lui determinante fin dall’inizio. Adesso cita Nietzsche. “Verso il 1876 ebbe paura di veder compromesso tutto quello che era stato fino allora il mio volere, quando compresi dove si andasse ormai a finire con Wagner: e io ero legato a lui saldissimamente da tutti i vincoli di una profonda unità di bisogni, dalla gratitudine, dall’insostituibilità della persona e dall’assoluta angustia che vedevo davanti a me. Intorno allo stesso tempo mi parve di essere inestricabilmente incarcerato nella mia filologia e nella mia attività di insegnante – in qualcosa di casuale, in un espediente pratico della mia vita -; non sapevo più come uscirne, ed ero stanco, logoro, stremato. Qui Heidegger sta parlando dello stato d’animo in cui si trovava Nietzsche, soprattutto, quindi, dello stato d’animo, che è stato determinante per Nietzsche per fare quello che ha fatto. Più avanti dice “L’illusione di Apollo: l’eternità della bella forma; la legislazione aristocratica così «dovrà sempre essere»”. Questo è Apollo. Poi, “Dioniso: sensualità e crudeltà. Si potrebbe interpretare la caducità come godimento della forza che genera e distrugge, come creazione costante”. Questo è Dioniso. Apollo è la staticità, la bellezza, l’armonia, la bella forma, mentre Dioniso è il contrario, è la caducità come godimento, la distruzione, la crudeltà, la sensualità, tutte passioni forti, mentre in Apollo sono passioni tranquille. Apollo sarebbe la ragione che tutto sistema, che tutto ordina; di contro, Dioniso è l’irruzione dei sentimenti, della sensualità più violenta, fino alla crudeltà. Segue un capoverso in cui Nietzsche interpreta questo contrasto nella forma più bella e decisiva, e lo mette in connessione con l’origine: “Con il termine «dionisiaco» si esprime: un impulso verso l’unità, un dilagare al di fuori della persona, della vita quotidiana, della realtà, come abisso dell’oblio, come traboccamento appassionato-doloroso in stati d’animo più oscuri, più pieni, più fluttuanti; un’estatica accettazione del carattere totale della vita… Infatti, Nietzsche contrapponeva il pensiero e la vita: il pensiero è la razionalità, la vita invece è l’irruzione delle passioni. …come l’uguale di ogni mutamento, l’ugualmente potente, l’ugualmente beato; la grande e panteistica partecipazione alla gioia e al dolore, che approva e santifica anche le qualità più terribili e problematiche della vita; l’eterna volontà di generazione, di fecondazione, di ritorno; il sentimento unitario della necessità di creare e di distruggere. Questo è il dionisiaco. Col termine «apollineo» si esprime: l’impulso verso il perfetto essere per sé, verso l’«individuo» tipico, verso tutto ciò che semplifica, pone in rilievo, rende forte, chiaro, inequivocabile, tipico; la libertà sotto la legge. Questo è l’apollineo, l’ordinato, mentre il dionisiaco è il disordine più assoluto, il caos. Poco più avanti dice Segue ora la sua caratterizzazione dell’origine di questa interpretazione, e la più profonda interpretazione della Grecità che ci ha fornito: “Questo antagonismo tra dionisiaco e apollineo nell’anima greca è uno dei grandi enigmi da cui mi sentii attratto considerando la natura greca. In fondo non mi preoccupai se non di indovinare perché proprio l’apollinismo greco dovesse svilupparsi da un sottosuolo dionisiaco; perché il greco dionisiaco avesse bisogno di diventare apollineo, ossia di spezzare la sua volontà tesa verso l’immane, il molteplice, l’incerto, l’orribile mediante una volontà di misura, di semplicità, di ordine sotto la norma e il concetto. Il dionisiaco è il caos assoluto, l’impossibilità di fermare qualcosa, è la parola in quanto ingestibile, in quanto rinviante sempre ad altro; l’apollineo è la metafisica, il concetto che ferma e fissa. Nel fondo del greco è la mancanza di misura, la caoticità, l’elemento asiatico; la prodezza del greco consiste nella lotta con il suo asiatismo; la bellezza non gli è donata, non più della logica, della naturalezza dei costumi – è conquistata, voluta, strappata –è la sua vittoria”. La metafisica è la vittoria dell’apollineo sul dionisiaco, è la vittoria del concetto sulla deriva infinita. A pag. 100, sottoparagrafo c) La noia profonda come lo stato d’animo fondamentale nascosto delle interpretazioni cultural-filosofiche della nostra situazione. Tutte queste questioni sono per noi secondarie. Non ci chiediamo neppure se tutte queste interpretazioni della nostra situazione siano giuste oppure no. Queste interpretazioni sono quelle interpretazioni del nostro modo di sentire odierno, contemporaneo. In tali casi la maggioranza ha sempre ragione. E tuttavia il richiamo a esse è essenziale. Cosa avviene infatti in tali interpretazioni? Diciamo: una diagnosi della cultura, nella quale, sulla scorta delle suddette categorie vita-spirito (dionisiaco-apollineo), si passa tutto d’un fiato attraverso la storia universale e al di sopra di essa. Facciamo un piccolo salto, a pag. 101. Tale filosofia della cultura non ci coglie nella nostra situazione odierna; nel migliore dei casi vede soltanto l’oggi, ma senza di noi, quell’oggi che non è altro che l’eterno-ieri. Qui si riferisce agli autori citati prima, i quali hanno fatto appunto una filosofia della cultura, hanno dato un’interpretazione della cultura contemporanea. Dice senza di noi, come dire che questi tizi hanno fatto una sorta di fotografia, in cui però io non ci sono, sono fuori, mentre sappiamo bene che per Heidegger la cosa essenziale è che il mondo è fatto anche di me, non ci sono io e dall’altra parte il mondo. Ma se, nella sua interpretazione della nostra condizione odierna, la filosofia della cultura non ci prende, né ci afferra, allora sbagliavamo, quando, nel corso delle precedenti considerazioni, affermavamo che per cogliere il nostro stato d’animo fondamentale – fosse necessario accertarsi preliminarmente della nostra situazione. … E la cultura è per l’appunto l’espressione della nostra anima -: del resto, è un’opinione al giorno d’oggi assai diffusa, che, proprio seguendo il filo conduttore dell’idea di espressione e di simbolo, sia la cultura che l’uomo possano venir colti filosoficamente in modo autentico ed esclusivo. Oggi abbiamo una filosofia dell’espressione, del simbolo, delle forme simboliche. L’uomo come anima e spirito si esprime e si riflette in figure che hanno in sé un significato, e che sulla base di tale significato danno un senso all’esistenza che vi si esprime. Questo è, per sommi capi, il modello dell’odierna filosofia della cultura. … Eppure resta la questione se tale raffigurazione dell’uomo coglie e afferra il suo esser-ci, se lo porta a essere, o se invece tale raffigurazione-positiva orientata all’espressione, non soltanto non coglie di fatto l’essenza dell’uomo, ma deve necessariamente mancarla, a prescindere dall’estetica. Deve mancarla per forza perché, se io voglio fare una filosofia della cultura, devo pormi come colui che osserva la cultura; non come colui che osservando la cultura, parafrasando un po’ Nietzsche, ne è osservato. Ricordate Nietzsche: ricorda che guardando nell’abisso, l’abisso guarderà dentro di te. Non solo non vi giunge di fatto, ma non può giungervi necessariamente, perché si sbarra da sé la strada verso l‘esser-ci. Lo esclude a priori, quindi l’esser-ci non c’è più. Quindi, continua a porsi la questione di dove trovare uno stato d‘animo fondamentale, che tenga conto dell’esser-ci. A pag. 103. Ora ci chiediamo nuovamente: per quali ragioni quelle diagnosi culturali trovano udienza presso di noi, anche se in maniera differente? Perché questo giornalismo d’alto livello riempie o addirittura delimita il nostro spazio “spirituale”? È solo una moda? Si risolve qualcosa, se si cerca di definirlo “filosofia alla moda” e di ridurne così la portata? Noi non possiamo né vogliamo ricorrere a mezzi così a buon mercato. Abbiamo affermato: questa filosofia della cultura raffigura tutt’al più la nostra situazione, ma non ci afferra. Più ancora: non solo non riesce a coglierci, ma ci svincola da noi stessi, assegnandoci un ruolo nella storia universale. Come se fossimo degli oggetti metafisici, ci svincola da noi stessi. Questo sta a indicare in qualche modo che se svincolo il pensiero filosofico dall’esser-ci, allora trasformo l’uomo in ente, trasformo l’uomo in un oggetto metafisico: se tolgo l’esser-ci l’uomo diventa un oggetto metafisico. Ci svincola da noi stessi, eppure al tempo stesso è antropologia. La fuga, il capovolgimento, l’apparenza illusoria e l’inutilità ci rendono ancora più sensibili e acuti. Ora, la questione decisiva è la seguente: cosa vuol dire il fatto che ci diamo e addirittura dobbiamo darci questo ruolo? Ruolo di enti all’interno della filosofia della cultura. Siamo diventati tanto insignificanti a noi stessi da aver bisogno di un ruolo? Perché questa filosofia della cultura assegna all’uomo un ruolo, una sua funzione all’interno della cultura. Siamo diventati così insignificanti da aver bisogno che qualcuno ci dia un ruolo? È chiaro che se togliamo l’esser-ci per l’appunto l’uomo diventa un ente manipolabile come qualunque cacciavite. Perché non troviamo più alcun significato per noi, alcuna possibilità essenziale dell’essere? Forse perché da tutte le cose che ci viene incontro una sorta di indifferenza di cui non conosciamo la ragione? Ma come si può parlare così, quando il traffico mondiale, la tecnica, l’economia, stringono a sé l’uomo e lo mantengono in movimento? Tutti agitatissimi, dice, sempre pieni di cose da fare. … L’uomo stesso sarebbe divenuto noioso a se stesso? Qui comincia a parlare della noia. Perché ciò? Ciò accade forse perché una noia profonda si trascina qua e la negli abissi dell’esser-ci come una nebbia silenziosa? Cominciate a intravedere, dalle sue parole, tutta la questione della noia come un qualche cosa che è sempre lì, dice, come una nebbia che avvolge un po’ tutto. In fondo, per assicuraci delle nostre condizioni, non abbiamo bisogno di diagnosi e prognosi culturali, perché queste, invece di aiutarci nel voler trovare noi stessi, ci assegnano solamente un ruolo e ci svincolano da noi stessi. Ma come troveremo noi stessi… Quando dice “trovare noi stessi” intende come giungere a una interrogazione autentica, a una posizione autentica dell’esser-ci. …in un vuoto auto-rispecchiamento, in quel ripugnante ficcare il naso nelle cose della psiche che al giorno d’oggi ha superato ogni limite? Qui ce l’ha con la psicoanalisi, ovviamente. Oppure ci troveremo in modo tale da doverci restituire a noi stessi, cosicché, una volta restituiti a noi stessi, ci riconsegniamo a noi, e in modo tale da essere riconsegnati a ciò che siamo? Qui, in questa apparentemente superficiale critica alla psicoanalisi, dice una cosa molto interessante. La psicoanalisi, di fatto, pone l’uomo come un ente metafisico, come un qualche cosa che ha delle prerogative, che va analizzato… Per dirla con Heidegger, la psicoanalisi assegna all’uomo un ruolo, immaginando tutte le cose che immagina: il complesso edipico, la rimozione, l’inconscio, ecc. Tutte queste cose che dovrebbero descrivere l’uomo, ma in tutte queste cose, ci sta dicendo Heidegger, l’uomo, cioè l’esser-ci, dov’è? È come se Freud non fosse preso lui stesso in queste cose ma stesse, per l’appunto, descrivendo oggetti metafisici, una realtà metafisica, non è, come direbbe Heidegger, con-afferrato dalle cose che sta facendo. Questo non significa che non abbia compiuto una sorta di autoanalisi, ma questo è un altro discorso. È sempre, positivisticamente, lui come soggetto che indaga un oggetto, che è lì per essere indagato; ma in questa operazione di indagare  l’indagatore non viene indagato dal suo stesso indagare, non problematizza il suo stesso indagare: in che modo io sono coinvolto in quello che sto facendo, cioè, per dirla in modo più semplice, le cose che sto facendo sono frutto della mia fantasia o sono la realtà delle cose. È questa la domanda: sono una mia costruzione, che mi va bene per una serie di miei pensieri, o sto descrivendo la realtà dei fatti? La domanda va posta in questi termini. Non possiamo dunque fuggir via da noi stessi in una chiacchiera culturale prolissa e diffusa, ma non possiamo neppur correrci dietro in una curiosa psicologia, bensì dobbiamo trovarci in modo tale da vincolarci al nostro esser-ci e che questo, l’esser-ci, divenga per noi l’unica cosa vincolante. Tenete conto che per Heidegger l’esser-ci è sempre un essere gettati in un progetto, qui e adesso. Ma ci troveremo così ricondotti a quella noia profonda che forse per il momento nessuno conosce? Questa problematica noia profonda sarebbe forse quello stato d’animo fondamentale di cui siamo alla ricerca e che dobbiamo destare? Questa domanda ci conduce dritti al Capitolo Secondo: La prima forma di noia: e il venir annoiati da qualcosa. Lui si dilunga in modo estenuante su alcune cose ma vi riassumerò brevemente un esempio che lui fa. Un tizio si trova in una stazione ad aspettare un treno, solo che la stazione si trova in un paesello sperduto dove non c’è nulla e lui arriva quattro ore prima dell’arrivo del treno. Che fare? Quindi incomincia a contare gli alberi lungo il viale, a guardare cosa fa quell’altro, poi guarda l’orologio, ecc. È annoiato da qualcosa, come dice Heidegger, annoiato dal fatto che il treno non arriva, arriverà, certo, al suo orario ma ci sono quattro ore da passare. Questa noia è fatta in modo tale da lasciarlo in sospeso in attesa dell’evento, l’arrivo del treno, e questo essere in sospeso è propriamente la noia, cioè, questo ente, il treno, che arrivando dovrebbe concludere, non arriva e mi lascia in sospeso, in attesa. Andiamo a pag. 107, al § 20. Lo stato d’animo fondamentale della noia, il suo rapporto con il tempo e le tre questioni metafisiche intorno a mondo, finitezza, isolamento. Questa noia profonda è lo stato d’animo fondamentale. Per riuscire a dominarla, scacciamo il tempo, che nella noia si prolunga. Dovrebbe forse esser breve? Non desideriamo forse, ognuno di noi, un tempo veramente lungo? E se ci diviene lungo, scacciamo lui e questo divenire-lungo. Noia, tempo lungo – non è un caso che, specialmente nell’uso linguistico alemanno, “aver un tempo lungo” significhi “aver nostalgia”. Ritorna la questione della nostalgia di cui parlava Novalis. Qualcuno ha lungo-tempo di = ha nostalgia di. O siamo noi che facciamo fatica a cogliere la sapienza racchiusa nel linguaggio e ad attingerla? Noia profonda – una nostalgia. Nostalgia, una nostalgia è il filosofare, lo abbiamo già sentito da qualche parte. Noia – uno stato d’animo fondamentale del filosofare. Noia – che cos’è? La noia – qualunque sia mai la sua essenza ultima – rivela in modo quasi tangibile, in particolare nella nostra lingua tedesca, un rapporto col tempo, un modo del nostro essere nei confronti del tempo, un modo di sentire il tempo. Infatti, quando uno aspetta il treno il tempo sembra non passare mai. Noi non poniamo però il problema del tempo, la questione di che cosa sia il tempo, bensì tre questioni completamente diverse: che cosa siano mondo, finitezza, isolamento. Il nostro filosofare deve muoversi e mantenersi nella direzione e nell’orizzonte di queste tre questioni. E ancora, queste tre questioni devono scaturire per noi da uno stato d’animo fondamentale. A questo punto sta dicendo il perché di questa infinita discussione: perché questi tre elementi, che ha posto anche nel sottotitolo, per essere approcciati hanno bisogno di un particolare stato d’animo. Questo particolare stato d’animo sembra, almeno così ci indirizza, essere la noia profonda. Evidentemente, questa noia profonda non è così come la si intende nel luogo comune, quella è la noia superficiale, la noia di chi aspetta il treno e non arriva. Questo, la noia profonda: se solo sapessimo che cos’è, o ne fossimo pervasi! Ma anche ammettendo di essere pervasi da tale stato d’animo fondamentale, che cosa ha mai a che fare la noia con le questioni del mondo, della finitezza, dell’isolamento? Che lo stato d’animo fondamentale della noia sia connesso con il tempo e con il problema del tempo è facilmente intuibile. O in definitiva tali questioni sono connesse col problema del tempo? Non c’è forse la convinzione antichissima che il mondo abbia avuto un’origine, e insieme ad esso il tempo, che mondo e tempo siano ugualmente antichi, cooriginari e antichi? … Il tempo da parte sua si trova rispetto a noi in un determinato rapporto con la noia. Perciò quest’ultima è lo stato d’animo fondamentale del nostro filosofare al cui interno sviluppiamo le tre questioni intorno a mondo, finitezza e isolamento. A pag. 109. Questa noia superficiale (la noia del treno nell’esempio di prima) ci deve condurre alla noia profonda, cioè in termini più appropriati, la noia superficiale si deve rivelare come noia profonda, deve pervaderci nel fondo dell’esser-ci. Questa noia fugace, occasionale, inessenziale, deve diventare essenziale. Come possiamo fare ciò? Dobbiamo produrre in noi la noia esplicitamente e intenzionalmente? Per niente. Non dobbiamo intraprendere qualcosa in questo senso. Al contrario, intraprendiamo sempre troppo. Questa noia diverrà da sé essenziale, lo diverrà, se non le siamo contro, se non reagiamo sempre e immediatamente per metterci in salvo, e le diamo invece spazio. Quando uno si annoia fa di tutto perché questa noia scompaia. C’è un’industria immensa, quella del divertimento, per impedire che le persone si annoino. Quello che ci sta dicendo Heidegger è di coltivare questa noia, portarla alle estreme conseguenze, senza cercare immediatamente, come lo chiama lui, uno scaccia-tempo. Questo è quanto dovremmo imparare, questo non-opporre-subito-resistenza ma lasciar-risuonare-fino-in-fondo. Ma come possiamo aprire uno spazio a tale noia, che per il momento è inessenziale e inafferrabile? Semplicemente non essendole contro, avvicinandosi ad essa, e lasciandole dire che cosa mai voglia, e cosa mai le accada. Ma anche per far questo, è necessario che traiamo una volta per tutte fuori dall’indeterminatezza ciò che noi chiamiamo e conosciamo solo in apparenza come noia. Ma tutto ciò non nel senso di un analizzare e scomporre un’esperienza psichica vissuta, bensì in modo tale che ci avviciniamo. A chi? A noi stessi – a noi stessi in quanto un esser-ci. Secondo Heidegger, giungere a quella noia profonda, essenziale, è il modo per avvicinarsi all’esser-ci, cioè a qualcosa di essenziale, di radicale. Lo vedremo più avanti ma questa noia essenziale cos’altro potrebbe essere se non il fatto che ciascuna cosa che affrontiamo è quella che è perché presa in un progetto. Quindi, non è quella che è per virtù propria, e pertanto non mi costringe a fare nulla, ma qualunque cosa io faccia lo faccio per un mio progetto. Questa è la questione sempre centrale in Heidegger: accorgersi di essere un progetto e di essere storicamente determinato. Se voglio fare una certa cosa, se ho questo progetto, questo viene da niente, viene dalla mia storia, viene da ciò che sono, da ciò che fui, da ciò che immagino di dover essere.