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30-4-2014

 

La questione di cui volevo parlarvi riguarda i termini, riguarda il significato. Le cose che vi dirò questa sera hanno una valenza più retorica che prettamente logica o filosofica, riguardano la possibilità di costruire argomentazioni in modo più efficace, più semplice. Si tratta delle cosiddette logiche paraconsistenti. Paraconsistenti indica che non sono del tutto consistenti, come la logica classica; perché è consistente la logica classica? Perché la logica classica non prevede che “a e non a” siano presenti in una teoria, cioè sia possibile dimostrare entrambe le cose. La logica classica è scotiana cioè include la legge dello pseudo Scoto, per cui se è possibile derivare come teoremi sia un elemento che il suo contrario tutta la teoria viene banalizzata perché a quel punto in quella teoria è possibile dedurre qualunque cosa e il suo contrario, e quindi è inutilizzabile. La teoria serve per dedurre teoremi e il teorema se è vero esclude l’altro che è falso, se posso dimostrare tutti e due posso fare tutto. Le logiche paraconsistenti dunque, dico le logiche perché ci sono varie formulazioni della logica paraconsistente e sono state raccolte in questo libro di Marconi che ha fatto solo l’introduzione e poi ha raccolto dei saggi dei vari personaggi, i più noti sono Rescher, Apostel, Kosok, Newton Da costa, Jaskowski e altri. Perché è venuto in mente a qualcuno di inventarsi una logica paraconsistente? Il motivo c’è, le logiche paraconsistenti sono quelle logiche che tentano di dare una forma logica corretta e il più possibile potente, cioè che può dimostrare il maggior numero di cose della dialettica hegeliana. Ma della dialettica hegeliana importava fino a un certo punto, ciò che ha mosso effettivamente questo tipo di ricerca è un derivato della dialettica hegeliana, e cioè il materialismo dialettico di Marx. Il materialismo dialettico di Marx, negli anni in cui venivano prodotti questi testi era importante, tutto l’est dell’Europa era in mano ai comunisti che avevano come fondamento filosofico appunto la teoria di Marx, che però procedendo dalla dialettica hegeliana offriva questo impiccio: la teoria di Marx non era possibile formalizzarla, cioè tradurla in una sorta di logica dalla quale si potessero affermare delle cose con certezza. Infatti la critica che Popper faceva al materialismo storico è proprio che non è scientifico perché non è falsificabile, perché è una teoria che contiene in sé un elemento e il suo contrario può volere dire tutto e niente, e quindi non considerava il marxismo o, più propriamente il materialismo dialettico, come una teoria scientifica. Dava fastidio a molti, soprattutto ai comunisti, molte persone tra il logici paraconsistenti sono dell’est e lavoravano sotto il regime comunista, erano comunisti ed era seccante che la filosofia, la teoria sulla quale si fondavano non fosse una teoria scientifica né formalizzabile. Allora ecco che si sono adoperati per inventarsi le logiche paraconsistenti dove lo pseudo Scoto c’è e non c’è, come dire che c’è, ma con delle limitazioni, non blocca tutto quanto quando viene rilevata la contraddizione, alcune cose sì ma altre no, altre comunque sono concesse e l’intendimento era quello di riuscire a costruire, a partire dalla dialettica di Hegel, perché poi è quello il principio da cui si parte, a partire da questo una sorta di formalizzazione che consentisse che fosse derivare quanto più possibile da una teoria del genere, che quindi accogliesse il principio, non, di non contraddizione ma il principio di non identità, vale a dire che è un teorema, in questo caso, la formula “a, se e soltanto se non a”, questa formula è accolta nella teoria. Ora in che modo funziona la dialettica hegeliana? La “Scienza della logica” è il testo che Hegel dedica alla logica. Per lui la logica deve essere il pensiero stesso. L’Essere in quanto tale è un concetto puro, non determinato da niente, perché se fosse determinato da qualcosa dipenderebbe da questa cosa e invece per Hegel non deve essere così, quindi l’Essere puro non essendo determinato da nulla è nulla. Ecco che allora Essere e Nulla si contrappongono, ma ciascuno si muta continuamente nell’altro. Questo procedimento, questo continuo mutarsi l’uno nell’altro, è ciò che Hegel chiama “divenire”, proprio quel “divenire” contro il quale si scagliava Severino, come ricorderete. Nella filosofia di Hegel c’è un elemento, un elemento intellettuale, dice lui, che è quello che è, ma è quello che è perché si contrappone a un altro, e cioè è quello che è perché è immerso, diciamo così, all’interno di una globalità che rende quell’elemento quello che è; se fosse da sarebbe niente, cioè l’elemento è quello che è in virtù della relazione con tutti gli altri elementi, compreso il suo contrario. La filosofia di Hegel ha questa prerogativa: lui ha considerato il pensiero come la cosa più importante, da qui “idealismo” la corrente di cui è capostipite, principale fautore dell’idealismo, detto anche idealismo tedesco perché praticamente erano tutti tedeschi. Ora dunque l’idea era la cosa più importante perché la realtà, quella empirica, per Hegel non ha nessun valore praticamente, è soltanto un modo grezzo, rozzo di percepire le cose; è soltanto il concetto che produce la realtà, letteralmente. Ma questo ha delle implicazioni e cioè il fatto che questa idea, questo pensiero è continuamente in movimento, non è isolato in un termine. La critica che Hegel muove alla logica classica che conosceva ovviamente molto bene, è che la logica classica individua un termine, lo prende per quello che è indipendente da tutti gli altri, e questo per Hegel è un errore gravissimo, perché questo elemento è quello che è nella differenza dagli altri, perché tutti gli altri ci sono e lo rendono qualche cosa, un po’ come l’Essere e il Nulla di cui vi dicevo, per cui qualunque elemento preso a sé state, indipendentemente da tutto il resto è niente, ci vuole questo altro tutto che lo rende quello che è, e fra questo tutto c’è anche il suo contrario. Per Hegel la filosofia funziona così, cioè pone un elemento, dopodiché pone altro da questo elemento, altri elementi, anche il suo contrario ovviamente, che è incluso, dopodiché c’è l’aspetto intellettuale, quello dialettico in cui compare la negazione dell’elemento, e poi c’è il momento speculativo, quello in cui un elemento e il suo contrario non si elidono, non si escludono ma anzi, compiono un tutto che produce un altro elemento che non è né il primo né il secondo, ma è un terzo elemento. In ogni cosa permane sia un elemento sia il suo contrario, e il contrario cioè il “non a” rispetto ad “a” non è inteso solo come una negazione. Badate bene, Hegel non è un negatore del principio di non contraddizione, semplicemente lo ingloba in un processo che è il processo dialettico, dove anche la negazione ha un suo valore. Dunque “non a” non è soltanto la negazione di “a”, ma potremmo chiamarlo il complemento booleano, che è tutto ciò che “a” non è. Quindi se prendiamo “a” e tutto ciò che è “non a”, li mettiamo insieme e viene il tutto, ovviamente, e questo tutto rappresenta il momento speculativo dove il pensiero raggiunge il massimo del suo potere, e mano a mano attraverso questo metodo, che più che di una filosofia si potrebbe parlare di metodo dialettico, comunque porta allo spirito assoluto cioè al pensiero assoluto dove c’è dio per Hegel, dove non ci possono più essere contraddizioni ovviamente, perché dio non può essere auto contraddittorio. Perché a Hegel è venuta in mente questa storia? Viveva in un momento storico particolare, un momento di grandi capovolgimenti politici, economici, soprattutto politici, era il periodo vittorioso di Napoleone che impazzava per tutta l’Europa, il periodo in cui Beethoven scrisse la terza sinfonia, l’Eroica che ha scritto proprio per Napoleone. Dunque grandi capovolgimenti, allora lui voleva in tutto questo rendere conto del fatto che nella vita degli umani non avvengono, come vorrebbe descrivere la logica classica, elementi semplici e individuabili, ma l’elemento non è individuato, non è indipendente da tutto il resto, le cose, i pensieri, gli eventi sono in continuo divenire, e lui voleva costruire una filosofia che rendesse conto di questo, infatti perché poi Marx l’ha utilizzata? Proprio per questo motivo, perché dalla lotta di classe, cioè è dal conflitto tra un elemento e la sua negazione sorge il mondo che sognava Marx, cioè gli operai al potere: “lavoratori di tutto il mondo unitevi” questo è la chiusa del Manifesto del partito comunista di Carlo Marx. E quindi l’idea è partita da questo, una filosofia che rendesse conto o che avesse la possibilità di rendere conto del modo in cui effettivamente le cose accadono, del modo in cui effettivamente si pensa, e cioè si pensa tenendo conto di un elemento ma anche del suo contrario e questo suo contrario non toglie il primo, ma è come se lo arricchisse, in un certo senso, cioè aggiunge elementi anziché togliere; nella logica classica dove uno è vero l’altro è falso, non c’è via di mezzo “tertium non datur”. In tutto questo la cosa che a noi interessa è che Hegel parte dall’idea che un termine nel linguaggio naturale, nel linguaggio parlato, non è mai così identificato, preciso, univoco, come vorrebbe per esempio la logica classica, ma comprende talmente tanti altri termini a fianco da comprendere anche il suo contrario. Molto spesso quindi è l’imprecisione dei termini del linguaggio naturale che consente e ha consentito a Hegel di costruire la sua scienza logica, è ovvio che se noi prendiamo un elemento e diamo a questo elemento solo quel significato e nessun altro, è chiaro che non c’è nessun divenire. Quindi occorreva che Hegel partisse non da un linguaggio matematico formalizzato, che anzi disprezzava moltissimo, ma dal linguaggio naturale, dal linguaggio di tutti i giorni. Quindi questi personaggi di cui parla Marconi hanno tentato questo: costruire, a partire dalla Scienza della logica, una logica che fosse sufficientemente potente per essere accolta come una logica, per evitare l’accusa da parte di Popper e di molti altri che tutto il materialismo dialettico non fosse scientifico, ma fosse una dottrina, una teoria più o meno strampalata ma che non avesse né potesse avere un fondamento logico e questo era seccante. Dunque in questa raccolta ci sono i personaggi che hanno tentato di costruire una logica a partire dalla dialettica di Hegel e che in qualche modo non fosse banalizzata completamente dallo pseudo Scoto, non del tutto, in parte sì ovviamente, è chiaro che non è possibile togliere il principio di non contraddizione, si può aggirarlo in alcuni casi e adesso vedremo come, ma rimane, rimane come quell’elemento che se si incontra non consente più di proseguire. Perché è stato possibile ad alcuni, come Kosok e altri introdurre il principio di non identità cioè “a, se e soltanto se non a”? Perché se un termine in effetti è così impreciso, equivoco, ambiguo e altalenante come sono i termini del linguaggio naturale, come facciamo a dire che quando scriviamo “a e non a” queste due “a” sono le stesse, Significano la stessa cosa? Perché la “a” dovrebbe significare sempre la stessa cosa? Una “a” può essere una preposizione, può essere una lettera dell’alfabeto italiano, può essere una variabile, può essere qualunque cosa, magari non qualunque ma molte cose, quindi c’è la possibilità che queste due “a” non siano la stessa cosa. Ecco perché si riesce a introdurre, entro certi limiti, il principio di non identità, perché due termini, anche lo stesso termine, appare non essere sempre lo stesso, ci sono casi in cui non lo è, cioè la “a” non è quell’altra “a”. Jaskowski, forse il più interessante, affronta la questione dialettica in questo modo: all’interno di una discussione è possibile che si parli della stessa cosa ma in modi diversi, e quindi a questo punto non è più la stessa cosa, per cui se io la nego non mi trovo nella condizione di banalizzare tutta la discussione, perché Cesare intende una certa cosa, io ne intendo un’altra pur parlando della stessa cosa, e quindi cosa introduce dei connettivi “discussivi”, come dire che “a e non a” possono coesistere discussivamente. È ovvio che rispetto alla logica classica non possono convivere, infatti Jaskowski introduce la possibilità che siano teoremi quelli che nella logica classica non possono in nessun modo esserlo. Ma come vi dicevo sono tutti sistemi che utilizzano in vario modo e a vario titolo sempre e comunque delle limitazioni e cioè impongono dei limiti particolari. Per esempio la congiunzione discussiva non venga eliminata se uno dei due nega quell’altro, mentre nella logica classica viene eliminato uno dei due, in questo caso no. È un modo interessante? Fino a un certo punto. Sicuramente riprende un aspetto importante, e cioè la difficoltà di determinare un termine, di individuarlo. Marconi distingue tra la definizione e la stipulazione, la definizione dice come si usa normalmente un termine, quindi è difficile perché come lo si definisce? Io lo definisco così, tizio lo definisce cosà, mentre la stipulazione no, non dice come si usa un termine ma come si userà un termine.

 

È altresì chiaro che la rappresentazione, per il fatto di essere «matematica» nel senso sopra specificato, non deve necessariamente utilizzare strumenti, linguaggi, teorie matematiche date. Se Hegel intendeva sottolineare l'inadeguatezza di certe teorie matematiche di fronte alla complessità strutturale del discorso filosofico (e quindi l'incapacità di quelle teorie a modellare quel discorso) egli aveva perfettamente ragione; egli aveva ragione a ridicolizzare la miseria delle varie «caratteristiche» e «combinatorie» (non però delle idee di Leibniz al riguardo) di contro alla ricca articolazione di qualsiasi discorso naturale. Per ripetere quanto è già stato detto: formulare una rappresentazione adeguata della dialettica non significa «applicare» alla filosofia hegeliana un qualche pezzo di matematica dato, ma invece costruire un discorso che abbia certe caratteristiche, e che è matematica (nuova o vecchia, non importa) per il fatto di avere quelle caratteristiche. Se quindi l'accusa è di voler irreggimentare la filosofia di Hegel, con tutta la sua ricchezza, nelle angustie di una qualche algebra elementare, allora l'accusa è infondata.

Ma se l'accusa è di voler intendere la filosofia di Hegel da un punto di vista e con strumenti intellettuali che le sono del tutto estranei, come quelli « matematici », allora l'accusa è vuota: l'aspetto della comprensione di un discorso per cui si comprende quali sono le relazioni tra le sue varie parti (di derivazione fra enunciati che lo compongono, di costruzione secondo regole tra i suoi termini concettuali) è intrinsecamente matematico; comprendere le regole in base alle quali, in un discorso, ciò che viene prima determina ciò che viene dopo, è fare della matematica, e non può non esserlo; non si comprende come ciò potrebbe essere fatto in modo non matematico; il problema, semplicemente, non ha senso. Chiarito questo punto, occorre ripetere che, d'altra parte, il nesso fra filosofia hegeliana — dialettica hegeliana — e linguaggio naturale è di importanza fondamentale. L'ipotesi interpretativa che qui si sostiene è infatti che un meccanismo centrale all'opera nella dialettica hegeliana consista in una continua ridefinizione dei termini concettuali di volta in volta tematizzati; una ridefinizione che è guidata da, e in larga parte coincide 8 con l'esplorazione dell'articolazione sintattico-semantica con cui il termine è dato nel linguaggio naturale, di cui, naturalmente, è parte integrante la tradizione filosofica e culturale in genere. È chiaro che un'esplorazione di questo tipo è resa possibile dall'indeterminatezza sintattico-semantica del linguaggio naturale. Se infatti i termini concettuali di cui la filosofia hegeliana parla fossero dati nel linguaggio come perfettamente determinati, quella filosofia non potrebbe che riprodurre tali determinazioni, e la dialettica non si metterebbe in movimento (la filosofia non sarebbe dialettica): la logica di Hegel si identificherebbe con un dizionario concettuale. È molto importante rendersi conto del fatto che l'ipotesi della determinatezza dei termini nel linguaggio coincide con l'assunzione dell'autorità, sul linguaggio, di una teoria particolare, e quindi presuppone l'assunzione di quella teoria. Una teoria infatti si costituisce determinando il ruolo sintattico e l'area semantica dei suoi termini, cioè la forma delle formule in cui ciascun termine può occorrere (in una determinata posizione) e l'insieme dei possibili sostituti del termine (eventualmente, l'insieme dei contesti intersostituibili con i contesti in cui il termine occorre). Ciò corrisponde a dire univocamente «ciò che ciascuna cosa è»: che cosa sono i punti, gli elettroni, le cellule. Il linguaggio ordinario è caratterizzato proprio dal fatto di non assumere impegni univoci di questo genere, se non nella misura in cui esso è vincolato ad una determinata teoria. Le nostre lingue naturali sono di solito vincolate a teorie — le teorie al momento più accreditate — per quanto riguarda i termini «tecnici»: questo è infatti proprio ciò che caratterizza come tali i termini tecnici. Per il rimanente, esse non sono vincolate, né univocamente né rigidamente, a teorie, ma — come ha mostrato Wittgenstein — contengono determinazioni parziali, incerte e a volte contraddittorie, corrispondenti a usi linguistici di varia e diversa origine. In ciò consiste la «vaghezza» del linguaggio naturale.

Una conseguenza di questo rapporto tra determinatezza sintattico semantica del linguaggio naturale e assunzione di una teoria è che, per contrapposizione, una scienza che si voglia priva di presupposti non può assumere la determinatezza delle sue unità linguistiche, ma deve costituirla, e può assumere di volta in volta solo quegli aspetti di determinatezza che ha essa stessa costituito. La logica hegeliana vuole appunto essere una scienza di questo genere: in quanto non prende per buona l'autorità di nessuna scienza esistente, le unità linguistiche di cui fa usa non hanno, all'inizio, alcuna determinatezza sintattico-semantica; ma in quanto queste unità linguistiche provengono dal linguaggio naturale e si portano dietro i loro (più o meno definiti) usi ordinari e «dotti», esse giungono alla scienza già parzialmente determinate. Le «parole concettuali» di Hegel si presentano quindi circondate da un alone semantico non ben definito, la cui autorità è comunque parziale e provvisoria: esse non sono né puri segni privi di significato (= di regole d'uso), né termini ben definiti, come quelli di un linguaggio disciplinare. Sono segni accompagnati da un complesso variegato di regole d'uso, magari parzialmente incompatibili; nel confronto critico di queste regole consiste il procedimento dialettico: la considerazione di una regola d'uso (della forma «il C è (appare come, si presenta come) C'») è l'«input» del processo dialettico.

Che nella dialettica hegeliana sia all'opera un meccanismo di ridefinizione del proprio contenuto era già stato chiarito ad esempio da Ushenko [195o], che aveva considerato le determinazioni concettuali della Logica hegeliana come definizioni successive, continuamente criticate e sostituite, della totalità implicita. Simon [1957] aveva accennato a qualcosa di simile, parlando dell'inadeguatezza dell'espressione linguistica finita rispetto al contenuto della filosofia. Più chiaramente, Findlay [1958] ha messo a contrasto il modo di procedere della dialettica con quello del «pensiero ordinario», che evita la contraddizione rifiutando di applicare i suoi concetti a casi insoliti, e con quello di un sistema deduttivo, che la evita grazie alla «mera precisione delle sue astrazioni» (p. 79). Questa posizione di Findlay può essere espressa, nei termini del discorso impostato prima, come segue: il «pensiero ordinario», che si serve del linguaggio ordinario, non esplicita la determinazione sintattico-semantica delle unità linguistiche di cui fa uso, ma evita di metter capo a determinazioni incompatibili attenendosi agli usi linguistici più collaudati ed omogenei 10 (si potrebbe dire, applicando i suoi predicati alla parte meglio determinata della loro estensione); il pensiero deduttivo, d'altra parte, determina esplicitamente le unità linguistiche di cui fa uso, sia sintatticamente che semanticamente, ed evita così la contraddizione (l'estensione di un predicato, ad esempio, è determinata in modo tale che l'estensione del predicato e quella del suo opposto siano disgiunte, e, di regola, complementari). Il discorso dialettico, viceversa, rifiuta entrambe queste cautele.

Diego Marconi (a cura di), La formalizzazione della dialettica, Rosenberg & Sellier, Torino 1979, pagg. 18-20

 

Si noti che questa posizione di Kosok equivale all'affermazione che tutti i con­cetti «naturali» - cioè tutti quelli che trovano espressione in un lin­guaggio naturale - sono irriducibilmente equivoci. Pur nella sua schema­ticità, si tratta di un punto di vista molto vicino ai meccanismi di genera­zione e superamento delle contraddizioni nel testo hegeliano. E hegeliana è anche la conclusione: «le contraddizioni non devono essere considerate come catastrofi, ma piuttosto come segno che l'universo di discorso deli­mitato abbisogna di una ridefinizione di identità, per permettere l'appa­rizione dell'ambiguità e indeterminatezza che in precedenza erano state eliminate con un fiat». Quando il discorso mette capo ad una contraddizione, essa può essere eliminata scegliendo il corno dell'incom­pletezza: il concetto «contraddittorio» viene riidentificato, e la defini­zione che aveva dato luogo a contraddizione riappare come definizione del concetto in uno soltanto dei suoi sensi, quindi come determinazione incompleta del concetto. Secondo Kosok, tutto ciò trova espressione nel «principio di non-identità», (A « ~ A), che è una delle condizioni im­poste alla struttura di ciascun livello del sistema. Infatti il principio di non-identità è realizzato sia in caso di «presenza» di A e della sua nega­zione (contraddizione), sia in caso di «assenza» di A e della sua nega­zione". Imporre come condizione il principio di non-identità equivale perciò ad ammettere che ogni livello del sistema, inteso come insieme strutturato di determinazioni concettuali, è o contraddittorio o incom­pleto. Se si rifiuta la contraddittorietà come esito definitivo, l'ammissione dell'incompletezza motiva la transizione, mediata dalla riflessione, ad un livello superiore di determinazione concettuale.

Ibid., pag, 37

 

Il complemento booleano di “a” è “non a”, ma non nel senso della negazione in senso stretto ma nel senso di tutto ciò che non è “a”, cioè tutto il resto, possiamo prendere Eleonora e poi tutto il resto che non è Eleonora, cioè Eleonora e tutto il resto dell’universo.

 

Dunque l'indeterminatezza semantica è, accanto a quella sintattica ed in modo diverso da essa, fonte di contraddizioni dialettiche. Una rappresentazione formale del testo hege­liano può, probabilmente, sperare di rendere ragione delle contraddizioni soltanto in quanto esse si originano dall'indeterminatezza sintattica, nel senso che soltanto questo aspetto della generazione di una contraddizione può essere identificato con l'applicazione di regole. In quanto le contrad­dizioni si originano dall'assunzione di usi linguistici alternativi, incorpo­rati in definizioni tendenzialmente incompatibili, queste definizioni pos­sono essere tradotte in un linguaggio formalizzato, ma non derivate — se non in modo banale, cioè presupponendole — da assiomi mediante regole. Invece, una rappresentazione adeguata del testo hegeliano dovrebbe essere capace di esprimere il superamento delle contraddizioni, comunque esse siano originate; s'intende, nel duplice senso della loro conservazione della loro abolizione. È questo un punto su cui forse è già possibile dare qualche indicazione, partendo da considerazioni già fatte. Si è detto in-atti che in Hegel coesistono due tesi sulla contraddizione: per un verso, la contraddizione è il «motore» del processo dialettico perché impone di essere eliminata: da ciò si ricava che una contraddizione non può costituire l'esito finale del processo dialettico. Per l'altro verso, l'inadeguatezza "1 Nella contraddizione non deve essere confusa con la radicale falsità, che le è attribuita dall'intelletto: come analisi del concetto a cui essa inerisce, la contraddizione è adeguata, e lo è, secondo Hegel, per il fatto stesso di essere stata derivata in modo scientifico; né d'altra parte è il concetto stesso a dover essere considerato in sé scorretto (come vorrebbe Kant): (ometta sarebbe soltanto la sua pretesa di valere come esito finale del processo dialettico, cioè come auto-rappresentazione compiuta dell'Assoluto. Il movimento, ad esempio, è contraddittorio, anzi è una contraddi­zione; ciò non significa che il concetto di movimento sia da respingere (= che non ci sia movimento) in ogni senso, ma soltanto che il concetto di movimento non è l'ultima parola sulla realtà, cioè che l'Assoluto noni è determinabile in ultima analisi come movimento.

Ibid. Pagg. 42-43

 

O accettiamo che un termine ha molte accezioni e allora rimane indeterminato, se invece lo vogliamo determinare ne scegliamo uno, e tutti gli altri?

Fa un esempio: il movimento è contraddittorio anzi è una contraddizione, ciò non significata che il movimento sia da respingere cioè che non ci sia movimento, ma soltanto che il concetto di movimento non è l’ultima parola sulla realtà, cioè che l’Assoluto non è determinabile in ultima analisi come movimento, questo è l’esempio che fa lui.

 

«Due enunciati contraddittori non sono al tempo stesso veri», ma è necessario anche aggiungere: «nello stesso linguaggio», ovvero «se le parole che compaiono in questi enunciati hanno lo stesso significato». /…/ Abbiamo a che fare con un sistema di ipotesi che se analizzate in modo troppo rigoroso porterebbero a contraddizioni fra di loro oppure con una data legge riconosciuta, che però adoperiamo in maniera abbastanza limi­tata da non ottenere una falsità evidente. /…/ Di un sistema in cui ogni espressione sensata è una tesi diremo che è un sistema sovracompleto. Dicendo ciò io mi di­stacco dalla terminologia vigente: tali sistemi nella metodologia delle scienze deduttive erano fino ad ora chiamati sistemi contraddittori; per i nostri scopi però è indispensabile distinguere fra di loro due significati differenti del termine «sistema contraddittorio», e conservarlo soltanto in uno dei due significati, come specificato sopra. I sistemi sovracompleti non hanno significato pratico: nel linguaggio di un sistema sovracompleto non può essere posto nessun problema poiché in esso ogni proposizione e asserita. Formulo allora il problema di una logica dei sistemi contrad­dittori nel modo seguente: cerco un sistema del calcolo delle proposizioni, il quale i. applicato a sistemi contraddittori non comporti sempre la loro sovracompletezza, 2. sia abbastanza ricco da rendere possibile l’inferenza pratica, 3. possieda una motivazione intuitiva. Naturalmente queste con­dizioni non determinano univocamente una soluzione, dato che possono essere realizzate in grado diverso, e la realizzazione della condizione 3 è difficilmente valutabile in termini obiettivi.

Ibid., pagg. 284-286

 

Per Hegel, ne parla nella Fenomenologia dello spirito, c’è un passaggio, si passa dalla qualità che attiene all’Essere alla quantità, che invece attiene alla dialettica. Fa un esempio politico: a un certo punto dalla quantità delle cose c’è un salto, per cui cambia l’ordinamento politico, ed era questo che a lui interessava di più, non tanto che, per esempio come nella chimica, l’aumento della quantità di una certa sostanza ne determina anche la qualità, come avviene spesso, a lui interessava mostrare come di fatto quando una certa cosa si riflette nel suo opposto ma non necessariamente, e cioè attraverso un processo di movimento dialettico, si produce un elemento che non è sicuramente la somma dei due, né l’esclusione di uno dei due, è un’altra cosa appunto, è un salto qualitativo dove avviene un’altra cosa e cioè la sintesi. La speculazione interviene a produrre un’altra cosa che non è né la prima “a” né la seconda “~a”. Ciò che mantiene entrambe le cose producendo un’altra cosa che è diversa da “a” e diversa da “~a”, non è né l’una cosa né l’altra pur procedendo da queste due, perché se è una sola non succede niente, cioè se non c’è contraddizione non c’è movimento: è la contraddizione il motore della dialettica.

Era questo che volevo dirvi, non è tanto per questioni logiche che lasciano il tempo che trovano, ma per una questione prettamente retorica e cioè avere elementi in più riguardo alla questione, sì della negazione sicuramente, della contraddizione, ma anche del fatto che nel linguaggio naturale ciascun elemento, ciascun termine non è univoco, è per questo che si produce la contraddizione, perché se fosse univoco, se ci fosse soltanto la “a” oppure “~a”  non potrebbe avviarsi alcun processo dialettico. E questo è ciò che produce nel linguaggio naturale, nel dire, produce le contraddizioni. La cosa importante è appunto che “~a” non elide la prima “a”, ma è appunto il complemento booleano, cioè dice ciò che “a” non è, ma “a”, questa prima “a”, è quella che è per via di ciò che non è, e vale a dire per la totalità di cui è fatto il mondo che ha consentito di stabilire questa “a”. La lotta di classe ha questa base, c’è una lotta, la contraddizione, da questa contrapposizione: i capitalisti non possono vivere senza gli operai, è la dialettica appunto “servo – padrone”.