30 marzo 2022
Il Sofista di Platone di M. Heidegger
Siamo a pag. 597. Stavamo parlando di ciò che rende manifesto – il termine è δηλοῡν, ciò che rende manifesto qualche cosa – e il linguaggio è ciò che rende manifesto. Questo δηλοῡν, il rendere-presente scoprendo, non vi è però “prima che ὄνοματα (nomi) e ῤήματα (verbi) siano entrati in una mescolanza”. Cioè, non si manifesta niente finché i nomi e i verbi non si mescolano tra loro, cioè, non fanno un tutt’uno. È un altro modo per dire che è la relazione che produce il senso. Soltanto allora vi è λόγος, non prima. Soltanto se c’è relazione c’è λόγος. Il λόγος è relazione, ovviamente. Questo dato di fatto, la necessità della συμπλοκή (unione) di ὄνομα e ῤᾖμα, non può essere inteso come se il λόγος fosse in qualche modo il risultato di una somma di ὄνομα più ῤᾖμα giacché il fenomeno primario che precede entrambi è piuttosto il δηλοῡν stesso, il rendere manifesto. È questo rendere manifesto che accade nella συμπλοκή, nella unione di verbo e di nome, che rende il λόγος quello che è. Il λόγος è questo: un rendere manifesto attraverso la συμπλοκή, attraverso l’unione di nome e di verbo. È per questo che essi sono detti δηλωματα (i manifesti). Soltanto in virtù di ciò sussiste la κοινωνία (relazione). Il che è vero sino a un certo punto perché, in effetti, c’è una sorta di simultaneità in tutto ciò. Lui vuole ordinare le cose in una sorta di successione, anche se poi dice che non è così, non è che ci siano prima l’uno e poi l’altro e che poi si mettono insieme; avvengono nella relazione, cioè, nella κοινωνία. L’ordine della descrizione, così come Platone lo dispone a partire dall’isolamento di ὄνομα e ῤᾖμα, non è identico alla concreta strutturazione dei fenomeni. Non accade infatti che in un primo tempo ci sia un ronzare di parole isolate e che poi vengono raccolte insieme, sicché ne nascerebbe un δηλοῡν. Al contrario, è il δηλοῡν il fenomeno primario. Sta dicendo che si manifesta qualche cosa prima addirittura che ci siano il verbo e il nome; occorre che qualcosa si manifesti. C’è un’allusione, che facciamo noi perché qui non c’è, all’idea del concreto: occorre che ci sia il tutto, che ci sia il concreto perché ci siano gli astratti. Questo è il fenomeno fondamentale. E soltanto in riferimento a esso sussiste la possibilità della caduta e della decadenza, la possibilità cioè di parole isolate, pronunciate meccanicamente. Il δηλοῡν, in cui è implicita la possibilità di parlare, è una determinazione costitutiva dell’esistere stesso, che io sono solito chiamare l’essere-ne-mondo, l’In-essere. Sarebbe l’esser-ci, il Dasein. /.../ Il che significa: non vi può essere alcun λόγος che contenga meno elementi di questi; ὄνομα e ῤᾖμα sono costitutivi del λέγειν. Non è possibile separare il verbo dal nome. Come invece vuole fare la linguistica da sempre: li isola e bell’e fatto, senza accorgersi che una volta isolati sono tutt’altro da quello che voleva considerare diventano un’altra cosa perché sono inseriti in un altro λέγειν, in un altro dire. In tal modo, il λέγειν si distingue essenzialmente dall’όνομαζειν μόνον (semplice nominare)… Il λέγειν è, sì, un dire ma non è un semplice nominare le cose. …dal puro e semplice proferire parole a caso, senza che diventi visibile alcunché. Ecco, deve diventare visibile qualcosa, il λόγος fa diventare visibile qualche cosa. È quello che intendeva fin dall’inizio con ἀληθεύειν, cioè qualcosa che si rende manifesto, che si rende visibile. L’όνομάζειν in quanto tale non dischiude le cose; bensì è soltanto il λόγος che: “appronta qualcosa”. Solo nel λόγος accade che nel parlare venga fuori qualcosa, nel senso del discorso: qualcosa si mostra, si fa presente l’εἶδος dell’ente (l’immagine dell’ente). E unicamente “questo intreccio” “lo chiamiamo λόγος. Il λόγος è questo intreccio di ὄνομα e ῤᾖμα. /…/ Dunque, ciò che determina l’essere delle parole nell’unitarietà del discorso è il loro carattere dischiudente. Dischiudente, cioè, fa uscire dall’oscurità qualcosa; è poi la nozione di ἀλήθεια: dischiude, quindi mostra. E il criterio reale di distinzione di questi δηλωματα è l’unitarietà del possibile oggetto del dischiudere: πρᾶγμα - πρᾶξις. L’unitarietà di questi due elementi: πρᾶγμα e πρᾶξις, la cosa e l’agire. Questa unitarietà è importante perché ci mostra che non c’è πρᾶγμα senza πρᾶξις, e viceversa. La cosa non c’è senza l’agire, ma l’agire di cosa? L’agire del linguaggio. Sono i due elementi che Hegel chiamerà in sé e per sé: la cosa è indeterminata finché non c’è la πρᾶξις, l’agire che lo mostra, che determinandolo lo fa vedere. /…/ In tal modo, rispetto al Cratilo e al Teeteto, Platone ha conquistato la possibilità di differenziare positivamente il λέγειν rispetto all’όνομαζειν μόνον (semplice nominare). Nel nominare, nel rivolgersi alle cose nominandole, non v’è nulla che, riguardo la cosa stessa, divenga visibile. Il nominare non può mai determinare il nominato nel senso della sua concretezza reale. Il che è vero fino a un certo punto, perché quando io nomino una cosa, perché il nominarla inserisce, per chi ascolta, questa cosa in un discorso; quindi, questa cosa non è mai sola, per dirla con i termini di prima, non c’è mai πρᾶγμα senza πρᾶξις, non c’è mai la cosa senza un agire. Perciò la denominazione non ha il carattere del dischiudere. Se mai qualcosa diventa visibile nel nominare, è unicamente il modo in cui si menziona l’oggetto nominato, il suo “come si chiama”. Certo, si tratta pur sempre di un dischiudere qualcosa che prima della denominazione non era noto, ma tale dischiudere che pertiene all’esser nominato, al nome, non è ancora un dischiudere la concretezza reale della cosa stessa. Qui ci sta dicendo, anche se non lo dice, che per dischiudersi questa cosa deve essere inserita nel concreto, nel tutto, cioè, nel linguaggio. Occorre intendere che c’è una simultaneità tra questa cosa e ciò che questa cosa dice, tra il λέγειν e il τί del λέγειν τί. Quindi il nominare è comunque, in senso lato, un dischiudere, ma non è un dischiudere-la-cosa nel senso stretto del riferimento alla cosa nominata in quanto tale. Platone adopera όνομαζειν in questa duplice accezione della denominazione, distinguendola rispetto al λόγος, il quale propriamente conduce qualcosa a conclusione, rendendo autenticamente possibile un δηλοῡν. Perché dunque ci sia il δηλοῡν, il manifestarsi della cosa, qualcosa deve giungere a conclusione, deve compiersi. Cosa vuol dire che deve compiersi? Che per essere quello che è deve essere inserito nel tutto, nel concreto. Solo allora si compie, perché solo lì trova il suo compimento. È quella stessa cosa di cui parlerà Aristotele rispetto alla δύναμις e alla ἐνέργεια, alla potenza e all’atto: soltanto quando la potenza diventa atto allora la potenza è potenza, è in questo senso che è quando giunge al compimento. /…/ La seconda tappa dell’analisi del λόγος ha il compito di porre in risalto la struttura del λεγόμενον (detto) in quanto tale, cioè la costituzione propria del possibile esser-scoperto di ciò a cui ci si è rivolti:… Mi rivolgo a qualche cosa e lui si scopre. Si scopre come? Con il detto. …che aspetto abbia, che cosa in genere è detto, in quanto detto, in un λέγειν. Per questa analisi del λεγόμενον nella sua struttura, Platone si serve di una determinazione fondamentale: il λόγος è λόγος τινός… λόγος τινός è il discorso in vista di qualcosa, in relazione a qualcosa, diverso dal λέγειν τί, perché il τί è il qualcosa, è il dire qualcosa. Qui si tratta di un discorso rivolto a qualche cosa. Infatti, poi parlerà di intenzionalità riferendosi a Husserl, cioè, il λόγος τινός è il λόγος che è in relazione a qualche cosa, cioè, dico in relazione a qualche cosa. …ogni chiamare in causa è riferito a qualcosa. Questo è il modo con cui Heidegger intende il λόγος τινός: ogni chiamare in causa è riferito a qualche cosa. Comunque esso sia come λόγος, esso è sempre λόγος τινός, μή δέ τινός άδύνατον: non c’è alcun λόγος che non sia un λόγος τινός… Non esiste un discorso che non sia un discorso in vista di qualche cosa. È la prima formulazione della volontà di potenza: qualunque discorso è sempre un discorso in vista di qualche cosa, che vuole qualche cosa. Ovviamente, qui sia Heidegger che Platone non ne parlano, però è la prima formulazione: non c’è nessun λόγος che non sia λόγος τινός, cioè, che non sia un discorso che, potremmo dire molto banalmente, che vuole ottenere qualcosa da qualche cos’altro. Con ciò si è pervenuti una visione fondamentale del λόγος, anche se Platone non ne offre una compiuta elaborazione fenomenologica. Tuttavia, questo fenomeno è per lui abbastanza importante perché vi insista e lo renda decisivo per tutta la successiva storia della logica. Se un Platone non mostra alcun timore di rimarcare l’apparente banalità secondo cui un λόγος è λόγος τινός, allora essa deve pur essere di qualche importanza. Soltanto in apparenza si tratta di una ovvietà. La storia della filosofia, soprattutto quella della logica moderna e contemporanea, mostra che da tempo questa banalità è stata nuovamente dimenticata, o non più considerata. Ci si rappresenta le cose in questo modo: nella sfera psichica sono dati dei suoni verbali e quindi si connettono, per via di associazione, le cosiddette rappresentazioni generali; e tutto ciò accade nella coscienza. E allora ci si chiede come sia possibile che tali associazioni interne alla coscienza possano avere valore oggettivo per le cose che stanno al di fuori. Come so che queste cose che dico si riferiscono a quelle cose che credo siano al di fuori. Qui, tra le righe, c’è una distinzione tra la posizione teorica e quella teoretica. Quella teorica afferma cose su qualcosa, dice che le cose stanno in un certo modo; la posizione teoretica si chiede a quali condizioni siano possibili le affermazioni che vengono affermate. Questa posizione è condivisa ancora pressoché da tutti, anche dai migliori. Lo stesso Cassirer, ad esempio, non è sostanzialmente uscito da tale posizione. Quindi, non si è più fatto uso di questa conoscenza: λόγος è λόγος τινός. Heidegger si rende conto dell’importanza di questa cosa. Essa è stata riscoperta da Husserl con la sua nozione di intenzionalità. Prima vi dicevo che il λόγος τινός, il dire qualche cosa, è volere fare qualcosa: questa è l’intenzionalità. Ma che cosa voglio fare con ciò che dico? Voglio mettere in atto la volontà di potenza, voglio dominare l’ente, è questo che voglio fare, che altro dovrei volere fare? È tutt’altro che ovvio e banale tornare a vedere questo fenomeno dell’intenzionalità, accorgendosi che, partendo da esso, le strutture del λόγος tornano a farsi comprensibili. Le cose non stanno dunque così: che in un primo tempo il λόγος si presenterebbe isolato come un parlare, e che poi, occasionalmente, compaia un oggetto che di caso in caso, ma non per forza sempre, vi si possa connettere. Al contrario: ogni discorso è secondo il suo senso più proprio uno scoprire qualcosa. Si tratta poi di intendere bene perché è uno scoprire qualche cosa, ma che non esisteva prima che io lo manifestassi. In tal modo è fissata una nuova κοινωνία, quella di ogni λόγος con l’ὅν. Tale κοινωνία è già data insieme con il senso del λόγος stesso. Questa relazione è già data insieme con il λόγος, è il λόγος stesso. Per prima cosa interroghiamoci sul τί di questo τινός. Ciò non significa che ci rivolgiamo a un ente concreto, a un qualche oggetto determinato di cui appunto si discorre. E la domanda non verte nemmeno su questo o quel determinato ambito dell’essere a partire dal quale ci si può rivolgere a un certo ente. Essa concerne invece il τί di questo τινός: è la questione del λεγόμενον. Infatti, il τινός è il τινός del λόγος. È il rivolgersi a qualcosa del dire, del discorso. La struttura attuativa del δηλοῡν, dell’indicare, è stata ravvisata come determinata dal πλέγμα (plesso) dei δηλωματα, ὄνομα e ῤᾖμα. Dal plesso del manifestarsi, che è fatto di verbi e nomi. La costituzione del τί come δηλοῡμενον, come λεγόμενον, è dunque: πρᾶγμα nel come della πρᾶξις. Cioè, è la cosa nel modo in cui l’agire la mostra; senza l’agire, il dire, il πρᾶγμα non si mostra, è il linguaggio che mostra la cosa. Pertanto, il possibile λεγόμενον è anticipato, quanto al suo senso, come qualcosa in cui si tratta di qualcosa. Questo è propriamente il significato di πρᾶξις-πρᾶγμα. Il trattarsi-di-qualcosa è dunque ciò che è già anticipatamente dato in ogni λόγος conformemente al suo senso più proprio. Come dire che nel λόγος, nel dire, c’è sempre già un trattarsi di qualche cosa. E questo è anche il senso più profondo di rendere il λόγος τινός, e cioè che nel dire c’è sempre già l’essere indirizzato in una certa direzione, è già sempre posto per la volontà di potenza, ha già da sempre un suo τέλος, un suo fine. Ma la questione più interessante, che qui non è trattata molto in quanto non ci sono neanche i termini, è che soltanto questo τέλος, questo fine, che effettivamente discopre le cose, e cioè le cose sono quelle che sono in vista del fine che hanno, e il fine che hanno è la volontà di potenza; è la volontà di potenza che dà un significato alle cose. Le cose, πραγμάτα, sono tali per via della πρᾶξις, dell’agire, ma questo agire è un agire verso la volontà di potenza. E il λόγος è λόγος τινός in quanto è sempre indirizzato a un τέλος, a un suo fine, a un suo compimento. Ma cosa lo compie? Lo compie la volontà di potenza, cioè, la necessità di dominare l’ente. Platone lo connota mediante l’espressione περί οῠ (ciò di cui si parla). A ogni λόγος pertiene il περί οῠ. Si tratta di comprendere questo περί οῠ come momento strutturale del λεγόμενον… Sta dicendo che è il ciò-sui-cui del parlare che definisce il dire stesso, è questo che fa del dire il dire. E il ciò-sui-cui è sempre il dominio dell’ente. Al λόγος come rivolgersi a qualcosa è già anticipatamente data sullo sfondo l’unità di un ente, ad esempio: in un determinato momento si ode il fragore di un carro sulla strada. Io non sento rumori in un senso isolato come se stessi seduto in un istituto di psicologia sperimentale, bensì avverto il carro sulla strada. Lo ξένος vede davanti a sé Teeteto seduto. Questo elemento unitario di un intero già dato in precedenza è il περί οῠ. Sarebbe da intendere a questo punto il περί οῠ come il concreto, cioè come il mondo in cui qualche cosa può apparire. Fissiamolo: il ciò-su-cui del parlare. Nell’ambito di ciò che è dato sin da principio, il λέγειν in quanto tale mette in risalto qualcosa. Questo alcunché di evidenziato è lo ὄτου (il qualcosa). Dunque, nell’ente che è già dato, ma ancora sullo sfondo, viene messo in evidenza qualcosa,… Dal concreto appare l’astratto, viene messo in evidenza qualcosa o, per usare le parole di Heidegger, dall’essere compare l’ente. …e precisamente in modo tale che esso è inteso in quanto qualcosa, che determina il già dato. Il “già dato” è il qualcosa, che c’è già. Ma con ciò accade nel contempo che il ciò-su-cui – l’intero già dato, il carro fragoroso – viene colto a partire dal suo stesso fragore: esso, che si trova sulla strada, viene esperito e determinato in quanto fragoroso al passaggio. In questo περί οῠ è implicita dunque una duplice struttura:… Io sento un carro che fa rumore sulla strada, ma non sento il rumore, c’è già comunque; l’idea del carro che sta passando c’è già. È il mondo, direbbe Heidegger, in cui tutto ciò è inserito, e se non ci fosse il mondo, in cui tutto ciò è inserito, io non sentirei il fragore del carro, così come il bruco non sente il fragore della battaglia, perché per lui non esiste, non è qualche cosa. 1. Con esso (περί οῠ) si intende, in generale, il ciò-su-cui del discorso, nella sua interezza, l’intera datità che mi sta davanti, ancora sullo sfondo. Occorre che ci sia il concreto. 2. Non appena in tale περί οῠ viene compiuta l’evidenziazione – non appena gli viene attribuito il fragore in quanto precisa determinazione, si compie la messa in risalto del carro stesso come ciò su cui verte il discorso. il περί οῠ intende allora, in senso marcato, ciò di cui si parla. Ha detto bene: prima c’è il concreto, da cui astraggo l’idea che il sta passando. Distinguiamo pertanto: 1. Il ciò-su-cui del discorso nel suo insieme, ciò che sta sullo sfondo, 2. Il ciò-di-sui, ovvero ciò che è tematicamente evidenziato; è quello che in grammatica chiamiamo soggetto della frase. Per arrivare al soggetto della frase occorre che ci sia una frase, occorre che questa cosa sia determinata come frase, occorre che io sappia che cos’è una frase, che questa frase sia inserita in un mondo perché abbia un significato: solo allora so che cosa dice quella frase. Da qui risulta chiaro che sul piano fenomenico l’atto di mettere in risalto di un δηλοῡν, di un λέγειν, non avviene attraverso la reciproca congiunzione di due rappresentazioni, bensì a partire da un certo sostrato non tematico, tenuto presente sullo sfondo, il quale viene poi tematizzato evidenziandone l’in-quanto (in quanto sta seduto o fa rumore) e nel contempo il chi, il soggetto dell’azione (Teeteto, il carro). Sta dicendo che dal concreto io posso astrarre qualcosa, l’ente. La via non procede affatto dal soggetto, attraverso la copula, al predicato, bensì dall’intero già dato alla messa in risalto di ciò che poi chiameremo predicato, per finire con la vera e propria focalizzazione del soggetto. Si parte dall’intero, dall’agire, da ciò che agisce in questo intero e alla fine si intende il chi sta agendo in questo intero. Che è il contrario di ciò che viene insegnato sin dalle scuole elementari: c’è il soggetto, poi il verbo e, quindi, il predicato. L’analisi del τινός, del τί, nel fenomeno del λόγος τινός mostra dunque la struttura fenomenica del chiamare in causa in quanto tale: “qualcosa in quanto qualcosa”, al cui interno qualcosa che è solamente già dato viene propriamente condotto alla presenza. Tale “in-quanto”,… L’in quanto sarebbe l’astrazione, l’astrarre. …in carattere dell’in-quanto, è l’autentica categoria logica, intendendo “logico” non già nel senso tradizionale, bensì nel senso di ciò che è dato come costitutivo nel λόγος in quanto esso è un rivolgersi-a qualcosa: ciò che nel λεγόμενον costituisce la struttura del λεγόμενον come tale. /…/ Come si è detto, la terza tappa ha il compito di determinare il λόγος come ποῖος (come tale). Qui la cosa importante è che ogni λέγειν è λέγειν τί. Non si stanca mai di dirlo. Non vi è alcuna modificazione del λόγος che non lo modifichi come λέγειν τί, cioè ogni modificazione del λέγειν concerne il suo rendere manifesto. Cioè: ogni discorso è discorso di qualcosa, rende manifesto qualche cosa. Per suo effetto il δηλοῡν non diventa un niente, il λέγειν non diventa λέγειν μηδέν (discorso di nulla) – una cosa impossibile per il senso stesso del λέγειν – non si perviene a una mancanza dello scoprire, bensì: poiché il λέγειν τί, essendo una struttura costitutiva, si conserva necessariamente in qualunque modificazione del λόγος, il λόγος può essere modificato solo in direzione di un non-scoprire nel senso di un velare, del contraffare, del mettere davanti qualcosa a qualcos’altro, del non far vedere. Qui sta dicendo una cosa che per lui è importante. Dice che ogni λέγειν è λέγειν τί, cioè, dice necessariamente qualcosa; ma questo qualcosa che mostra è, sì, qualcosa che viene scoperto ma può essere modificato nel senso di un velare, di un contraffare. Questo τί del λέγειν τί può essere contraffatto, può essere modificato: gli si può parare davanti qualche cosa. Questa è la migliore delle argomentazioni che Platone ha trovato per giustificare la possibilità del λόγος ψευδός. Vedete la pochezza di questa argomentazione che dovrebbe essere centrale. Teniamo sempre conto che in tutto il Sofista quello che vuole fare Platone è ottenere un certo risultato, che è quello che dice che il sofista mente, che può esistere un λόγος ψευδός, un discorso falso. Che è il discorso che mette in atto il sofista, mentre c’è il λόγος ἀληθής, quello della dialettica. Ogni pronunciarsi e ogni parlare-su-qualcosa viene assunto assai naturalmente e innanzitutto come un δηλοῡν (manifestare). Abbiamo così, posto che il δηλοῡν possa essere modificato, le seguenti strutture: 1. Un λέγειν si dà e “c’è” come scoprimento di qualcosa. 2. Questo λέγειν può essere tuttavia in se stesso: contraffazione, può spacciare qualcosa per qualcosa di diverso da ciò che esso è. Ma in quanto esso si dà – e si dà sempre come un λέγειν τί – e però si riscontra di fatto che in certi casi esso non ci dà l’ente, allora questo λέγειν è un ingannare. Perché? Lui dice: certo, non ci dà l’ente, ma questo ente si dà. Davvero? E come si dà? Su questo punto lui ha sì detto delle cose ma ha anche spesso glissato, perché è come se l’ente – e questo è abbastanza tipico del greco – si manifestasse da sé. L’ente si manifesta da sé e, quindi, solo per questo motivo posso nasconderlo. Si mostra ma io gli metto davanti qualcosa per cui non è più quello che è: è questo che diceva prima. Non è che siano grandi argomentazioni. L’inganno è dunque possibile e come tale comprensibile se e soltanto se è compreso che λέγειν è un λέγειν τί. Il λόγος può, in quanto è λόγος τινός, può essere in se stesso falso. Così come parliamo di “banconota falsa”, che ha l’aspetto di quella autentica, ma non lo è, ugualmente c’è anche il λέγειν che spaccia qualcosa per ciò che esso non è: il λέγειν occulta se stesso, è in se stesso “falso”. Il fatto che si debba ricorrere a questi esempi, a queste analogie, denota sempre la poca potenza dell’argomentazione. Quando si ricorre all’analogia è come se si volesse sviare l’attenzione di chi sta leggendo, considerando, mostrandogli l’esempio, cioè, facendogli vedere qualche cos’altro. Che è esattamente ciò che, secondo Platone, il sofista fa: gli mette davanti un’altra cosa, lo svia, perché non stia lì a cercare il cavillo. Lo sposta con l’analogia, con il discorso simile, per cui l’attenzione si sposta da quella cosa al discorso simile e uno pensa: sì, certo, la banconota può essere falsa, esiste, banconote false ne ho viste anch’io, quindi, quello che dice è vero. No, assolutamente no, il fatto che esistano banconote false non significa assolutamente niente rispetto a ciò che sta dicendo. Ogni λόγος è in quanto λόγος un λέγειν τί, ma non è necessario che mostri ciò di cui parla, bensì può anche occultarlo in modo, certo, che questo giudizio “falso” abbia pretesa di verità. Ma è quello che sta facendo lui, è quello che lui sta mettendo in atto. Sta cercando di convincerci che si dà un λόγος ψευδός, un discorso falso, sviando di volta in volta la nostra attenzione attraverso l’analogia, attraverso un discorso che ci sposti dalla questione. Cosa vuol dire che la banconota è falsa? Già il parlare di banconota falsa significa mettere in gioco una quantità sterminata di altri elementi, che andrebbero tutti presi in considerazione. E qui dovrebbe intervenire il discorso teoretico: a quali condizioni io posso parlare di banconota falsa? Certo, il discorso teorico dice: sì, questa è una banconota falsa perché è stata stampata da pinco pallino anziché dalla Zecca. Va bene, ma a quali condizioni io posso affermare una cosa del genere, che quindi quella è una banconota falsa? Vuol dire solamente che chi la fabbrica è passibile di sanzioni; se, invece, lo fa la Zecca, no. Qui, in effetti, è Platone stesso che sta mettendo in atto ciò di cui accusa i sofisti: lo sviare. Ricordate che diceva che il sofista è difficile da prendere, sguscia via da tutte le parti. È esattamente ciò che sta facendo lui. Ne risulta chiaramente che ogni λόγος, sulla base di tale costituzione, è sempre e necessariamente in un come; esso è sempre scoprente in questo o in quel modo: scoprente o occultante, cioè ogni λόγος è ποῖος (è quello che è, è tale come è). Quindi, anche il λόγος falso è come è, anche lui è λόγος ποῖος. “Diciamo che ogni λόγος è necessariamente ποῖος, o così o così”, appunto perché è λέγειν τί. È un dire qualcosa e questo qualcosa che dice è quello. Altrettanto: “è necessario che esso sia sempre un ποῖος… Deve essere sempre in qualche modo questo τί del λέγειν τί, questo qualcosa deve sempre essere in un modo, ovviamente. Pertanto, in ogni λέγειν, in quanto esso è, è sempre già deciso come esso è dal punto di vista del suo δηλοῡν, “è impossibile che un λόγος possa essere ciò che è se esso fosse λόγος di niente”. Lo aveva già detto prima: non è possibile un λέγειν che non sia un λέγειν τί. Questa, che sembra una banalità, è importante perché vuol dire che ciascun discorso è sempre un discorso di qualcosa, su qualcosa, in vista di qualche cosa, è sempre un λόγος τινός, è sempre un dire in vista di, cioè, in relazione a qualche cosa che è, potremmo dire, la causa, ciò che mette in moto il λόγος. Potremmo addirittura spingere la cosa dicendo che è il τί che mette in moto il λέγειν. Come dire che non c’è un dire senza la volontà di potenza: la volontà di potenza è il linguaggio stesso. /…/ Adesso la domanda decisiva per noi è questa: come interpreta Platone lo ψευδός (falso) e l’ἀληθής (vero)? La risposta è, in sintesi estrema: in termini puramente dialettici; vale a dire: lungo la via dell’esibizione di una κοινωνία, e invero una che conosciamo già, soltanto che adesso tale κοινωνία, che abbiamo incontrato nella trattazione fondamentale, istituisce al tempo stesso una κοινωνία con il λόγος stesso in quanto ὅν. Questa è la risposta in sintesi estrema. In precedenza si è mostrato che ogni ὅν, ovvero ogni τί, è in κοινωνία con ταὐτον (stesso) e ἕτερον (diverso). Ogni alcunché, nel senso più ampio, è se stesso, e in quanto tale è sempre quest’uno, e non altro. Ora questo ὅν, questo τί sul quale è stata condotta la trattazione dialettica fondamentale, viene afferrato nella κοινωνία con il λόγος, ossia: l’ὅν viene ora colto come δηλοῡμενον (come ciò che si manifesta) mediante il λόγος, come λεγόμενον (detto). Il detto sarebbe ciò che manifesta questa κοινωνία, questa relazione, tra l’ente e il λόγος. Che poi anche il λόγος è un ente. Nel solco di questa nuova κοινωνία esso rimane ὅν, cioè non gli viene tolta la possibilità della κοινωνία con ταὐτον e ἕτερον, in quanto questi sono stati positivamente esibiti come διά πάντων, e ciò include pure il qualcosa nel caso in cui esso sia un λεγόμενον. Ecco, questo è il punto in cui viene attesa al varco l’obiezione del sofista secondo la quale non è detto che il μή ὅν possa entrare in κοινωνία anche con il λόγος. Di fronte all’esibizione del fatto che λόγος è λόγος τινός tale obiezione va in frantumi. Dice che questo è il punto. Sì, certo, è il punto, in effetti, perché dice che non è detto che il non-ente possa entrare in relazione anche con il λόγος. È una questione importante, perché è come se qui dicesse che il λόγος dice qualche cosa, ma ciò che è non-ente, cioè il falso, può non necessariamente essere un prodotto del λόγος, del discorso. Qui c’è il tentativo di Platone di isolare il μή ὅν, il non-ente, dal λόγος per renderlo separabile dal λόγος. Qui, in effetti, si avvicina il punto catastrofico, perché se il non-ente è qualcosa, cioè qualcosa nel linguaggio, allora vuol dire che questo non-ente è qualcosa, è il τί del λέγειν, e quindi il non-ente è un ente. Ma, come dicevamo, per la legge di reciprocità, se il non-ente è ente, allora l’ente è non-ente. Questo Platone non può in nessun modo ammetterlo e, allora, ecco che tira fuori qualunque cosa pur di scappare via, di trovare una scappatoia a questo problema. È un problema che lui non risolverà mai e che nessuno dopo di lui ha mai risolto, perché se un non-ente è un ente, perché è nel linguaggio, è il τί del λέγειν, è il λέγειν che dice qualcosa e questo qualcosa sarebbe il non-ente. Può dirlo? Sì, perché il non-ente c’è, è una cosa che lui ha già stabilita e dalla quale non può più tornare indietro; se dicesse che il non-ente non esiste, allora sarebbe d’accordo con Parmenide, cosa che lui non può ammettere perché se il non-ente non esiste, allora i sofisti avrebbero ragione a dire che non è possibile dire il falso e che ogni cosa che si dice è vera. Il che non è sbagliato: è vera e falsa simultaneamente. Però, di fronte a questo problema lui non ha vie di scampo. Il λεγόμενον, è un τί, un ὅν,… È un qualcosa, cioè, un ente. …come tale, esso sta nella δύναμις κοινωνίας (possibilità di entrare in relazione) con ταὐτον (stesso) e ἕτερον (diverso). Se il ταὐτον è presente insieme con l’ὅν (ente), ciò significa che l’ὅν è in esso stesso, è ciò che è. E questo vuol dire, riferito al δηλοῡν, che l’ὅν vi si relaziona in quanto δηλοῡμενον: l’ὅν è scoperto così come esso è in sé. Questo è il ταὐτον: è così! Se un ente è scoperto così com’è in se stesso, allora lo scoprire è un άληθεύειν (discoprente), un restituire l’ente in se stesso, senza occultamento e contraffazione: il λόγος è ἀληθής (vero). Il questo caso il λόγος restituisce l’ente così come esso è. L’άληθεύειν è dunque un λόγος τινός in cui il τί è contrassegnato dalla presenza del ταὐτον… È un λόγος dove c’è lo stesso, dove si mostra la stessità della cosa: ciò che dico è esattamente ciò che si manifesta, o viceversa. …infatti un ente viene reso visibile nella sua identità con se stesso. Ma, come è stato mostrato dialetticamente, con l’ὅν può stare in κοινωνία anche lo ἕτερον. E ciò significa innanzitutto: l’ὅν è altro da se stesso. La cosa straordinaria è come Platone abbia di fatto colto tutte le questioni connesse con il linguaggio. Il suo obiettivo è quello di metterle a tacere, di gestirle, di economizzarle, però, le coglie tutte, cioè, significa che l’ente è altro da se stesso, ma se è altro da se stesso, a rigore di termini non posso neanche parlare di ente, perché se è altro da sé di che cosa sto parlando quando parlo di ente? Sto parlando di niente, ma, come ha detto prima, è impossibile parlare di niente e, quindi, se è diverso da sé comunque è qualcosa. Questa esibizione di qualcosa come altro da se stesso non è atro che l’occultamento, la contraffazione, il rendere visibile occultando. Platone pensa di cavarsela così. Dopo avere visto che l’ente è altro da sé dice che è altro da sé perché qualcuno me lo ha occultato. E questa è la sua argomentazione, è ciò su cui si sostiene tutta la dialettica. Dunque, un λέγειν siffatto, in cui il λεγόμενον, in quanto ὅν, è contraddistinto dalla presenza dello ἕτερον, è il λόγος ψευδής. - λόγος ἀληθής e λόγος ψευδής vengono così concepiti… lo ώς ἔστιν (essere in quanto tale) è semplicemente la perifrasi del ταὐτον: li esibisce in quanto ταὐτά (la stessa cosa); la presenza del ταὐτον è costitutiva. Li esibisce in quanto ἕτερα; la presenza dello ἕτερον è costitutiva; /…/ In precedenza era stata esibita in termini affatto generali la sola possibilità della παρουσία (manifestarsi) di ἕτερον e ταὐτον nell’ὅν. Adesso, invece, è diventato chiaro che la stessa interconnessione vige anche per l’ὅν in quanto λεγόμενον (detto). Si è accorto che l’ente è qualcosa che è detto, che non è qualcosa che sta da qualche parte. Si mostra così nel λόγος in quanto λόγος τινός, ovvero nel λεγόμενον in quanto ὅν, una nuova κοινωνία… Tale κοινωνία determina la possibilità del λόγος come ποῖος, vale a dire la modalità di scoprire come vero o falso. Questa κοινωνία la chiamiamo delotica… Delotica è un termine che si è inventato lui e che viene δηλοῡν, manifestare. …la κοινωνία riguardante il δηλοῡν. In proposito si deve notare – e con ciò la nostra interpretazione si spinge oltre il dato, verso ciò che in esso è ontologicamente latente – che questo ὅν λεγόμενον è già stato connotato nella seconda tappa come περί οῠ e ὅτού: esso si è rivelato nella costituzione del qualcosa-in-quanto-qualcosa. Sono tutte argomentazioni che comunque non vanno a inficiare nulla sul fatto che il non-ente sia comunque un ente e che, quindi, l’ente è un non-ente, cosa che lui arriva a dire dicendo che l’ente è altro da se stesso. …l’ente può essere scoperto in quanto qualcosa come sé medesimo oppure come altro rispetto a ciò che esso è. Semplicemente perché c’è una relazione, una κοινωνία, tra ἕτερον e ταὐτον. Va bene, certo che c’è, ma questo non autorizza, di fatto, a eliminare l’ἕτερον a vantaggio del ταὐτον. Nel fenomeno del qualcosa-in-quanto-qualcosa l’“in quanto” significa: 1. qualcosa nella concreta determinatezza reale di qualcosa; 2. questo qualcosa, che in tal modo è già dato nella determinatezza, in quanto se stesso oppure in quanto altro. In queste argomentazioni non c’è niente che sostenga ciò che Platone vuole affermare, confortare, imporre. /…/ Questa ricapitolazione chiarisce il λόγος come σύνθεσις (sintesi), e precisamente come τοιαύτη σύνθεσις (sintesi delle cose che sono se stesse). Il τοιαύτη si riferisce alla possibile κοινωνία del λεγόμενον con ἕτερον e ταὐτον. Qui si considera solo la possibilità della κοινωνία con lo ἕτερον, in quanto ciò che importa in primo luogo è dimostrare la possibilità del λόγος ψευδής. Fa poi un elenco di relazioni possibili: quella onomatica tra nome e verbo; quella intenzionale, dove ogni λόγος è sempre un λόγος rivolto a qualche cosa; quella logica: a ogni τί del λέγειν ci si rivolge nel senso del qualcosa-in-quanto-qualcosa; infine, quella delotica, relativa al δηλοῡν: in ogni δηλοῡν, in ogni λέγειν τί, il λεγόμενον o è –diremmo noi- “identificato” come se stesso, oppure gli è messo davanti altro da se stesso; in questo modo il λόγος è diventato ingannevole, in se stesso falso. Cioè, gli si è messo davanti qualche cosa. Attraverso questa dimostrazione Platone ha raggiunto il suo scopo… Quale dimostrazione? Ha dimostrato assolutamente niente. Dice che qualcosa è vero, ma se gli metto davanti qualche cosa non è più quel qualcosa. Che razza di argomentazione è? Vi pare un’argomentazione degna di Platone? È l’argomentazione di un Platone che non sa più dove appigliarsi. /…/ …il λέγειν nel senso del διανοεῖν (pensiero) è un avere lì presente καθ’ αύτό (in se stesso) ciò a cui ci si rivolge. L’ente nel suo proprio quid, nel suo εἶδος, “c’è”, πάρεστιν (altro modo per dire che c’è) nel διανοεῖν. Il διανοεῖν è dunque un vedere qualcosa, ma non con gli occhi sensibili. Esso è caratterizzato come un vedere nel senso di: ciò che in esso è visto è presente in quanto tale. Ma l’ente può ben anche “essere presente tramite percezione sensibile”. È la fantasia: ciò che è presente sensibilmente è per Platone la fantasia, ciò che vedo è fantasia. /…/ In tal modo, dunque, la σοφιστική (la tecnica del sofista) è chiarificata come φανταστική, δοξαστική, άντιλογική τέχνη… φανταστική come la tecnica fantastica, δοξαστική, che mostra solo l’opinione, άντιλογική, attraverso le contradizioni. Il sofista è stato compreso nella sua esistenza. Con questo però – ed è il fatto decisivo – è diventato perspicuo il filosofo in quanto tale, e ciò unicamente sulla via dello stesso filosofare concreto, e non sulla scorta dell’una o l’atra cosa qualsiasi, bensì, come abbiamo sentito in 254 a 8 seg, τή τού ὅντος άει διά λογισμών προσκειμενος. È riferito al filosofo, a colui che con il ragionamento vuole puntare all’ente. Con questo abbiamo finito la lettura di questo testo, sul quale però la volta prossima faremo ancora qualche altra considerazione.