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30-3-2016

 

Eraclito di M. Heidegger

 

Eraclito è un presocratico, uno dei più noti insieme con Anassimandro e Parmenide. Questo testo l’ho preso in considerazione originariamente non tanto per la prima parte ma per la seconda, che riguarda la logica, ma la logica come la intende Heidegger, che poco ha a che fare con la logica cui siamo abituati. La logica cui siamo abituati è una logica che ha una certa funzione, la funzione è quella di trovare un criterio che consenta di stabilire quali proposizioni sono vere e quali no, a che scopo? Per potere stabilire che ho ragione. Come sapete ci sono vari tipi di logiche, però grosso modo quasi tutte sono riconducibili, non tutte ma quasi, alla logica aristotelica, la differenza fra le logiche consiste nel fatto che i criteri di verità di una logica non corrispondono ai criteri di verità in un’altra logica, cioè ciò che all’interno di una certa logica risulta vero non necessariamente risulta vero nell’altra logica, può risultare falso oppure indecidibile a seconda dei casi. Ma al di là di queste considerazioni la logica aristotelica, adesso uso questo termine per intenderci, cioè la logica tradizionale, la logica aristotelica ha questa funzione, reperire le condizioni di verità delle proposizioni e, come vi dicevo, a che scopo se non per stabilire chi ha ragione e chi ha torto? Infatti la nozione di verità che interviene nella logica aristotelica non è la nozione di verità che avevano i presocratici e di cui abbiamo visto in Parmenide e in altri scritti di Heidegger, ma è la veritas imperiale. La logica è un calcolo, un calcolo proposizionale, si calcola e si vede chi ha ragione e chi ha torto, cioè cosa è vero e cosa è falso. Stabilire i criteri di verità è ciò che ha sempre interessato gli umani. Pensate per esempio al modo in cui funziona un calcolatore, un computer, la macchina universale di Turing, non sarebbe stata pensabile ponendo la questione della verità in un modo presocratico, e cioè come ἀλήθεια, come disvelamento, come il disvelante apparire del disvelato. La distinzione tra vero e falso permea tutta la logica aristotelica, è fatta per questo, nient’altro che per questo, per calcolare chi ha ragione e chi ha torto. L’algebra di Boole è l’esempio forse più palese. Boole pensò di trasformare ogni argomentazione in un calcolo aritmetizzando i connettivi logici, in modo che qualunque argomentazione avesse una e una soluzione soltanto. Aritmetizza la negazione, stabilendo che ciò che consente di trasformare una affermazione in una negazione è l’operazione aritmetica “1 –”, infatti 1 – 1 = 0, e 1 – 0 = 1, tenendo conto che nell’algebra di Boole x=0 a condizione che x sia differente da 1 e x=1 a condizione che x sia differente da 0, cioè x è vero se non è falso, ed è falso se non è vero. Sembra una banalità ma così funziona. Quindi la negazione non è più un connettivo all’interno di un dialogo ma è diventata un’operazione algebrica. La stessa cosa per la congiunzione, qual è l’operazione che consente di manipolare questo connettivo “congiunzione”? La congiunzione è vera soltanto quando i due elementi sono veri ovviamente, se no non è più una congiunzione, se uno è vero e l’altro è falso che congiunzione è? È la moltiplicazione, sempre tenendo conto che abbiamo a disposizione solo due termini 1/0, la moltiplicazione è quell’operazione che rilascia un 1 cioè il vero a condizione che moltiplichi 1x1, se moltiplica 1x0, 0x1,0x0 sarà sempre 0 mentre 1x1 da 1. Ecco che abbiamo quell’operazione che ci consente di stabilire che la congiunzione è vera se e soltanto se sono entrambi veri i suoi due elementi, e così per la disgiunzione che è una somma logica, operazione che restituisce sempre 1 se almeno uno degli elementi è 1, per cui la somma logica sarà sempre 1 tranne nel caso in cui si sommi 0+0. L’aspetto interessante è che tutte queste operazioni sono state possibili grazie alla metafisica, cioè senza la metafisica non ci sarebbe stata la logica, logica aristotelica intendo, perché per la metafisica un elemento è quello che è indipendentemente dal contesto in cui è inserito, indipendentemente dalla struttura linguistica in cui è inserito, è quello che è e tanto basta. Per potere utilizzare la logica aristotelica occorre che ciascun elemento sia quello che è e non vari a seconda del contesto in cui è inserito, se io scrivo “se A allora B” mi aspetto che questa A sia sempre una A e non cambi in relazione al contesto in cui è inserita, e cioè sia esattamente quella che è per virtù propria. Non dico che questo sia male ben inteso, sto solo dicendo che questa è la condizione per incominciare a pensare la logica aristotelica e di conseguenza tutto ciò che ne è seguito fino ai calcolatori. Però c’è un’altra direzione, come già abbiamo visto nel Parmenide di Heidegger, che riguarda la verità, perché se per esempio io ponessi la verità il disvelarsi di qualche cosa che appare uscendo dal velato, allora è chiaro che con questa nozione non è possibile costruire la verità della logica aristotelica, non ho nessuna possibilità di stabilire chi ha ragione e chi ha torto. Αλήθεια: qualche cosa appare nel dire e appare come qualcosa di autentico, cioè come qualche cosa che comporta un domandare ancora e questo deve essere escluso dalla logica aristotelica, se scrivo “se A allora B” né la A né la B devono domandare alcunché, devono già essere la risposta, deve essere tutto lì ben chiaro preciso eccetera. Per questo vi dicevo prima che la logica aristotelica è metafisica e cioè muove dall’idea che i termini con cui ha a che fare siano quello che sono per virtù propria. Ora negli ultimi scritti di logica, da parte almeno di alcuni, appare già l’idea che questi termini non siano quello che sono in realtà per virtù propria, ma soltanto delle decisioni, cioè io decido che una certa cosa sia quella, una volta che la decido la utilizzo in quella maniera, per ogni occorrenza di quel termine lo userò in quel modo. Però l’idea è che comunque ci sia sempre alla fine di un calcolo proposizionale, per esempio, un qualche cosa che rilascia una verità che non è più soltanto connessa con il calcolo e basta, ma che indichi un qualche cosa che va oltre il calcolo stesso, cioè enunci una verità, una verità quindi che non dipende più soltanto dal gioco che l’ha costruita, non è più soltanto una verità particolare ma tende a essere una verità universale: se questi sono i termini con cui ho a che fare e queste sono le regole allora ciò che risulta dal calcolo è la verità necessariamente. In alcuni rimane questa oscillazione fra l’idea che il calcolo proposizionale enunci una verità in quanto tale o invece enunci il fatto che semplicemente, come diceva poi Wittgenstein stesso, “ho soltanto la consapevolezza di avere eseguito correttamente i calcoli in base alle regole stabilite” diceva “questa è l’unica cosa che possiamo stabilire con certezza al termine del calcolo, cioè quando arriviamo al teorema”, sì certo è una posizione interessante che può essere spinta ancora oltre. Qualunque argomentazione ha questa struttura, è un gioco, una sorta di calcolo il cui fine non è null’altro che costruire un qualche cosa alla fine del calcolo consenta di ripartire per un altro calcolo, non ha nessun’altra funzione. È una posizione che non è molto lontana da quella di Heidegger per alcuni aspetti, anche se per Heidegger la questione del calcolo è esclusa, non c’è nessun calcolo nella questione della verità così come la pone lui. Pensavo di leggere solo la parte riguardante la logica propriamente, però ci sono alcune cose che anticipano le argomentazioni che svolgerà nella logica quindi ho pensato che da una parte può essere utile avere degli elementi in più, dall’altra mi piaceva leggerlo comunque. Qui Heidegger sta lavorando sull’inizio del pensiero occidentale, si sta interrogando sull’inizio quindi sulle parole iniziali del pensiero occidentale, che sono in buona parte le parole che intervengono nei frammenti di Eraclito, come sapete anche di Eraclito ci sono rimasti solo frammenti. Pag. 28: Quanto più iniziale è il pensiero tanto più profondo è il legame che ciò che esso pensa intrattiene con la parola. (come dire che tanto più il pensiero interroga la parola iniziale tanto più questo interrogare è legato comunque alla parola, qualunque parola) Quanto più ciò che è pensato originariamente rimane custodito nella parola in modo intatto, tanto più dobbiamo custodire con la massima cura la parola che possediamo, osservarla nel suo manifestarsi. (è un invito ad avere cura della parola, avere cura della parola significa non prenderla come una cosa fra le altre cose, un ente fra gli enti ma intendere, direbbe lui, qual è l’essere, quale significati emergono più autentici, quelli che Freud cercava lungo le sue analisi, cercava questo e cioè quale fosse il significato più autentico. Più autentico significa quello che ha mosso la persona a dire le cose che ha dette e a fare le cose che ha fatte, che poi di questo si tratta) perciò è necessario conoscere nel modo più possibile preciso la forma in cui la parola di Eraclito ci è stata tramandata, se nell’ambito della storia essenziale cui appartiene la storia del pensiero non esiste la casualità allora il modo in cui ancora ci parla la parola iniziale di Eraclito deve costituire un fatto del tutto particolare. (sta dicendo “state attenti a quello che dice Eraclito che non riguarda soltanto lui ma a tutt’oggi riguarda il dire comunque”) pag. 31: La totalità dell’essente (di ciò che è, che c’è) è piuttosto caratterizzata dalla volontà di esprimersi vale a dire dalla volontà di venire a manifestarsi (cioè c’è nell’essente una sorta di volontà di venire a manifestarsi, cioè a dirsi, come dire che nelle cose c’è questa volontà di venire a dirsi. È detta in un modo un po’ antropomorfizzato, però potremmo dire che le cose essendo tali, per via che sono inserite all’interno di una struttura linguistica, queste cose non possono né non interrogare, né comunque non continuare a dire cose, non possono smettere di parlare, in questo modo potremmo intendere la volontà di manifestarsi e quindi continuare a dirsi) “Discutere” in greco διαλγεσθαι, il linguaggio della dialettica è quella parola λόγος in cui si compie il manifestarsi, faίnesθai, riassunti in un unico termine il manifestarsi dell’assoluto la cui assolutezza consiste nel volersi manifestare (questo è importante, forse è sfuggito addirittura a Heidegger, questo suo insistere sul fatto che le cose in generale insistono nel volersi manifestare, quindi nel volersi dire, già ci porta a considerare che queste cose sono all’interno di una struttura linguistica, soltanto se sono all’interno di una struttura linguistica non possono non volersi dire continuamente, se fossero fuori potrebbero anche non farlo, ma se sono dentro la struttura linguistica non possono non farlo perché sono connesse con altri elementi linguistici, in un rinvio infinito) e nel linguaggio della dialettica la fenomenologia nel senso in cui Hegel pensa questo termine (il fenomeno propriamente per quanto ci riguarda non è altro che il manifestarsi della parola, del significante) la “fenomenologia” il venire a manifestarsi nella parola della dialettica è l’essenza dell’assoluto ossia nel linguaggio di Hegel l’essenza dello spirito. Lo spirito stesso non accade in nessun altro modo che non sia quello della fenomenologia (cioè del mostrarsi del fenomeno, del venire in luce di qualche cosa) la fenomenologia è l’avvenimento più peculiare dello spirito, certamente qui non possiamo mostrare in che senso anche Schelling, che a prima vista sembra porsi in netto contrasto con la metafisica di Hegel, pensi tuttavia a partire dalla stessa esperienza fondamentale della metafisica moderna e proprio con Hegel pensi l’assoluto come ciò che si vuole rivelare, in modo tale che questa volontà non è nient’altro che l’essere dell’assoluto (l’essere come volontà di potenza, aggiunge Nietzsche) abissalmente diverso da tutto questo è invece ciò che si apre di fronte ai pensatori iniziali in quanto è ciò che è da pensare (ciò che è da pensare è il fatto che qualcosa si manifesti, che qualcosa si riveli nella parola, questo è il “da pensare”: che cosa si rivela nella parola? che cosa si sta rivelando nella parola? cosa sta accadendo mentre sto parlando? Questo è l’iniziale) Non si tratta di una volontà di manifestarsi né tanto meno di volontà, se però Hegel e in modo diverso Nietzsche hanno visto in Eraclito il loro grande precursore e antenato nel secolo XIX, nel secolo della storiografia, è accaduto un avvenimento storico le cui estreme conseguenze non si sono ancora dissolte ma il motivo risale quasi all’inizio del pensiero occidentale /…/ L’originalità di un pensatore consiste nell’aver da pensare nella massima purezza il medesimo e solo quel “medesimo” che anche pensatori precedenti hanno già pensato (che è esattamente quello che diceva prima, il “da pensare”, e cioè in che modo ciò che si manifesta si manifesta, come accade che si manifesti qualcosa? Come accade che un qualche cosa cessi di stare nel velato e si disveli, cioè come accada l’ἀλήθεια che è appunto il disvelamento. Ovviamente sto salto tante cose, volevo saltarne anche di più ma sto cercando soltanto quei passi in cui direttamente o indirettamente dice cose che interessano a noi in questo momento) pag. 37 Così il tramontare (il tramontare possiamo accostarlo al tornare nel velato, e qui c’è la differenza fondamentale tra la logica del λόγος, che lui a un certo punto incomincia a scrivere con la L maiuscolo e invece il discorso della logica aristotelica, perché ciò che si vela, lo abbiamo già visto prima con il Parmenide, non né il falso, così come lo intendiamo noi, per il greco antico non c’è questo ma è soltanto qualcosa che si svela partendo già da un velato, il velato sarebbe il falso ma pensato in questo modo non è affatto il falso della logica aristotelica, cioè ciò che si oppone al vero, ma è semplicemente qualcosa che è ancora da disvelare oppure che è tornato nel velato ma dunque c’è, non viene cancellato così come viene cancellato il falso nella logica aristotelica) “tramontare” equivarrebbe a passare nel non essere più (questo nel pensiero occidentale, nella metafisica) successo o tramonto, essere o non essere ma il tramontare pensato grecamente nel senso dell’entrare nel nascondimento (da una parte il falso, metafisicamente come cancellazione, e invece nel pensiero antico come l’entrare nel nascondimento, che non significa che non c’è più, ma è entrato nel nascondimento, cioè non è più disvelato, non è più ἀλήθεια, non è più verità ma sempre nel senso greco ovviamente) è invece un essere anzi forse è proprio l’essere pensato grecamente ed esperito nel modo iniziale, il tramontare è un diventare nascosto, un nascondimento espresso grecamente con i verbi lanq£nw (da cui anche la λήθη) qw “tramontare” e tramonta nel senso del tramonto del sole (il tramontare del sole non corrisponde affatto al suo annientamento, al non essere. Qui è sempre più marcata la differenza tra il “falso” inteso metafisicamente e invece il “tramontare”, il tornare nel nascondimento del pensare greco) ma certamente dopo Copernico il tramontare del sole è un’illusione ottica, la scienza moderna molto informata (sapete che Heidegger non aveva una grandissima stima della scienza moderna) i tramonti vanno bene solo per poeti e innamorati, al posto dell’incanto del mondo è subentrato un incantesimo di tipo diverso rappresentato dalla fisica intesa come la più elevata attività dell’uomo (qui è da intendere perché l’incanto, l’incantesimo non è quello della strega, l’incanto non è altro che rimanere sorpresi di fronte all’apparire di qualcosa, al disvelarsi di qualcosa, rimanere sorpresi e quindi interrogare ciò che sta avvenendo, che è poi di questo che si tratta) ora l’uomo si incanta con le sue stesse mani, l’uomo dell’età moderna è sottoposto ad un incantesimo, e quanto abbiamo già detto con le parole di Hegel, l’universo non può opporre nessuna resistenza alla volontà umana di renderlo accessibile (questo è il mito della fisica, che come diceva forse nel Parmenide infilza letteralmente la realtà per squartarla e per conoscerla “conoscenza, manipolazione, elaborazione dell’ente”) perciò è già dato per scontato che ciò che questa volontà vuole rendersi accessibile sia l’universo, vale a dire ciò che si indirizza verso una sola e unica direzione, “versum unun”, l’universo è ciò che si rende accessibile e si offre all’uso (vi ricordate le sue considerazioni intorno alla tecnica, come se costituisse una sorta di fondo cioè qualcosa di utilizzabile per altro) eppure Eraclito parla della stessa cosa, il suo detto non parla del tramontare ma al contrario del τ μή δνον πότε di ciò che non tramonta mai, certamente, eppure rimane da chiedersi se quel che Eraclito chiama “ciò che non tramonta mai” sia quel che Hegel pensa come ciò che si rende assolutamente accessibile da se stesso, (non è così automatico “ciò che non tramonta mai è ciò che non cessa di sorgere” che cosa sorge? L’essere, sotto forma di φύσις per lo più ma anche di ἀλήθεια, anche di λόγος) ma posto che si tratti della stessa cosa il detto di Eraclito dice comunque qualcosa di diverso, vale a dire afferma che l’uomo non potrebbe nascondersi di fronte a ciò che non tramonta mai) pag. 34 Eraclito τ μή δνον πότε pîs ¥n tis l£qoi  (la traduzione di Heidegger è questa: di fronte al non tramontare, cioè di ciò che non tramonta affatto, per sempre come potrebbe qualcuno adesso nascondersi? Quindi si chiede se la versione che fornisce Hegel sia la stessa di quella di Eraclito, le parole di Hegel erano queste: l’universo non può opporre nessuna resistenza alla volontà umana di renderlo accessibile, che è diverso da quello che, secondo Heidegger dice Eraclito, cioè che non ci si può nascondere di fronte a ciò che sorge continuamente) ma posto che si tratti della stessa cosa il detto di Eraclito dice comunque qualcosa di diverso vale a dire afferma che l’uomo non potrebbe nascondersi di fronte a ciò che non tramonta mai mentre in Hegel e nel pensiero moderno ciò che si rende accessibile è ciò che non può sottrarsi all’intervento dell’uomo (che è tutt’altra cosa) ma forse l’età moderna e l’inizio stanno tra loro in un rapporto diverso da quello di semplice opposizione, la parola iniziale esige che noi pensiamo il tramontare, il tramonto nel senso di entrare nel nascondimento (e non il tramontare come una cancellazione oppure porlo in termini fisici come un illusione ottica, che è un altro modo per non interrogare la cosa cioè per dare un significato che chiuda la questione, quindi è così e bell’è fatto, è il modo metafisico di pensare il tramonto) pag. 40: Sia dai tempi antichi così come ora e soprattutto e anche in seguito ciò che è ricercato ossia in primo luogo ciò di cui, se noi riflettiamo, non si può mai venire a capo è che cosa sia l’ente, “ti to on” si chiedevano gli antichi, che cos’è l’ente? Questo si chiede il pensatore nel tentativo esplicitamente dichiarato di determinare che cosa sia per il pensatore ciò che è, ci troviamo nuovamente di fronte a un termine che ha la forma del participio di nuovo abbiamo inteso questo participio secondo il significato sostantivato (cioè l’ente come una cosa anziché come un verbo) che è quello più ovvio e comune modo di rappresentare, secondo i termini dell’enunciazione di Aristotele ciò che il pensatore ha da pensare è tὄh l’ente, a partire da questa enunciazione possiamo anche chiederci se questa forma participiale tὄh debba essere compresa in senso sostantivizzato, in senso verbale oppure in un altro senso ancora, ma è lo stesso Aristotele ad aiutarci ad uscire da questa difficoltà, la prima frase di un altro dei suoi trattati che delinea l’ambito in cui deve collocarsi il pensiero essenziale inizia con le seguenti parole:

στν πιστήμη τίς θεωρε τ ν ν καί τ τατο πρχοντα καθ'ατ

vi è ossia esiste, secondo possibilità ed intrinseca necessità, un certo tipo di sapere che accoglie nello sguardo l’ente, in quanto esso è ente, un sapere quindi che di conseguenza accoglie nello sguardo anche ciò che è proprio di quello stesso (cioè dell’ente in quanto ente) quindi secondo questa frase di Aristotele il pensiero essenziale è un certo tipo di sapere, questo sapere ha la modalità di accogliere nello sguardo ciò che esso vuole sapere (questo è importante per quanto riguarda la distanza fra la logica presocratica e la logica aristotelica, qui dice “il sapere ha la modalità di accogliere nello sguardo ciò che esso vuole sapere”, lo accoglie nello sguardo, cosa vuole dire? Che lo accoglie come un qualche cosa che non è né vero né falso, ma lo accoglie come un tutto, un tutto che è quello che è, infatti dirà poi più avanti parlerà dell’“uno tutto” “έν πάντα εναι” l’essere in quanto uno tutto, uno tutto cioè accolto potremmo quasi dire “abbracciato dallo sguardo”, lo sguardo che cosa abbraccia se non ciò che si manifesta? Cioè quindi che si disvela, ciò quindi che viene strappato al velato). Pag. 47: Tra le prime annotazioni di Nietzsche (stiamo sempre parlando all’interno del capitolo “L’inizio del pensiero occidentale”, sono sue riflessioni intorno all’iniziale del pensiero, che non è ciò che pensavano gli antichi, anche, ma soprattutto ciò che è ancora da pensare) che dovevano servire al progetto della sua opera principale il cui titolo provvisorio era la “Volontà di potenza”, si trovano alcune osservazioni per un piano di esposizione del nichilismo europeo, l’annotazione scritta nell’85/86 inizia con la seguente affermazione: il nichilismo è davanti alla porta: donde ci viene questo che è il più inquietante fra tutti gli ospiti? Nel prosieguo dell’annotazione Nietzsche schizza in forma di appunti le “conseguenze” del nichilismo che già sono presenti, qui al punto 5 si legge: le conseguenze dell’attuale scienza della natura (sarebbe la fisica)la quale accanto ai suoi tentativi di svignarsela nell’al di là dalla sua attività segue alla fine un’autodistruzione, un rivolgimento contro di sé anti scienza, a partire da Copernico l’uomo rotola dal centro verso la X (sapete che prima di Copernico si pensava che l’uomo fosse il centro dell’universo, Copernico l’ha posto fuori, non è più la terra al centro del sistema solare in quel caso ma il sole) l’ultima frase vuol dire che il luogo in cui l’uomo si trova è da allora in poi una X, vale a dire che è un luogo ancora indeterminato e perciò deve essere determinato. La metafisica nietzscheana intende realizzare questa nuova determinazione del luogo dove si trova l’uomo (Copernico ha detto che l’uomo non è più al centro e non si sa bene dove sia, Nietzsche ha voluto invece determinare veramente la sua posizione) La terra e l’uomo di questa terra devono riconquistare il senso che è andato perduto, il senso della terra è l’oltre uomo, Übermensch, vale a dire l’uomo che va oltre gli uomini tradizionali e che esperisce tutto il reale e quindi anche se stesso come una forma della volontà di potenza. In questa configurazione ancora più moderna dell’immagine dell’uomo moderno, l’uomo non ritorna ad abitare in un centro ma diventa egli stesso e in modo definitivo il centro (prima l’uomo era al centro dell’universo ma non era il centro di tutto che era dio, poi l’ha proiettato fuori e Nietzsche lo pone come centro ma non più centro di qualcosa che gli è estraneo, ma diventa lui il creatore stesso del centro) Una frase di Nietzsche dell’88 mostra questa trasformazione con molta efficacia (e qui è Nietzsche che parla): Tutta la bellezza, la sublimità che noi abbiamo attribuito alle cose reali e a quelle immaginarie io voglio rivendicarle come proprietà e opera dell’uomo, dio come amore, come potenza o la sua regale generosità con cui ha coperto di doni le cose per impoverire se stesso e sentire se stesso miserabile, finora il suo maggiore disinteresse fu questo: ammirò e adorò e seppe nascondersi che lui stesso aveva creato ciò che ammirava (è la potenza portata all’estremo) Questo passo dice chiaramente quanto segue (questa è la interpretazione che ne dà Heidegger): tutto ciò che è in quanto è, è il prodotto dell’uomo e perciò è una sua proprietà e qui l’uomo è inteso come la forma più elevata della volontà di potenza, l’uomo è quella realtà al cui cospetto niente può rimaner nascosto, di fronte alla quale nessun ente si può sottrarre, poiché egli per primo e solo lui imprime a ogni ente il marchio dell’essere (vedete che qui c’è, e Heidegger non ha torto, una questione rispetto a Nietzsche profondamente metafisica, quando dice, riprendendo Nietzsche, che l’uomo è il padrone di tutto e che qualunque cosa, qualunque ente devono sottomettersi all’uomo, dà già la forma della fisica contemporanea, della fisica che, come diceva Heidegger, attraverso la conoscenza, la manipolazione, l’elaborazione dell’ente ha la possibilità di conoscere tutto l’universo, cioè tutta la realtà, perché è una posizione metafisica? Perché presuppone l’esistenza della realtà da conoscere, la realtà esiste di per sé, non è un prodotto di relazioni, diciamola così per farla breve, linguistiche, di operazioni di sequenze linguistiche ma c’è e noi possiamo conoscerla e il fatto di poterla conoscere garantisce che ci sia) Nella precedente annotazione sul nichilismo della scienza moderna Nietzsche biasima questa scienza perché essa talvolta cerca di fuggire nell’al di là, vale a dire talvolta parla anche di una provvidenza e di un piano universale divino, Nietzsche afferma invece il nichilismo incondizionato, quel nichilismo che non insegna che tutto è niente ma che proclama al contrario che l’uomo è tutto, Nietzsche stesso definisce la sua metafisica come nichilismo attivo, come nichilismo classico in esso vede l’autentica vale a dire la positiva conseguenza della rivoluzione copernicana e futuro dell’Europa, qui non vi è più nulla di fronte a cui uno possa ancora rimanere nascosto o evitare di nascondersi poiché l’uomo stesso è diventato il signore che ha giurisdizione su ciò che si manifesta e su ciò che proprio in quanto si manifesta è o non è. Diciamo troppo poco quindi se affermiamo ad esempio che vi è un abisso tra il compimento della metafisica occidentale ad opera di Nietzsche e il detto di Eraclito che si colloca al suo inizio ma da questo accostamento possiamo già intuire quale interpretazione di Eraclito può oggi venir fuori se Nietzsche vede preformata la sua metafisica proprio da Eraclito (dice che è chiaro che il detto di Eraclito è stato mal interpretato e travisato, se teniamo conto che Nietzsche stesso ha posto questo detto di Eraclito a fondamento della sua metafisica, dandone quindi un’interpretazione metafisica. Qui diceva: “L’uomo stesso è diventato il signore che ha giurisdizione su ciò che si manifesta e ciò che proprio in quanto si manifesta è o non è”. Cioè una giurisdizione assoluta, un controllo, quindi una potenza assoluta.