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29 dicembre 2021

 

Il sofista di Platone di M. Heidegger

 

Siamo sempre alla parte introduttiva, siamo ancora lontani dal Sofista, siamo ancora ad Aristotele. Heidegger aveva detto che facciamo il percorso a ritroso da Aristotele a Platone. Siamo sempre intorno alla questione della conoscenza, del sapere, della σοφία, del sapere assoluto, che ancora non ha detto bene cosa sia, ma ci sta introducendo. Finora sappiamo della genesi della σοφία, che essa prescinde sempre più dalla finalità pratica. Sapete che per lui la σοφία è la contemplazione, nel senso della θεωρέιν. Bisogna ora mostrare positivamente che cosa la σοφία è prefigurata quanto alla sua possibilità nell’esistere stesso, che essa è la prefigurazione di una possibilità ontologica primaria dell’esistere come tale. Quindi, è qualche cosa che riguarda ciascuno, ciascun parlante, ciascun esserci, come direbbe Heidegger. Sapete che lui preferisce parlare di esserci piuttosto che parlare di uomo, che è un termine abbastanza vago. Aristotele interpreta lo stupirsi come fenomeno originario dell’esistere, mostrando che in esso emerge la tendenza al θεωρέιν (alla contemplazione, alla teoria). L’esistere tende sin da principio al puro vedere e al semplice comprendere. Nel dire questo Aristotele fa uso di una espressione corrente nella filosofia del suo tempo, απόρειν. Απός è ciò che manca di uscita (αόρος, πόρος è la via), ciò da cui non si viene fuori. Πόρος significa in origine il guado di un fiume. πορία: l’osservazione del mondo non riesce a venirne fuori, non trova via d’uscita, con i mezzi già noti dell’ατια (la causa), con gli strumenti di spiegazione disponibili non se ne viene fuori, la via del percorso esplicativo è sbarrata. Questo sarebbe lπορία. A prima vista l’aspetto vero e proprio della cosa ci è occultato. Qui bisogna osservare che l’πορία corrisponde interamente al senso che vie attribuito all’ληθεειν (lo scoprente), cioè al modo in cui questo è inteso dall’esistere e che già abbiamo conosciuto, cioè l’ente del mondo è innanzitutto precluso e l’esistere non ne viene fuori. In questa accezione dell’ληθεειν, la cui attuazione immediata è il λόγος, si ha questa corrispondenza, ecc. /…/ Questo απόρειν, se viene compiuto espressamente, indica che non si ha scienza di quella cosa di fronte alla quale non si ha via d’uscita. Colui che non ne viene fuori e non trova via d’uscita constatando che la cosa gli è preclusa è convinto di non avere ancora una vera familiarità con la cosa, di non saperla ancora. Aristotele conclude la sua trattazione osservando “Tutte le modalità del conoscere, nel senso più ampio del termine, sono più necessarie, più urgenti per esistere rispetto alla σοφία ma nessuna è migliore”. Nell’ottica dell’ληθεειν, dello scoprimento dell’ente, il primato spetta alla σοφία. Rispetto a questa disanima relativamente superficiale della σοφία e della sua relazione con l’uomo, Aristotele possiede una comprensione assai più originaria delle questioni sollevate. La trattazione di queste difficoltà lo conduce precisamente a mostrare che la σοφία è la possibilità più alta per l’uomo. La σοφία è secondo la sua idea la conoscenza, il sapere delle cause attraverso i principi). Questa idea richiede, per quanto riguarda la questione dell’essere dell’ληθεειν, ovvero la questione del modo di essere dell’esistere: 1) la totale autosufficienza in se stesso; 2) il riferimento a ciò che è propriamente essente nel suo essere, il soggiornare presso di esso. Essa esige il libero essere rimesso a se stesso, nell’aver presente l’ente in se stesso. Si comincia ad affacciare una questione importante, comincia ad intravedere un qualche cosa che permane e che è la condizione di tutto. Tale problematica assume tutta la sua nitidezza se riferita al fatto che la σοφία è un θεων, un divino. Quando Aristotele connota la σοφία come un θεων lo fa con una finalità puramente ontologica: la metafisica non è teologia. /…/ Tutto ciò che è tema di un λόγος è in quanto tale διαιρετν (separato, particolare, astratto). Al contrario, qualora l’ente sia dato innanzitutto solo καθολοu (come intero) nel suo complesso, entro la sua modalità immediata di incontro, esso è un’accozzaglia. Rivolgersi a qualcosa e chiamarlo in causa significa articolare ciò a cui ci si rivolge. C’è qui già la questione del concreto e dell’astratto che porrà Severino: se io mi rivolgo a qualche cosa lo articolo, lo penso. Solo sulla base di questa διαίρεσις (separazione) ha luogo la σύνϑεσις (unione), che è propria del λόγος. Quindi, διαίρεσις e σύνϑεσις, separazione e unione. Il λόγος è diairetico e sintetico. Cioè: il linguaggio è qualche cosa che attiene a entrambe le cose. Se però d’altro canto la φρόνησις (l’articolare attentamente le cose da farsi) deve essere il meglio cui si aspira, allora essa deve afferrare l’ρχή di quell’ente che essa ha per tema. Cioè: deve conoscere l’origine. Ma un’ρχή, tanto più quando essa sia un’ρχή ultima, estrema, non è più qualcosa cui ci si possa rivolgere in quanto qualcosa. Il modo più appropriato di rivolgersi a un’ρχή non può essere dato dal λόγος, in quanto esso è una σύνϑεσις. Sta dicendo che c’è un qualcosa che non è accessibile al λόγος e non è accessibile in quanto è διαίρεσις, divisione, perché è un’unità, e l’unità non può essere colta se non come unità; ma per coglierla come unità deve essere fuori del λόγος, perché se è λόγος è articolazione, è discorso, è λέγειν. Un’ρχή può essere afferrata solo in se stessa e non come qualcosa d’altro. Parlando, se io dico che cos’è una certa cosa, dico che è un’altra cosa. Dice no, può essere afferrata solo in se stessa. L’ρχή è una άιδίαιρετνδιαίρεσις è la separazione, άιδίαιρετν è ciò che non è separato, cioè, come un tutto. …cioè è qualcosa il cui essere si oppone a qualsiasi sua separazione. Qui è Heidegger che parla ma si riferisce ad Aristotele. Si accorge che c’è un intero che non può essere separato, diviso, ma è un intero, e quindi andrebbe colto come tale. Poi lo vedremo, ma in effetti la questione non è fuori del λόγος, naturalmente.  La questione qui è più fine perché questo intero, questo concreto, è un qualche cosa che non dipende da altro. È questo che lui dice a modo suo, certo, dicendo che il λόγος non lo può comprendere, afferrare, e allora immagina che sia fuori del λόγος. Di fatto, non lo è, ma il fatto è che non ha una causa prima. Sta parlando del linguaggio, è questo che sta cercando di cogliere, e cioè incomincia a vederlo come quell’intero che non dipende da altro, non soltanto da sé come la σοφία. Pertanto, alla φρόνησις pertiene la possibilità di un coglimento puro e semplice dell’ρχή in quanto tale, cioè una modalità di scoprimento che si spinge più in là del λόγος. È come se questo λόγος, inteso in un certo modo, fosse insufficiente, perché il λόγος naturalmente procede per divisione e, quindi, come posso cogliere questo intero se per coglierlo devo dividerlo? Non è più l’intero. Essendo una delfiste exis (la cosa migliore da cercare) la φρόνησις deve essere di più del semplice λόγος. Ciò coincide esattamente con la posizione in cui abbiamo lasciato la σοφία. Questo tutto, questo intero, deve essere colto per quello che è, cioè come un intero, ma come? La σοφία ha di mira le ρχαι (le origini) in quanto tali. Pertanto, è vivo in essa qualcosa come il puro νόηιν (puro intelletto); infatti, l’ρχή, che è un άιδίαιρετν (non separato) non viene scoperta nel λέγειν, bensì nel νόηιν. Non viene cioè scoperta nel discorso ma nell’intelletto. In effetti, il discorso, il λέγειν - lo dirà tra poco - è qualcosa che ha a che fare con l’opinione, con la chiacchiera. C’è poi una definizione. L’ente scoperto dalla φρόνησις è la πρξις (il fare)… La φρόνησις serve al fare, serve a decidere cosa fare oppure no, rispetto alla τέχνη, alla ποίησις. In ciò è implicato l’esistere umano ovviamente, il quale è infatti determinato come ζο πρακτικ (essere che fa delle cose) ovvero, per citare la definizione completa, la zoè dell’uomo viene determinata come ζο πρακτικ μετά λόγου (vivente che fa in base al linguaggio). Scoprire l’esistere che agisce in questo momento, nell’insieme delle sue condizioni, nelle quali bisogna agire e nelle quali esso è sempre differente, scoprirlo nel suo essere di volta in volta, questa è appunto l’opera della φρόνησις. Che cosa occorre fare di volta in volta. Ma la φρόνησις non è qualcosa come uno stare a osservare le condizioni e l’azione, non è una sorta di inventario nel senso di una registrazione disinteressata, non è uno studio della situazione in cui mi sento e mi trovo. È ovvio che allude senza sapere, propriamente senza volere, alla volontà di potenza: la φρόνησις serve alla volontà di potenza, a stabilire che cosa mi è utile per superpotenziarmi, direbbe Nietzsche. Nemmeno il momento dell’interesse coglie il senso della φρόνησις; piuttosto, il discutere è parte integrante dell’azione nel suo complesso, a partire dall’ρχή, cioè da quello che voglio, da ciò per cui io mi risolvo e fino all’avvenuto compimento dell’azione stessa, la φρόνησις fa integralmente parte dell’azione. È curiosa qui la traduzione che dà di ρχή, che da sempre è stata tradotta con origine, principio. Qui Heidegger traduce ρχή con da quello che voglio. È una traduzione assolutamente singolare, nessuno l’ha mai tradotta così; lui invece traduce con “ciò che voglio”. Questo ci induce a pensare che “ciò che voglio” è, in effetti, l’ρχή, “ciò che voglio” è il principio, “ciò che voglio” è dominare, conoscere da dove arriva questa cosa, se so da dove arriva so che cos’è. Il primato della σοφία nell’ottica del riferimento all’εδαιμονία. Aristotele intende l’εδαιμονία nel senso rigorosamente ontologico come τέλος (fine). Bisogna tener fermo questo senso ontologico dell’εδαιμονία. Qui cita Aristotele. Diciamo che l’εδαιμονία costituisce la compiutezza di ciò che concerne l’essere umano. Potremmo dire così: ciò che l’umano ha da essere. Questa è l’εδαιμονία, anche se in genere viene tradotta con il vivere bene. Invece, per lui è ciò che l’umano deve diventare, deve essere. È ovvio che si riferisce alla σοφία, è questo il suo obiettivo, è questo che deve essere, è questo che deve raggiungere: deve raggiungere la conoscenza dell’intero, del tutto, la conoscenza del linguaggio. Essa, l’εδαιμονία, costituisce l’autenticità dell’essere nell’esistere umano, vale a dire nient’altro che essere presente, pura presenza presso ciò che permane. Questo, dunque, è per Aristotele l’obiettivo assoluto: essere presente in ciò che permane. Ciò che permane è l’ente nella sua enticità; quindi, essere presente all’ente. Ma essere presente all’ente non trascura tutto ciò di cui abbiamo parlato in precedenza, e cioè conoscerne l’origine e la causa. Ora, però, in quanto costituisce compiutamente l’essere, l’εδαιμονίαL’essere è compiuto quando raggiunge la σοφία. …non può essere una semplice ξις, una mera possibilità di cui si dispone, alla quale però manca l’occasione di realizzarsi, perché in tal caso potrebbe spettare a uno che dorme tutta la vita, vivendo come un vegetale. Detto altrimenti, essa non può essere una qualsiasi qualità che a volte è desta e altre volte assopita; invece, in quanto concerne l’essere dell’uomo come una compiutezza, come autenticità delle possibilità supreme di essere, l’εδαιμονία sarà necessariamente un essere dell’uomo tale da sussistere in ciascun istante per quello che è. Essa non riguarda un mero poter essere, bensì investe questo poter essere nella sua presenza, nella sua ενέργεια. Ενέργεια, cioè, in atto. È sì una possibilità, però è una possibilità che deve essere sempre in atto. Ora, ritorna sul λόγος, νος, νόηιν e διάνοειν. Il νος (intelletto) è la suprema determinazione dell’uomo tanto da dover essere concepito addirittura come il divino. La vita nel νος è un θεον (divino). Tuttavia, innanzitutto, soprattutto e per lo più, l’atteggiamento umano non si muove all’interno del puro νόηιν, bensì del διάνοειν (discutere). Poiché l’uomo parla e commenta le cose che vede, il puro percepire è sempre un discutere. /…/ La trattazione discorsiva, διάνοειν, è un parlare… Quindi, il νος, l’intelletto, è comunque sempre un διάνοειν, cioè un discutere, un parlare. Tuttavia se deve essere colta l’ρχή, tale opinare… Διάνοειν è anche opinare. …deve lasciare il λόγος dietro di sé. Esso deve essere ἄνευ λόγου (un dire separato) per avere la possibilità di affermare un άιδίαιρετν (un non separato). Occorre il separato per cogliere il non separato, occorre l’astratto per cogliere il concreto. Il carattere del λέγειν è infatti quello di cogliere qualcosa in quanto qualcosa, ma ciò che è affatto semplice non può essere affrontato discorsivamente in quanto qualche cos’altro. Ciò che è assolutamente semplice non può essere affrontato come qualche cos’altro. È il discorso che faceva prima: ci deve essere un modo per coglierla nell’intero. Il problema è che cogliere questo intero significa non articolarlo e se non lo articolo è un problema. Ogni σχατον e ogni πρτον (ogni fine e ogni inizio delle cose) può essere afferrato propriamente qualora il νόηιν non sia un διάνοειν (un’opinione), bensì un puro guardare. Il puro guardare, θεωρέιν, secondo lui, non è il λόγος e, quindi, non è una separazione, non è un qualche cosa che articola, che divide. Lo scoprire, come attività del λόγος, qui manca di cogliere nel segno e si ritrae. Questo è il tentativo iniziale di Aristotele per determinare la σοφία come un intero, come un concreto. Il problema è che deve essere colto così, ma se lo articolo, se ne parlo, questo si separa, si divide in tante cose, mentre deve essere uno. Vedete subito il problema dell’uno e dei molti, che è sempre presente. Non pertiene al λόγος di essere vero, di scoprire l’ente, di ληθεειν. Il λόγος non scopre l’ente così come è; potrebbe scoprirlo solo nel puro guardare. Ma qui il puro guardare allude alla questione posta poi da Husserl e il suo tentativo di arrivare alle cose stesse, eliminando tutto ciò che si frappone tra me e la cosa: questo era il suo mito. Chiaramente, poi, lo abbandona perché comunque, per arrivare alla cosa, ci vuole un medium, un tramite, che è il linguaggio, anche solo per potere pensare di accedere alla cosa senza intermediari. Non ogni λόγος è ποφαντικός (è disvelante); invece, ogni λόγος è σημαντικός (che significa): Aristotele tratta di ciò nel De interpretatione e dice: “Ogni discorso è in quanto discorso σημαντικός, provvisto di significato. Σημαινειν vuol dire significare, quindi ogni discorso significa qualcosa, è comprensibile. Ogni discorso ha in sé έρμηνεια, una comprensibilità, come mostra Aristotele nel De anima. Έρμηνεια vuol dire interpretazione. Perché possa darsi un’interpretazione occorre un significato, sennò cosa interpreto? Ma non in ogni discorso accade questa modalità. Significare qualcosa e insieme attraverso tale significato far vedere la cosa significata, ποφανησθαι (mostrare direttamente). Invece, un discorso che sia quanto al suo senso σημαντικός diventa ποφαντικός solo qualora in esso sia presente lo scoprire, ληθεειν, oppure il contraffare, ψεδεσθαι (da ψεδος, il falso). Infatti, non solo lo scoprire ma anche il contraffare è un far vedere. Qui comincia a porre una questione importante che riguarda il funzionamento del linguaggio; sta cioè anticipando ciò che dirà Hegel rispetto a tesi e antitesi. Adesso vedremo come. Benché lo scoprire sia il far vedere in senso proprio, non in ogni discorso dunque è presente l’ληθεειν e lo ψεδεσθαι (il mostrare e il nascondere). Pertanto, il discorso non è innanzitutto quanto al suo senso né vero né falso. Una preghiera, ad esempio, non è né vera né falsa. Dobbiamo intendere ciò in senso greco: una preghiera, in quanto preghiera, non ha innanzitutto il senso di far vedere qualcosa per cui prego. Questo è il senso greco della questione, cioè nella preghiera non c’è un significato, non c’è un vero o falso, perché non è quello l’obiettivo, di mostrare qualche cosa. Aristotele fa notare come la moltitudine dei discorsi, che sono invero comprensibili, comunicano ed orientano ma non fanno vedere alcunché. Questo pertiene alla retorica e alla poetica. Qui lui vuole porre l’accento su ciò che fa vedere. Ma il νόηιν, che si compie all’interno di un ente dotato di λόγος, è un διάνοειν, un dividere. Sussiste, pertanto, una διαπορά (divisione) tra il puro νος e il νος σνθετος (il νος che mette insieme). Il νος dell’uomo si compie sempre nella modalità del parlare. Non c’è un νος che sia fuori del λόγος, non c’è intelletto senza linguaggio. Il νος dell’uomo non è il νος in senso proprio… È necessario tener fermo che il λόγος appartiene all’essere dell’uomo poiché in esso si compie innanzitutto e per lo più l’opinare, è νόηιν μετά λόγου (intelletto nel linguaggio). Si giustifica così il fatto che Aristotele definisca le modalità dell’ληθεειν che sono state indicate, πιστήμη, τέχνη, φρόνησις, σοφία, come χεις μετά λόγου. Cioè, come cose da ricercare nel linguaggio, cose da trovare nel linguaggio. La trattazione discorsiva, διάνοειν, è un parlare. Tuttavia, se deve essere colta l’ρχή, tale opinare deve lasciare il λόγος dietro di sé; esso dev’essere ἄνευ λόγου (una parola non separata)… Perché questo principio è un tutto, è l’intero, non è divisibile, è l’Uno. …per avere la possibilità di afferrare un άιδίαιρετν (ciò che non è separato) … Quindi, una parola separata deve cogliere ciò che non è separato. Il carattere del λέγειν è infatti quello di cogliere qualcosa in quanto qualcosa, ma ciò che è affatto semplice non può più essere affrontato discorsivamente in quanto qualche cos’altro. /…/ A partire da quanto abbiamo chiarito dobbiamo pervenire a una comprensione fondamentale del rapporto di λόγος e λήθεια. Già qui è chiaro che Aristotele non parla innanzitutto di giudizio bensì di discorso e che il discorso fa vedere, è ποφαντικός, solo qualora vi accada l’ληθεειν, l’essere vero… Solo quando è scoprente. Il discorso non è il supporto primario e unico dell’λήθες, del vero; esso è invece qualcosa in cui l’λήθες può sì accadere, ma certo non per forza; il λόγος non è il luogo in cui sta di l’ληθεειν, non è il luogo in cui esso è radicato. Secondo Aristotele, almeno inizialmente, il λόγος non coglie l’intero, non fa vedere l’ρχή, l’origine. Potremmo anche porla così: il λόγος fa vedere il linguaggio? No, non lo fa vedere, il λόγος è linguaggio. Il λόγος, in quanto possiede la struttura della άποφαίνείσθαι (del qualcosa in quanto qualcosa), è tanto poco il luogo della verità da essere al contrario la vera e propria condizione di possibilità del fatto che vi sia falsità. Poiché, infatti, tale λόγος è un mostrare, che fa vedere ciò di cui parla in quanto qualcosa, sussiste la possibilità che esso venga contraffatto, che ci sia illusione dovuta proprio all’in-quanto. Qualcosa può essere contraffatto solo se viene colto a partire da qualcosa d’altro. Qualcosa può essere contraffatto solo se ne parla, cioè, se viene colto a partire da qualche cos’altro. Che è il linguaggio stesso, è il linguaggio stesso che consente di affermare o di negare qualcosa. Qualcosa, soltanto laddove l’ληθεειν si compie al modo dell’in-quanto qualcosa, solo dove l’in-quanto sia strutturalmente presente, un qualcosa in-quanto qualcosa, può accadere che qualcosa sia spacciato in-quanto qualcos’altro. Nel puro e semplice scoprire, nell’ ασθησις (percezione) come νόηιν non c’è più alcun λέγειν, non si chiama più in causa qualcosa in-quanto qualcosa; perciò qui non ci si può ingannare. In questo vedere totale e assoluto, senza mediazioni, cioè, senza linguaggio. La struttura in cui il λόγος è scoprente viene determinata da Aristotele più precisamente: se ci fermiamo alla κατάφασις (affermazione) questo è quest’altro, fin dall’inizio del discorso è dato sullo sfondo il vero. Dicendo “questo è quest’altro” sullo sfondo c’è il vero. Nella κατάφασις è implicito poiché essa è un λγειν τ κατά τινς (un dire di qualche cosa) ovvero ciò in riferimento a cui qualcosa è detto, sia fin da principio già presente. Quando io dico qualche cosa, questo qualche cosa che dico è già presente fin dall’inizio; è già presente nel mio dire, in questo λγειν τ κατά τινς, che è un dire sempre di qualche cosa, non posso dire se non dico qualcosa. La sua oggettualità è già data anticipatamente sullo sfondo. Qui si incomincia a intravedere la questione del linguaggio, dell’intero, che è questo sfondo. Potremmo dire con Severino, questo concreto da cui si staglia l’astratto.

Intervento: Mi viene in mente la radura, l’albero…

L’essere per Heidegger è quell’orizzonte dal quale si staglia l’ente. Stagliandosi l’ente, scompare l’essere. Faceva, sì, l’esempio della radura nella Foresta Nera: arriva un raggio di sole (l’essere) e illuminando fa vedere le cose. Il λόγος. Ad esempio, la lavagna è nera. Si apre in modo tale che io abbia in vista fin da principio una totalità sullo sfondo. Non vi evoca immediatamente “la lampada che è sul tavolo”? Dice Si apre in modo tale che io abbia in vista fin da principio una totalità sullo sfondo, cioè, il concreto. Lavagna nera che è un ν e un ν (un uno e un ente). Ora, che la lavagna debba essere scoperta in quanto tale, c’è un discorso che la concerne, che deve farla vedere espressamente. Ebbene, ciò accade nel dire in-quanto: la lavagna in-quanto nera. E tale dire in-quanto si attua a sua volta così: io ho in vista l’intera lavagna e articolo ciò che vedo in questo modo, lavagna-nero. Il νοήματα (intelligibili, come si diceva nel Medioevo), vale a dire ciò che è afferrato, lavagna-nero, vengono posti in risalto e l’uno è attribuita all’altra, la lavagna in-quanto nera. Questo /…/ implica una σύνϑεσις dei νοήματα (mettere insieme gli intelligibili), una certa composizione, un porre assieme le cose che si sono intese, le pongo l’una assieme con l’altro come se fossero uno solo. Compongo insieme lavagna e nero di modo che vengano visti come una unità, ho già anticipatamente in vista questa unità. Vedo la lampada, l’astratto, perché c’è questa lampada sul tavolo come concreto. Qualunque cosa io veda è un astratto che astraggo dal concreto, cioè, dal linguaggio. Infatti, dice ho già anticipatamente in vista questa unità. Il fatto di parlarne si limita a rendermi propriamente visibile quello che ho già visto, mi fa vedere la lavagna espressamente in-quanto nera. Questo è fine in Heidegger. Mi consente di vedere quello che ho già visto, mi rende visibile ciò che ho già visto. È il concreto che mi consente di vedere questa lampada – dall’esempio “Questa lampada che è sul tavolo –, questo astratto. Ciò che è dato anticipatamente viene evidenziato nell’in-quanto in modo tale da essere compreso e visto in quanto unità proprio nel passare attraverso l’articolazione che determina l’apertura. Il coglimento, nel senso del far vedere mediante il λόγος, ha dunque la struttura della σύνϑεσις (mettere insieme) e soltanto dove sia una tale σύνϑεσις, unicamente dove si presenti il carattere dell’in-quanto, soltanto lì si dà falsità. La contraffazione di qualcosa è possibile soltanto se a tale qualcosa viene messo davanti qualcosa d’altro, ad esempio, grigio, che potrebbe far vedere l’ente, la lavagna, in termini congetturali e ipotetici. Certo, la lavagna potrebbe essere grigia. Perché sia possibile contraffazione è dunque necessario che sia evidenziato ovvero posto come compresente qualcosa. Il falso, vale a dire l’avere enunciato di qualcosa ciò che esso non è c’è solo qualora vi sia una σύνϑεσις. L’ingannevole c’è sempre e solo qualora vi sia una σύνϑεσις, perché anche se mi riferisco al bianco in quanto non bianco, ha luogo un porre un non bianco assieme al bianco, il non bianco è visto in μή in composizione con ciò di cui parlo. Si potrebbe obiettare che nel μή (non) vi sia una separazione. Tuttavia, nel riferirsi al λευκόν (bianco) in quanto μή λευκόν (non-bianco) c’è appunto una σύνϑεσις. Comunque li metto assieme. Anche se lo spacciare qualcosa, in quanto qualcosa che esso non è, implica strutturalmente un σύν (insieme). L’opinare un νόημα insieme con un altro νόημα in quanto ν (uno). Σύνϑεσις e διαίρεσις, tesi e antitesi, uno e molti. Si dice che Aristotele suddivida i giudizi positivi e negativi in κατάφασις e πφασις (affermazione e negazione). Affermazione sarebbe la congiunzione di due rappresentazioni, σύνϑεσις, e la negazione separazione, διαίρεσις. Congiunzione e separazione di rappresentazioni vengono prese come strutture del giudizio positivo e negativo. Giudizio positivo mette assieme, quello negativo separa. Si tratta di un capovolgimento totale di ciò che Aristotele dice a partire dai fenomeni stessi. Entrambe, κατάφασις e πφασις, hanno il carattere della σύνϑεσις... Entrambi hanno la σύνϑεσις. …ed entrambi hanno il carattere della διαίρεσις. Σύνϑεσις e διαίρεσις sono strutture originarie. Essendo fondative stanno a monte della κατάφασις e della πφασις. Affermazione e negazione procedono entrambe dalla sintesi e dalla separazione. A questo punto sintesi e separazione sono inseparabili, sono la tesi e l’antitesi di Hegel, né più né meno. Tutto ciò che è tema di opinione ragionata o di intendimento il pensiero lo opina, lo coglie nel modo dell’affermazione e della negazione. Se esso pone in unità l’opinare in tal modo, affermando o negando, e cioè in quanto νος pone e opina, e in ciò appare appunto chiaro che κατάφασις e πφασις sono subordinate alla σύνϑεσις, allora il pensiero è vero quando scopre ed è falso quando occulta. Abbiamo citato questo passo per controbattere un errore diffuso, tanto in logica quanto nell’interpretazione di Aristotele. Si ritiene che affermazione equivalga a σύνϑεσις, congiunzione, negazione a διαίρεσις, separazione. Tuttavia, dal passo citato risulta evidente che entrambe, affermazione e negazione, il far vedere per affermazione e quello per negazione, sono σύνϑεσις. Cioè, sia affermare che negare son comunque un far vedere. E ciò vale non solo se κατάφασις e πφασις sono vere ma anche se sono false. Il falso c’è sempre e solo quando c’è una σύνϑεσις. C’è un’antitesi sempre e soltanto se c’è una tesi, per dirla alla Hegel. Perché anche se mi riferisco al bianco come non-bianco, bianco e non-bianco sono posti con ciò in unità; ogni affermazione e negazione, vera o falsa che sia, sono sempre preliminarmente una σύνϑεσις. Cioè, sono qualcosa che sta insieme. Viceversa, entrambi, il dire che afferma e il dire che nega, κατάφασις e πφασις, il far vedere affermando e il far vedere negando, sono preliminarmente una διαίρεσις (separazione). Aristotele lo dice riferendosi allo ψεδος (falso) nel seguito del passo citato del De anima: affermazione e negazione devono essere ugualmente interpretati come διαίρεσις. Il separare è anch’esso una modalità di attuazione del cogliere, del νόηιν, cioè, del tenere in vista l’ente, l’intero. Si tratta di un far vedere che preserva l’intero, di un porre l’uno insieme con l’altro. Σύνϑεσις e διαίρεσις costituiscono l’intera modalità di attuazione del νόηιν. Questo stesso, in quanto appartiene al λόγος ἔχον (al linguaggio), può essere affermazione oppure negazione. L’essenziale in queste due forme di attuazione del νόηιν è il fatto primariamente unitario di tenere in vista πρό ποκείμενον (ciò di cui si parla, ciò su cui verte il discorso). Nella σύνϑεσις viene in primo piano la circostanza per cui nel pronunciarsi l’uno e l’altro sono visti insieme, l’uno con l’altro e, quindi, nella loro interezza. Al contrario, la διαίρεσις implica che il λόγος, poiché fa vedere qualcosa in-quanto qualcosa, operi nei confronti dell’intero avvistato sin da principio, scindendolo, non però in modo che i νοήματα siano giustapposti l’uno accanto all’altro, così che li veda come unità. Si comprende l’intera dottrina del λόγος se si tiene ferma la struttura fondamentale dell’πόφασις, del far vedere e del vedere. In tale atteggiamento di fondo si compiono l’affermazione e la negazione. Sia per affermare che per negare occorre che ci sia un concreto, occorre che ci sia il linguaggio. L’uno fa vedere, l’altro nasconde, ma tanto nel mostrare quanto nel nascondere, in entrambi i casi faccio vedere ciò che è da vedere, anche se lo nascondo, perché nascondendolo, nascondo ciò che è da vedere. Vi ho mostrato che l’esser vero, lo scoprire, è un modo di essere della vita umana e si riferisce innanzitutto al mondo. /…/ Entra in gioco il fenomeno dell’λήθες (vero) in connessione con la domanda circa la determinazione fondamentale dell’ente stesso. Nonostante ciò Aristotele dice che questo ν ὡς λήθες (l’ente in quanto vero) non ricade propriamente nel tema dell’ontologia, in quanto il carattere dell’λήθες non adduce qualcosa che spetti all’ente in quanto tale, bensì che gli pertiene solo in quanto ci è. “Ci è” vuol dire che è presente, ma se è presente vuol dire che è dis-coperto. Quindi, non pertiene alla cosa in quanto tale ma al fatto della cosa in quanto scoperta, scoperta nel dire. Ovvero si fa incontro a un opinare discoprente. È però sbagliato ritenere che questo ν ὡς λήθες equivalga all’essere vero nel senso della validità del giudizio, per il fatto che Aristotele esclude l’ν ὡς λήθες dalla trattazione ontologica. Non è questo il punto. L’ν ὡς λήθες non è un essere il quale venga assunto sulla base di un processo di pensiero meramente fattuale, esso è piuttosto l’essere di quello stesso ente del quale anche le categorie costituiscono determinazioni d’essere. Ebbene, per quanto concerne le categorie, esse appartengono all’ente stesso in quanto ente, mentre l’λήθες è un carattere dell’essere dell’ente unicamente nella misura in cui questo c’è ed è lì presente per potere essere colto. Qui fa una distinzione che in Aristotele è importante, perché le categorie appartengono all’essere; l’οσία, la quantità, la qualità, ecc., tutto questo appartiene alla sostanza e, quindi, non è qualcosa che si aggiunge all’ente, ma fa parte dell’essere dell’ente. Mentre il vero no, dice, non fa parte dell’essere dell’ente, è qualcosa che c’è in quanto questo ente ci è, cioè, ci è presente. Cosa vuole dire che ci è presente? Che ne stiamo parlando, che è ciò di cui ne stiamo dicendo. Perciò qui non si parla affatto dell’essere logico, della validità o della non validità del giudizio; l’ν ὡς λήθες (l’ente in quanto vero) è invece lo stesso ente di cui si tratta anche in ontologia, l’ente del mondo. Eh sì, perché qualunque ente, per essere ente, deve essere detto, deve essere parlato, deve essere nel discorso. In un’indagine più approfondita ci imbatteremo nel fatto che Aristotele assegna anche questo carattere, questo essere al senso ultimo della trattazione ontologica. L’ν ὡς λήθες si rivelerà come carattere dell’essere nella misura in cui si fa incontro. In tal modo otterremo una visione d’insieme di ciò che significa per Aristotele essere vero. Ne risulterà che l’essere vero, disvelatezza, non ha il suo luogo nel λόγος. Ma se non nel λόγος allora, formulando in chiave positiva la domanda, dove? Da questo punto otteniamo nuovamente l’orientamento per accedere alla questione centrale del Sofista, quella dell’essere sullo ψεδος. Vi ricordate che nel Sofista tutto si incentra a partire non tanto dall’ente ma dal non-ente, dal μή ν, se esiste oppure no. Se esiste il non-ente allora esiste il falso, sennò no. Questa era la questione che ponevano anche i presocratici: qualunque cosa è vera perché se è falsa vuol dire che è un non-ente, e il non-ente non è. La trattazione del problema dell’λήθες sarà dunque ulteriormente condotta solo fino al punto di poter cogliere, a partire da Aristotele, l’istanza iniziale del Sofista.