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29 novembre 2023

 

Aristotele Analitici Secondi

 

Siamo a pag. 875. Se dunque la conoscenza scientifica dimostrativa procede da principi necessari (infatti non può darsi altrimenti che si conosca scientificamente) e le cose che ineriscono per sé ineriscono di necessità agli oggetti (infatti in un caso ineriscono agli oggetti nel loro che cos’è, mentre nell’altro sono tali da inerire nel che cos’è di ciò che è predicato di queste cose, di cui è necessario che inerisca uno o l’altro degli opposti)… Ciò che risulta necessario: ciò che gli inerisce gli inerisce necessariamente. …è manifesto che il sillogismo dimostrativo procederà da dei principi di questo genere, poiché tuto inerisce o in questo modo o per accidente, ma gli accidenti non sono necessari. Ora, o bisogna dire così, oppure porre come principio che la dimostrazione è necessaria, ossia che, se si dimostra, è tale da non poter essere altrimenti: bisogna, pertanto, che il sillogismo proceda da necessari. Come vedete, insiste molto sul necessario. Manca però un passaggio, che Aristotele non mette perché è seccante: come sappiamo che qualcosa inerisce necessariamente? Chi ce lo dice? Il fatto che qualcosa inerisca necessariamente, che lui prende come modello di necessario, come lo sappiamo, come sappiamo che qualcosa inerisce necessariamente? E questo sapere a sua volta deve essere necessario anche lui; quindi, in questo sapere ci deve essere qualcosa che inerisce a questo sapere necessariamente, e come sappiamo che questo sapere inerisce necessariamente? Il pessimo infinito si profila e si prospetta davanti a noi. E, allora, tutto ciò che emerge qui, da tutte queste pagine, dalle Categorie, dal De Interpretatione, dagli Analitici Primi e poi a maggior ragione qui nei Secondi Analitici, è il fatto che non si tratta tanto, come diceva Wittgenstein, che non esistono problemi filosofici ma problemi logici, ma che non esistono nemmeno problemi logici: la logica è il problema, che non ha soluzione. I problemi logici si risolvono sempre, basta mettere degli assiomi appositi e bell’e fatto, mentre è la logica il problema. Come so che delle cose ineriscono necessariamente? Come so che il 2 inerisce necessariamente all’1? Come lo strutturiamo questo passaggio? Cosa diciamo di questo passaggio dall’1 al 2? Come lo garantiamo? A questo punto potrebbe sorgere la domanda: perché dobbiamo garantire qualcosa? La risposta ce la fornisce Nietzsche: per dominarla, è l’unico motivo. A pag. 877. È chiaro da ciò anche che sono degli ingenui coloro che ritengono di assumere correttamente i principi, qualora la premessa sia un’opinione condivisa e vera, come pensano i sofisti quando affermano che il conoscere consiste nel possesso della conoscenza. Per noi, infatti, l’opinione condivisa non è principio, ma lo è ciò che è primo nel genere rispetto al quale si prova; e non tutto ciò che è vero è appropriato. Va bene. Ma, dice, per noi che cos’è principio? Dice ciò che è primo nel genere rispetto al quale si prova. E chi ha stabilito che è primo? È la questione di prima: come lo so? Che il sillogismo debba procedere da cose necessarie è manifesto anche da ciò che segue. Infatti, se chi non possiede la ragione del perché… διότι è il perché, l’essenza, il di che cosa è fatta questa cosa; mentre ὃτι è il che, cioè, l’esistenza. …– nonostante la dimostrazione sia possibile –, non conosce scientificamente, allora qualora si verifichi una condizione tale per cui A inerisca di necessità a C, ma il medio B, in forza del quale si dà la dimostrazione, non sia di necessità, non si conosce il perché. Infatti, la conclusione non è in forza del medio, perché questo non può essere, mentre la conclusione è necessaria. Qui ribadisce che per lui il sillogismo perfetto è quello Barbara: tre affermazioni universali. A pag. 879. Poiché, dunque, se si conosce scientificamente in modo dimostrativo, bisogna che l’inerenza sia di necessità… Di nuovo, insiste molto su questo perché sembra quasi che si renda conto che qui c’è un problema, che non va tanto bene. Inerire di necessità è quella cosa che veniva espressa in greco con la parola ύμάρχειν. …è chiaro anche che bisogna ottenere la dimostrazione in forza di un medio necessario, altrimenti non si conoscerà scientificamente né perché né che è necessario che quella cosa sia, ma o lo si riterrà senza saperlo, se si supponga necessario ciò che non è necessario, oppure non lo si riterrà nemmeno, fa niente che si conosca il che in forza dei medi o che si conosca il perché e in forza di cose immediate. Occorre che siano necessari tutti i passaggi, la maggiore e la minore, e solo allora la conclusione è necessaria. Degli accidenti non per sé, nel senso in cui sono state definite le cose per sé, non c’è conoscenza scientifica dimostrativa. Infatti, non è possibile provare di necessità la conclusione, giacché è possibile che l’accidente non inerisca: mi riferisco, infatti, a un tale accidente. Il “per sé” è ciò che appunto inerisce di necessità. Possiamo considerare che, a mano a mano che va avanti con la logica, Aristotele non fa altro che trovare problemi, dei quali non c’è soluzione, incontra continuamente problemi su problemi; e noi dobbiamo, come ci suggerisce Heidegger, provare a pensare questi problemi. A pag. 881. Dunque, non è possibile provare attraverso un passaggio da un genere ad un altro, per esempio provare qualcosa di geometrico con l’aritmetica. Sono infatti tre le cose presenti nelle dimostrazioni: una è ciò che viene dimostrato, la conclusione (questa è ciò che inerisce per sé a un qualche genere); un’altra sono gli assiomi (gli assiomi sono ciò da cui la dimostrazione procede); terza è il genere soggiacente, di cui la dimostrazione rende manifeste le affezioni e gli accidenti per sé. Ciò che è soggiacente è ciò di cui si parla, l’ύποκείμενον. Le cose da cui procede la dimostrazione possono essere allora le stesse: ma nelle discipline il cui genere è differente, come quella aritmetica e quella geometrica, non è possibile adattare la dimostrazione aritmetica agli accidenti delle grandezze, a meno che le grandezze non siano numeri. Come ciò sia però possibile in alcuni casi si dirà in seguito. Alla dimostrazione aritmetica appartiene sempre il genere su cui verte la dimostrazione, così anche alle altre discipline. Infatti, questo fu il tentativo di Gödel: mostrare la validità della matematica all’interno della matematica, non dall’esterno. Naturalmente, il tentativo è fallito; volendola mostrare all’interno, si è trovato di fronte a un problema grandissimo. Di conseguenza, è necessario che il genere sia lo stesso o in assoluto o in qualche modo, se si vuole che una dimostrazione si applichi a un altro genere. Altrimenti, è chiaro che sia impossibile, poiché è necessario che gli estremi e i medi provengano dallo stesso genere: se, infatti, non sono per sé, saranno accidenti. Di nuovo qui lui scivola via sul problema, non affronta mai direttamente il problema dell’inerenza di necessità a qualcosa, ma lo dà come acquisito, tant’è che ha detto anche prima che i principi sono indimostrabili. Per questo non si può provare con la geometria che la conoscenza scientifica dei contrari è unica, ma neppure che due cubi fanno un cubo, né si può provare quel che è oggetto di una scienza con un’altra scienza, a meno che queste cose siano in rapporto tale tra esse da essere una al di sotto dell’altra… C’è poi un capitolo interessante. È anche manifesto che, qualora le premesse da cui procede il sillogismo siano universali, è necessario che pure la conclusione di tale dimostrazione – ossia della dimostrazione, parlando in assoluto – sia eterna. Cosa vuol dire che sia eterna? Quando un’affermazione si pone come eterna? Scomodiamo Severino: è eterna quando non è soggetta a divenire, cioè, quando non diviene altro. Ma a quali condizioni non diviene altro? Qui c’è un altro problema. È un problema che va affrontato partendo da Platone e la sua ricerca attraverso la dialettica di sapere che cos’è l’ente, fantasia che si ritrova fino ad Husserl: determinare l’ente senza determinazioni. È già di per sé un paradosso, ma è esattamente ciò che Platone voleva fare. In questo modo è come se Platone avesse detto: se l’ente non ha determinazioni, che sono altro dall’ente e quindi mutano l’ente, solo a questa condizione l’ente è eterno – per Platone l’ente eterno è l’idea che sta nell’iperuranio. Quindi, solo a questa condizione l’ente è eterno, e cioè che non abbia determinazioni perché, se ha delle determinazioni, queste comportano una variazione nell’ente. E questo è stato il problema di Platone, che non voleva ci fossero determinazioni perché a questo punto ciò che abbiamo di fronte sono le determinazioni e non più l’ente. Capite che questo è il problema che Aristotele ha risolto brillantemente a proposito dell’ούσία, della sostanza, che per lui non c’è, è nulla, ci sono le categorie, c’è ciò che se ne dice. È come se avesse detto a Platone che l’ente che Platone cercava, quello senza determinazioni, non esiste, ma esistono le determinazioni, che sono ciò che diciamo: l’ente è ciò che ne diciamo, la sostanza per Aristotele è ciò che se ne dice. Quindi, parlare di eterno significa portarsi appresso questa idea: qualche cosa, per essere quella che è, deve essere senza determinazioni. E, invece, è proprio Aristotele nelle Categorie a dire che è quella che è per via delle determinazioni e che, quindi, non è eterna. Infatti, cos’è costretto a dire Aristotele? Dunque, nell’ambito del corruttibile… L’astratto per Severino. …non si dà dimostrazione né conoscenza scientifica in assoluto, ma come per accidente, perché non si dà di questa dimostrazione in universale, ma in un certo tempo e in un certo modo. Ecco qui un altro problema insolubile: la dimostrazione, per essere tale, deve essere eterna. Certo, ma come la poniamo come eterna? Perché, se la conclusione è eterna vuol dire che non è determinata, non ha determinazioni e se non ha determinazioni non è conclusione di nulla. Capite che è un problema dietro l’altro. Che cos’è qui il corruttibile per Aristotele? Sono le categorie ad essere corruttibili perché variano; infatti, la quantità varia, non è sempre la stessa non c’è un solo numero, ce n’è una serie quindi, varia, è corruttibile. Ma, allora, come mettere insieme queste cose dicendo che è necessario che la conclusione sia eterna? Ma non lo è, non può esserlo; se lo fosse non sarebbe una conclusione perché la conclusione deve la sua esistenza nel sillogismo alla premessa maggiore e a quella minore e, quindi, non è per sé. E se qualcosa deve la sua esistenza ad altro, è difficile pensarlo come eterno, ma è vincolato in questo caso alle premesse. Poiché è manifesto che non si può dimostrare qualunque cosa se non a partire dai principi di ciascuna, cioè che ciò che viene provato inerisca in quanto quella tal cosa, il conoscere scientificamente non consisterà soltanto in questo – che sia provato a partire da premesse vere, indimostrabili ed immediate. Premesse vere, indimostrabili e immediate. Non c’è qui qualcosa che suona strano? Vero e indimostrabile sono due cose che cozzano messe insieme in quel modo. Aristotele non era uno sprovveduto, ma è come se qui, soprattutto nei Secondi Analitici, facesse di tutto per arginare un problema e, cercando di arginare questo problema, immediatamente se ne presenta un altro. A pagg. 887. Conosciamo scientificamente qualcosa non per accidente, quando la si conosca in base a ciò in base a cui inerisce, a partire dai principi di quella cosa in quanto quella tal cosa… Come sappiamo che quella cosa è quella tal cosa? Non lo sappiamo, lo abbiamo deciso. A pag. 889. In ciascun genere chiamo principi le cose che non è possibile provare che sono. Allora si assume che cosa significano sia le cose prime, sia quelle che derivano da queste, mentre che sono, nel caso dei principi bisogna assumerlo, per le altre bisogna provarlo… Per esempio, quella inerenza necessaria è e tanto basta. …per esempio, cosa significa unità o cosa significano retto e triangolo, mentre per quanto riguarda l’unità bisogna assumere che è (e così per la grandezza), mentre per le altre bisogna provarlo. Una cosa è dire che cos’è l’unità, altra cosa è dire che l’unità è. È chiaro che per potere dire che cos’è l’unità occorre prima l’assunto che sia. Tra le cose che si utilizzano nelle scienze dimostrative, alcune sono proprie di ciascuna scienza, altre comuni, e comuni lo sono per analogia, dal momento che tali cose sono utili in quanto si trovano nel genere che si trova sotto la scienza. Un esempio delle cose proprie è dire che una linea è tale, e così il retto; delle cose comuni, che qualora si sottraggano uguali da uguali, rimangono uguali. Ciascuna di queste è sufficiente in quanto si trova nel genere: infatti, sarà lo stesso, qualora si assuma non dio ogni oggetto, ma soltanto delle grandezze, o dei numeri nel caso di chi fa aritmetica. Sono proprie anche le cose che si assume che siano… Noi assumiamo che siano. Questo sarebbe il suo modo di “risolvere” il problema dell’inerenza. Come sappiamo che una certa cosa inerisce necessariamente, che è propria? Si assume che lo sia. …rispetto a cui la scienza considera le cose che ineriscono per sé, come l’aritmetica fa per le unità e la geometria per i punti e le linee. Infatti, queste scienze assumono di queste cose l’essere e l’essere questa cosa qui. Assumono poi gli accidenti per sé di queste cose, cosa significhi ciascuno, per esempio l’aritmetica spiega cosa significhino dispari, pari, quadrato o cubo, mentre la geometria cosa significhino l’irrazionale, l’essere spezzato o l’essere inclinato. Così fa anche l’astronomia. A pag. 893. Così come la scienza non assume neppure cosa significhino le cose comuni (come il sottrarre uguali a uguali), poiché sono note. Tenendo conto del rigore di Aristotele, qui ma non soltanto, un’uscita del genere risulta strana: da dove arriva questo sapere? Viene da pensare che ogni volta la risposta a questa domanda porti direttamente alla δόξα, Aristotele scivoli via, come a non volerne parlare. Non è invece un’ipotesi né un postulato ciò che è necessario che sia – e che è necessario ritenere che sia – in forza di sé. Abbiamo visto di che cosa è fatto questo “in forza di sé”. Infatti, la dimostrazione non è indirizzata al discorso esterno, ma a quello che ha luogo nell’anima, dal momento che non è neppure il sillogismo. La dimostrazione è indirizzata all’anima. Cosa vuol dire? È come se ciascuno in cuor suo sapesse come stanno le cose, ma lo sa come? Perché lo ha detto la nonna; ecco perché lo sa, sennò non lo saprebbe. Infatti, è sempre possibile muovere obiezioni al discorso esterno, ma non sempre al discorso interno. È possibile muovere un’obiezione a un discorso, ma a un convincimento proprio è difficile muovere obiezioni, anzi, non si muovono mai perché, se sono convinto, è perché è così. Allora, qualsiasi cosa assuma chi conduce la dimostrazione senza provarla, sebbene sia possibile provarla, questa è ipotizzata, qualora assuma qualcosa che è creduto da chi apprende – e non si tratta di un’ipotesi in senso assoluto, ma soltanto rispetto a quel determinato uomo – questa, invece, è postulata, nel caso in cui assuma la stessa cosa senza che chi apprende ne abbia alcuna opinione, o addirittura ne abbia una contraria. Proprio in questa ipotesi e postulato differiscono: un postulato è, infatti, contrario all’opinione di colui che impara, oppure ciò che colui che dimostra assume e utilizza senza provarlo, pur essendo dimostrabile. Non è che uno si mette lì a dimostrare tutti i postulati… anche se dovrebbe. I termini, poi, non sono ipotesi, perché non sono detti essere o non essere nient’altro, le ipotesi si trovano invece fra le proposizioni, mentre i termini vanno solo compresi. A pag. 895. Qui è contro Platone. Se deve esserci dimostrazione, non è necessario che vi siano le Forme… Le Forme, εἶδος, di Platone: la Forma che sta lassù e che informa le cose di quaggiù. …o un qualcosa di unico oltre i molti, ma è necessario che si dica con verità che c’è qualcosa di unico dei molti. Quando ho letto questo passo sono rimasto un po’ così. Cosa ci sta dicendo qui Aristotele? È necessario che si dica con verità che c’è qualcosa di unico dei molti. È chiaro che la prima cosa che mi è venuta alla mente è Eraclito: ἒν πάντα εἰναι, l’uno è i molti. Ci sta forse dicendo – lo dico io, non Aristotele – che è questo il problema della logica, l’uno e i molti, e che non c’è modo di mettere insieme l’uno e i molti perché l’uno è i molti. Per dire l’uno si dicono i molti, ma questi molti sono uno, perché sono quelli. Il problema della logica è il problema del linguaggio. Infatti, non ci sarebbe l’universale, se non ci fosse questo: ma se non ci fosse l’universale, non ci sarebbe il medio, e di conseguenza neppure la dimostrazione. Bisogna dunque che ci sia un qualcosa di unico, lo stesso di molti, riferito in senso non omonimo. In poche parole, qui sta, in effetti, ponendo il problema della logica, problema che, però, consente anche alla logica di costruire sillogismi perché, se questo uno non fosse fatto di molti, il medio dove lo trovo? Come approccio l’uno, in qualunque modo sia, immediatamente l’uno mi si presenta come molti e, presentandosi come molti, scompare l’uno, ma tutti questi li trasformo in universale e diventano uno, ma scompaiono i molti. È in questa oscillazione continua, dove si tenta di tenerli separati, che sorge il problema insormontabile, che Eraclito aveva già risolto dicendo che l’uno è i molti. Noi possiamo parlare perché l’uno è molti; altrimenti, non potremmo parlare, non ci sarebbe nessuna possibilità; è perché di fronte all’uno ci troviamo di fronte ai molti. Per poterlo fare uno, già solo per potere fare questo, devono esserci i molti. Di nuovo il problema di Platone rispetto all’ente: come lo determino senza i molti, cioè, senza tutte le determinazioni? Non posso fare niente. Qui Aristotele si trova di fronte al problema che non riesce a risolvere perché, dice, non ci sarebbe l’universale se dei molti non faccio uno – l’universale è fare uno di molti. Dice che non ci sarebbe l’universale se non ci fosse questo, ma se non ci fosse l’universale non ci sarebbe il medio. Il medio è qualcosa che procede dall’universale perché, se tutte le A sono B, questo non mi fa concludere niente, non mi serve a niente, non mi fa concludere che tutte le A sono C, ma è il medio che mi consente di concludere. Quindi, occorre che ci sia qualcosa di unico e che ci siano i molti. Qui siamo proprio al nucleo della questione: tutta la logica non è altro che un modo di elaborare, di cercare di gestire il problema dell’uno e dei molti. Per questo motivo è un problema continuo. Nessuna dimostrazione assume che non sia possibile affermare e negare qualcosa allo stesso tempo, a meno che essa non debba provare che anche la conclusione è così. E tale cosa si prova quando si assume che il primo termine è vero del medio, mentre non è vero negarlo. Non fa nessuna differenza che si assuma che il medio sia e non sia, così come lo stesso vale per il terzo termine. Se, infatti, è stato dato ciò secondo cui si dice con verità “uomo”, anche se si dice con verità di esso pure “non uomo”, se però “uomo” fosse solo “animale”, e non “non animale”, sarà possibile dire con verità “Callia”, anche se “non Callia”, e ugualmente “animale” ma non “non animale”. Qui è un po' contorto, ma sta dicendo soltanto questo: quando io dico con verità “uomo” dico con verità anche “non uomo”, cioè, ciò che non è uomo. Perché questo? Perché dicendo con verità “uomo” lo pongo come uno, ma per potere dire che è “uomo” è necessario che questa cosa venga determinata, e come la determino? Con i molti, cioè, con la sua negazione, e qui siamo a Hegel, alla Aufhebung. Tutto questo procede dal fatto che ci ha detto prima, e cioè che bisogna che ci sia qualcosa di unico, lo stesso di molti.

Intervento: A mano a mano che si va avanti sembra costretto a determinare sempre di più-

Sì, perché più le cose gli scappano di mano e più deve determinarle. Direbbe Nietzsche che il depotenziamento costringe a un superpotenziamento continuo.

Intervento: È una discesa sempre più nel particolare.

È una discesa negli inferi perché non ne viene più fuori.

A pag. 903. D’altra parte, qualora la premessa sia induttiva, non si deve opporre a ciò un’obiezione. Infatti, così come non si ha una premessa a meno che non si dica di più cose (infatti, non si dirà di tutte e, d’altronde, il sillogismo si ha da universali), è chiaro che neppure si avrà un’obiezione. Infatti, premesse e obiezioni sono le stesse, poiché ciò che un’obiezione oppone potrebbe diventare una premessa dimostrativa o dialettica. Dice che di fronte all’induzione non puoi obiettare niente perché, se obietti, non vai da nessuna parte. Lo aveva già detto nella Metafisica quando, cercando il principio primo, trova la δόξα; diceva che è inutile andare avanti, non si può trovare un’obiezione a questo perché l’obiezione non risolve niente; se andasse avanti troverebbe altra δόξα e poi altra δόξα, e così via all’infinito. Quindi, è impossibile obiettare qualcosa all’induzione: obiettando qualcosa all’induzione si obietta qualcosa alla possibilità stessa di costruire sillogismi. Se fosse impossibile provare cose vere a partire da cose false, il procedere nell’analisi sarebbe facile, infatti ci sarebbe conversione di necessità. Poniamo infatti che A sia; se questo è, allora quelle cose – come per esempio B -, che so che sono, sono. Cioè, pongo che “se A allora B”, ma A, dunque B, modus ponendo ponens dei medioevali. La conversione opera più di frequente nelle argomentazioni delle matematiche, poiché esse non assumono niente per accidente… Si sa che le matematiche sono eterne, che ogni affermazione matematica si pone come eterna. E, infatti, non ha nessuna dimostrazione: che 1 + 1 faccia 2 non ha propriamente una sua dimostrazione. Certo, si è tentato di fare qualcosa, ma alla fine non si sa perché deve accadere questo e, infatti, Peano poneva tutte queste cose come idee primitive.

Intervento: Il numero quante determinazioni ha? Tutto sommato, se si pensa all’ente come indeterminato, irrelato, a sua volta il numero si presta molto bene.

Sì, è vero. Il numero come irrelato. Prova a togliere a un numero qualunque tutti gli altri numeri che esistono, che succede a quel numero? Quel numero non esisterebbe, quindi, deve essere relato; se lo prendiamo come irrelato, scompare anche lui. Nel libro di Giamblico, Il numero e il divino, il numero è considerato divino; è il divino di Plotino – Giamblico era allievo di Plotino – e cioè il numero viene da questo Uno, che è quello che è per virtù propria.