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29 novembre 2017

 

M. Heidegger, Essere e Tempo

 

Siamo a pag. 410. L’interpretazione temporale della comprensione e della situazione emotiva non coinvolge soltanto l’estasi di volta in volta primaria per il fenomeno in questione, ma sempre anche la temporalità intera. Come l’avvenire rende primariamente possibile la comprensione, e l’esser-stato rende possibile la tonalità emotiva, così il terzo momento strutturale costitutivo della Cura, la deiezione, ha il suo senso esistenziale nel presente. Cosa ci sta dicendo qui? Una cosa che, se letta attentamente, è interessante e possono esserci una serie di implicazioni. Sta dicendo che queste estasi, questo essere gettati fuori, costituiscono la forma del tempo. Per esempio, l’essere gettati innanzi, l’essere progettati, è la forma del futuro, ciò che noi chiamiamo futuro; l’esser stato, ciò che da sempre l’Esserci è e che è sempre stato, invece, è quella cosa che noi chiamiamo il passato. La deiezione, che non è altro che l’avere a che fare con ciò che si presenta nell’immediato, ha a che fare con il presente. Sono dei modi con cui gli umani costruiscono queste figure: futuro, passato e presente. Queste tre forme si potrebbero anche intendere come delle figure retoriche, anche se mi rendo conto che è un po' forte la cosa. Ci sta dicendo che queste tre forme, queste tre figure, sono costruite dall’esser gettati innanzi, dall’esser sempre stato e dalla presentificazione della deiezione. Costruzioni, quindi. Come dire ancora che presente, passato e futuro non esistono di per sé, da nessuna parte, sono delle costruzioni. E così anche il tempo è una costruzione, non c’è di per sé, non ha la sua esistenza da qualche parte. Cosa che, certo, sapevamo ma è interessante anche per qualche altro motivo. Questo forte accento che Heidegger pone sulla temporalità, sulla storicità dell’Esserci, è un accento che pone su qualche cosa che è costruito, che non c’è di per sé. In effetti, da qualche parte, dice che senza l’Esserci non c’è nessun tempo. Il tempo è una costruzione, è qualche cosa che appartiene all’Esserci, appartiene cioè all’uomo, è l’uomo che si inventa il tempo, per suo uso e consumo. Lui inserisce la questione della temporalità come qualche cosa di decisivo rispetto all’Esserci. Dicevamo, infatti, che potremmo scrivere in questo modo: “Essere è tempo”. Però, se questo tempo è una costruzione, cioè appartiene all’Esserci, quindi, all’uomo, dire che l’essere “è” tempo è come dire che l’essere è qualcosa che è costruito dall’uomo, non c’è senza l’Esserci, cioè, senza l’uomo. Questo è un problema nella teoria di Heidegger. Lui si è sempre posto a distanza dall’umanismo, anche con la famosa lettera contro Sartre. Dicevano che lui era un esistenzialista ma lui l’ha sempre negato, lui non ha messo l’uomo in prima istanza, come fa l’esistenzialismo che pone l’esistenza dell’uomo, ma l’essere, l’essere dell’Esserci. Il fatto è che questo essere dell’Esserci non può darsi appunto senza l’Esserci, cioè, senza l’uomo. L’uomo a questo punto, seguendo le cose che Heidegger dice, è, per dirla in modo un po' banale, l’inventore del tempo, mentre da ciò che lui stesso dice in altri punti sembra quasi che la temporalità intervenga a determinare un certo modo dell’Esserci, ma se è l’Esserci che si inventa il tempo, cosa diventa? È un po' complicato. Apriamo una parentesi a proposito del tempo come invenzione, faccio un esempio. Dicono, è una cosa che vi ho raccontata diverse volte, che tutto il sistema solare sia in rotta di collisione con la stella Vega. Ora, se non ci saranno variazioni in questa traiettoria, tutto il sistema solare impatterà nella stella Vega fra circa 400 milioni di anni, giorno più, giorno meno, e da quel momento la Terra, con tutte le sue storie, da quel momento in poi non sarà mai esistita, come se non fosse successo niente di tutto questo. Ma tutto questo è un’altra fantasia, una fantasia storica, nel senso che è stato possibile costruirla perché storicamente pensiamo in un certo modo, abbiamo certi strumenti che ci siamo costruiti. Non è una descrizione di uno stato di cose ma è una costruzione, che può essere interessante, non tanto per l’evento in sé, visto e considerato che è molto difficile che qualcuno di noi sia vivo tra 400 milioni di anni a godersi lo spettacolo, ma per una prospettiva differente rispetto all’umanità e a tutti i suoi problemi. Tutto questo che stiamo vivendo, che abbiamo vissuto e che vivremo ancora, da un certo punto in poi non sarà mai successo, non sarà successo niente. Il che è ancora diverso da ciò che dice Heidegger rispetto alla morte. Non si tratta della morte del singolo ma della cessazione dell’umanità, che scompare. D’altra parte, non è che ci sia sempre stata, non vedo per quale motivo dovrebbe esserci sempre, a un certo punto non ci sarà più niente. Quindi, il tempo. Il tempo che ci siamo inventati e che ci serve per tante cose, essendo una costruzione è al pari di una fantasia, come qualunque altra, non dice niente. Ciò che avverrà, tutte quelle cose che i fisici, gli astronomi, immaginano sono fantasie che vanno intese storicamente rispetto a ciò che oggi sappiamo o che crediamo di sapere, sono due cose diverse. Heidegger, direttamente o indirettamente, ci sta dicendo che il tempo è una costruzione, che non c’è il tempo da qualche parte. Poi, come dicevo, che sia utile per tante cose questo è un altro discorso. Dice: l’avvenire rende primariamente possibile la comprensione, l’avvenire, cioè il fatto di essere gettati in avanti, rende possibile la comprensione, ma questo essere gettati in avanti, questa temporalità che riguarda il futuro, c’è in quanto l’Esserci è questa gettatezza. Il tempo è, sì, l’Esserci, certo, e questo ha delle implicazioni. Una è quella che dicevo prima: adesso sembra un volere antropomorfizzare la cosa, ma è come se l’Esserci si fosse inventato il tempo dopodiché, una volta che l’ha inventato, ne subisse le conseguenze. È una cosa singolare. Sì, certo, sappiamo che non c’è tempo fuori dal linguaggio, fuori dalla parola, però, forse, non si sono considerate appieno tutte le implicazioni di una cosa del genere. Perché per Heidegger è così importante il tempo? Questi tre aspetti che lui considera, presente, passato e futuro, sono possibili, dice lui, perché sono gettato in avanti e, quindi, mi invento il futuro. Poi, c’è l’esser sempre stato, quindi, mi invento il passato. Da ultimo, ciò che presentifico, ciò che mi appare, e quindi mi invento il presente. Rispetto a queste cose, allora, la storicità, l’essere storico, l’essere tutto quello che sono in virtù del fatto che in questo momento sono presenti tutte le condizioni che mi rendono quello che sono. Si può fare l’esempio più classico ma anche più importante, quello della lingua: parlo italiano, non c’è dubbio che il fatto che parli l’italiano, che è fatto in un certo modo, che ha una certa storia, ecc., influisca sul modo in cui io penso. Ma questa storicità, per Heidegger, è possibile perché c’è una comprensione, cioè, c’è un essere gettato in avanti che mi consente di pensare il futuro, c’è un esser già sempre stato che mi consente di pensare il passato, e questa per Heidegger è la condizione della storicità. Se non comprendo le cose, in assenza di comprensione, anche se io arrivo da una storia della lingua italiana, per esempio, non lo saprò mai, non lo potrò mai sapere. Posso saperlo perché ho la possibilità di comprendere il passato per via del fatto che, in quanto Esserci, sono già sempre stato quello che di fatto sono, e cioè progetto gettato. Mi rendo conto che la cosa non è semplicissima, però, è così che la pone Heidegger. In effetti, questo modo di intendere la temporalità, questi tre momenti, è ciò che rende possibile la storicità, quella in cui ciascuno si trova per cui, oggi, parliamo in un certo modo, perché abbiamo certi progetti e questi progetti non vengono dal nulla, vengono da tutto ciò che siamo e siamo stati. Quindi, è come dire che per pensare il passato, potermi accorgere del il modo in cui io penso, anche perché parlo in questa lingua, tutto questo è possibile per il fatto che l’Esserci è già sempre stato quello che è, e cioè un progetto gettato che si prende cura delle cose che incontra. Dicevo delle implicazioni che comporta il fatto di pensare il tempo come una costruzione dell’uomo. Al pari di quello che vi dicevo che accade nella teoria di Heidegger, si inventa il tempo e poi lo subisce, lo patisce. Perché? Perché cessa a un certo punto, o ha cessato a un certo punto, di pensare, ammesso che lo abbia mai pensato, che il tempo se l’è costruito lui. Proseguendo la sua argomentazione, il tempo è una costruzione del linguaggio, cioè, degli umani. Se lei volesse trasporre il discorso di Heidegger verso il discorso linguistico, semiotico, allora questa idea di futuro è resa possibile dalla gettatezza, sì, certo, ma che cosa si getta? Il significante che, gettandosi, ne incontra un altro. È questa, in definitiva, la gettatezza. E l’esser stato non è niente altro che la considerazione che un significante deriva da un altro significante e, quindi, è già stato quello che è, cioè, un significante. È già sempre stato un significante, perché deriva da un altro significante. E il presente è l’incontro con l’aspetto immanente, direi quasi sensibile, del significante. Quindi, questi tre modi possono anche intendersi rispetto al modo in cui funziona il linguaggio: un significante è sempre gettato in avanti verso un altro significante, sennò sarebbe fuori dal linguaggio e non sarebbe nulla, non staremmo neanche qui a discuterne. È anche in questo modo che va inteso Heidegger, almeno per quanto a noi interessa, non stiamo facendo una lettura accademica, non vogliamo sapere cosa ha veramente voluto dire Heidegger ma che cosa ci provoca a pensare. Tra queste cose che provoca a pensare c’è anche questa, cioè, il fatto che quando parla di gettatezza sta parlando del funzionamento del linguaggio. Il fatto che un significante sia sempre gettato verso un altro significante è il funzionamento del linguaggio. La semplice presenza non è mai una semplice presenza ma un utilizzabile. Che cos’è un utilizzabile? È un significante, una parola. Ciò che mi viene incontro non sono le cose in quanto cose, sono parole. Qualunque cosa mi venga incontro mi viene incontro perché è una parola, anzi, potrei dire ancora di più, perché è un significato. Un qualunque ente è un ente perché è un significato, cioè, perché significa qualche cosa, sennò è nulla. La portata della riflessione di Heidegger può essere più produttiva se si tiene sempre conto di questo aspetto, e cioè lui, sì, parla di essere, di ente, però, tutte queste istanze sono istanze linguistiche. Lui non se ne è accorto, dice, sì, che il linguaggio è il pastore dell’essere, senza il linguaggio, in effetti, non c’è nessun essere, questo lo dice esplicitamente… e, quindi, non c’è neanche tempo, cosa non da poco. Infatti, per un animale non esiste il tempo, non c’è un prima, un durante, un dopo, non c’è nulla di tutto questo. Per questo dicevamo che un animale non può morire, nessun animale muore, perché non vive. Noi lo diciamo, noi diciamo un sacco di cose senza tenere conto che tutte queste cose che pensiamo, diciamo, ecc., un certo giorno di tutte queste cose che possiamo dire adesso, non sarà successo niente, assolutamente niente. Nonostante questo, essendo fatti di linguaggio, non possiamo non arrabattarci continuamente, essere presi in giochi, ecc. La questione del tempo è importante e complessa, è costruito dal linguaggio, nel modo in cui dicevamo, riprendendo le parole di Heidegger e piegandole all’aspetto linguistico, un significante gettato verso un altro, questa la gettatezza. Qual è il progetto? è il progetto di un significante che, incontrando un altro significante, produce una catena. Il progetto è questo. Cosa aveva visto Nietzsche in questo progetto? Non sto usando le parole di Nietzsche, però, il fatto che un significante sia sempre gettato verso un altro significante, l’incontro con un utilizzabile, con un altro significante, costituisce la base per potere pensare la volontà di potenza, per potere incominciare a creare la volontà di potenza, che si manifesta come la necessità di accaparrarsi tutti i significanti in modo da riuscire, questa è la fantasia indotta dal funzionamento del linguaggio, a arrivare all’ultimo significante, quello che dà un senso a tutta la catena e che finalmente dice come stanno realmente le cose, per avere, quindi, un controllo totale. In questa gettatezza continua, dove c’è l’impossibilità di stabilire un fondamento, dove si incontra, usiamo le parole di Heidegger, la nullità del fondamento; in questa angoscia, come la chiama lui, ciò che dovrebbe porre un rimedio all’angoscia è il punto fermo, è la fine di qualche cosa, di una catena, rappresentata nel tempo da dio e da altre cose simili. È il funzionamento stesso del linguaggio che è fatto di gettatezza, che costringe a cercare sempre quell’altro significante che dia un senso a quello precedente, cosa che non riuscirà mai a fare. Come nell’esempio che abbiamo fatto varie volte: uno dice una cosa e l’altro gli chiede “che cosa hai voluto dire?” e allora spiega quello che ha voluto dire ma dice altre cose, ovviamente; l’altro gli chiede nuovamente che cosa ha voluto dire e lui spiega dicendo altre cose ancora. Quando si fermerà? Quando uno chiede “che cosa vuoi dire?” è come se facesse il verso di questa gettatezza, come se dicesse che i significanti richiedono altri significanti, non possono fermarsi, in nessun modo. Da qui, come dicevo, la “consapevolezza” della nullità di ogni fondamento e la ricerca, sì, dell’ultimo significante ma anche di quel significante che spieghi quello prima, che non ci sarà mai, perché quello che viene dopo ne produce un altro, che dovrà spiegare quello che viene prima, ecc. È così che funziona il linguaggio ed è così che funzioniamo noi. Il tempo, per usare questa sorta di trasposizione nel linguaggio, è costruito, inventato: il futuro, dall’essere ciascun significante gettato in avanti; il passato, da un significante che deriva sempre da un altro significante, necessariamente, non può venire da niente, viene da un altro significante; il presente, cioè l’incontro immanente con quel significante che dico. Questi tre momenti sono quelli che consentono la pensabilità, rendono, come dice Heidegger, primariamente possibile pensare la storicità, pensare il futuro, pensare a tutto ciò che sono stato. Rendono possibile all’Esserci quel ritornare a se stesso, per esempio, per essere un Esserci autentico, rivenire a se stesso, e quindi cogliere la nullità del suo fondamento. La storicità è importante, è ciò che va sempre pensato. La storicità è ciò che fa sì che io faccia le cose che sto facendo in questo momento, la storicità fa questo. Avevamo accostato la storicità a ciò che Freud chiamava fantasie, le fantasie sono costruite su altre fantasie, che sono costruite su altre fantasie, e così via. Le fantasie sono dei racconti, delle storie sulle quali io mi baso per procedere. È come se fossero quella cosa sulla quale appoggio il piede per fare un passo avanti. Sono sempre fantasie, non possono non esserlo. Fantasie, cioè, racconti, che procedono da qualche cosa che, come già Husserl sapeva, non hanno fondamento, sono il luogo del Si, propriamente. Il Si, la chiacchiera, il si fa, è il luogo in cui ciascuno nasce. Che fondamento ha il si dice, il si fa? Nessuno. Eppure, è ciò su cui ciascuno si basa per muoversi. Questo è importante, intendere come ciascuna costruzione, anche una teoria, poggia sempre e comunque sul Si, e non può non farlo perché è l’unico appoggio di cui dispone. Sono le prime cose che ha imparate, si dice, si fa, devi fare così o cosà, sono tutte cose che non hanno né possono avere alcun fondamento teorico ma sono quelle senza le quali anche la ricerca scientifica più sofisticata non potrebbe esistere. Anche il pensiero, anche quello più elaborato come quello di Heidegger, non potrebbe esistere senza il Si. Heidegger di questo ne era consapevole e, infatti, lo dice: non può togliersi la deiezione, la chiacchiera, sono la base da cui ciascuno muove per pensare qualunque cosa gli venga in testa per pensare, e senza le quali cose non può pensare niente. Per Heidegger, poi, può farlo in modo autentico o inautentico. Se rimane nel Si rimane inautentico, continua tutta la vita a pensare che le cose stiano così come gli ha detto la nonna. Qualcuno ogni tanto pensa che la nonna, forse, non è così attendibile. Il percorso stesso dell’umanità ha avuto questo stesso iter, dal mito alla filosofia. Dal mito, cioè, dall’accontentarsi del racconto, i miti erano orali e si tramandavano di generazione in generazione. Poi, la filosofia, che ha incominciato a pensare e ha voluto altre risposte. Ma queste risposte non è che siano meglio o peggio delle precedenti, appartengono semplicemente a giochi differenti. Attenersi al mito o alla teoria dei quanti non è che sia meglio l’una o l’altra. In base a certi giochi ovviamente è più attendibile la teoria dei quanti, ma rispetto a certi giochi. Rispetto ad altri giochi è altrettanto attendibile il mito. Entrambi, tanto il mito quanto la filosofia o la scienza, poggiano sul Si. Il Si è il mito, è accogliere delle risposte a delle domande che gli umani si fanno. La domanda che gli umani si fanno è sempre la stessa, e cioè quale sarà il prossimo significante, come posso controllarlo, come potrà la prossima parola giustificare quella che ho appena detta? È questa la questione, linguisticamente parlando.

Intervento: è anche la paura del futuro…

Ovviamente. È il non potere controllare quello che accadrà. È una paura abbastanza infantile, che un giorno gli automi ci sconfiggeranno, ecc. La paura è di ciò che non è più controllabile, non è più gestibile. Freud ne parla in quel famosissimo saggio, Il perturbante, cioè qualcosa che fino a un certo punto appariva familiare si volge in qualche cosa di straniante, quindi, di non più domestico, letteralmente, qualcosa di non addomesticato. Ciò che gli umani vogliono è avere il controllo sulle parole, sui significati. Chi controlla i significati, questo è noto da sempre, controlla tutto. Anche in politica, anche in economia, chi controlla i significati delle cose, che cosa vuole dire quello che sta accadendo, colui che lo sa ha la gestione, il controllo su tutto o quanto meno l’idea di avere il controllo. Posso fare credere di avere il controllo su tutto, che è dopotutto la cosa più importante, non che ce l’abbia ma che gli altri credano che io ce l’abbia, ed è la cosa fondamentale, che io ce l’abbia o no è irrilevante, ma se gli altri credono che io abbia questo controllo, allora ce l’ho. Heidegger ha ragione a insistere sulla questione del tempo, bisognerebbe però tenere conto che questa questione del tempo è stata inventata. È stata inventata per rendere conto che un significante è sempre gettato in avanti verso un altro significante, e cioè una parola è sempre una parola che domanda di un’altra parola, e domanda di un’altra parola perché viene da un’altra parola. Ecco l’esser sempre stato, ciò che sempre è e che è sempre stato, cioè, una parola, non è che è stato un’altra cosa. Ed è questo, come dicevo prima, che gli umani vogliono controllare: il linguaggio. Chi controlla il linguaggio controlla tutto. Si è sempre detto, è noto da sempre che chi ha il controllo dell’informazione controlla tutto, perché chi ha il controllo dell’informazione sa il significato delle cose, quel certo evento significa questo, quella certa cosa significa quest’altra, e quindi ha la possibilità, almeno teorica, della previsione. Una teoria serve a questo, a prevedere dei fatti, sennò non serve a niente, e chi è in condizioni di prevedere ciò che accadrà, in un certo senso, si mette fantasmaticamente nella posizione di dio, è lui che conosce il futuro, il presente, il passato. A pag. 411. Parla della curiosità. Lui dice da qualche parte che la curiosità è il voler vedere per potere dire di avere visto. Facevamo l’esempio di chi viaggia per poter dire di essere stato qui, là, su e giù. La presentazione della curiosità “scaturente via” è così poco dedita alle “cose” che essa, mentre sta vedendo, volge già lo sguardo altrove. È sempre lì che cerca qualche altra cosa di nuovo. La presentazione costantemente “scaturente via” dall’aspettarsi una determinata possibilità… Perché dice questa presentazione “scaturente via”? Diciamola così, che nel momento in cui scaturisce va via, voglio già altro, voglio del nuovo, quello che mi si presenta, sì, va bene, adesso l’ho visto ma passiamo ad altro. La presentazione costantemente “scaturente via” dall’aspettarsi una determinata possibilità rende ontologicamente possibile quella incapacità di soffermarsi che caratterizza la curiosità. La curiosità è l’incapacità di soffermarsi su qualche cosa. La presentazione “scaturisce via” dall’aspettarsi non per così dire in senso ontico separandosi da esso e lasciandolo a se stesso. Lo “scaturire via” è una modificazione estatica dell’aspettarsi, tale che questo, a sua volta, insegue la presentazione. Questi sono tutti modi in cui si manifesta la curiosità. La modificazione estatica dell’aspettarsi in aspettarsi inseguente, modificazione che ha luogo mediante la presentazione scaturente via, è la condizione esistenziale-temporale della possibilità della dispersione. Si chiede, come è possibile questa dispersione, questa deiezione? È possibile a partire dalla curiosità, che non è altro che la modificazione estatica dell’aspettarsi. Questo aspettarsi in che modo si modifica? Si modifica dall’avvenire, trasformare l’avvenire, l’essere gettati in avanti, in aspettarsi qualche cosa, ecco, questo per Heidegger è la deiezione connessa con il futuro. Cosa significa aspettarsi qualche cosa? Significa che ciò che si aspetta, cioè questa possibilità, è individuata, è bloccata, è nella cosa che io mi aspetto, non sono più pura possibilità che incontra qualche cosa e che lascia venire incontro quello che incontra, ma vuole quella certa cosa. A causa dell’aspettarsi inseguente, la presentazione è sempre più abbandonata a se stessa. Ciò che mi se presenta è abbandonato a se stesso, cioè, non mi prendo cura. Nella curiosità non mi prendo cura delle cose, di ciò che mi aspetto, che voglio che accada, che tra l’altro è sempre un’altra cosa, qualunque cosa mi si presenti non è mai quella. Tipico del discorso isterico, per esempio. Andiamo a pag. 413 al punto d – La temporalità del discorso. Sappiamo che per Heidegger il discorso è importante, perché nel discorso che tutte queste cose che ci racconta della temporalità, dell’esser gettato, è sempre nel discorso che si manifestano, si concretizzano. L’apertura completa del Ci dell’Esserci, costituita dalla comprensione… Dunque, la comprensione è l’apertura completa del Ci dell’Esserci, questo bisogna ricordarlo sempre. La comprensione è l’apertura, non è l’interpretazione. Per interpretazione lui invece intende ciò che accade dopo che c’è la comprensione, dopo che c’è stata l’apertura del Ci dell’Esserci, apertura verso il mondo, e solo allora, solo a questa condizione, posso vedere qualcosa e, quindi, interrogarmi su questo qualcosa. Interrogarmi su questo qualcosa sarebbe l’interpretazione, ma perché questo possa accadere occorre l’apertura completa del Ci dell’Esserci, che è, appunto, la comprensione. L’apertura completa del Ci dell’Esserci, costituita dalla comprensione, dalla situazione emotiva e dalla deiezione… Infatti, la comprensione non va mai senza una situazione emotiva. La mia situazione emotiva se va in un certo modo vede certe cose, se va in un altro modo certe cose non le vede ma ne vede altre. Anche la deiezione è importante, perché la deiezione, per Heidegger, è il presente, è il presentificare ciò che incontro, il renderlo presente. L’apertura completa del Ci dell’Esserci, costituita dalla comprensione, dalla situazione emotiva e dalla deiezione, trova la sua articolazione nel discorso. È il discorso che articola tutte queste cose, che le mette insieme. Perciò il discorso non si temporalizza primariamente in una determinata estasi. Dicendo che il discorso non si temporalizza in una determinata estasi, sta dicendo quello che diceva prima, e cioè che la comprensione è costituita dalla completa apertura del Ci. Quindi, il discorso non si temoralizza primariamente in una determinata estasi, che potrebbe essere la comprensione, la situazione emotiva o la deiezione, non c’è la priorità di una sull’altra. Tuttavia, poiché di fatto il discorso si esprime per lo più nel linguaggio e, innanzi tutto, prede la forma di un parlare del “mondo-ambiente” prendendosene così cura, la presentazione ha una funzione costitutiva privilegiata. In tutto questo la presentazione è l’aspetto privilegiato nel discorso: il discorso presenta, offre. Il parlare è il parlare di un mondo ambiente. Di che cosa si parla? Del mondo ambiente, non è che si parli di altre cose. Quindi, il discorso è sempre un discorso che parla del mondo ambiente. Parla di ciò che incontro, parla del mio essere gettato, parla di ciò che presentifica, presentifica nella deiezione, come la cosa più comune, più banale, come la chiacchiera. Il discorso rende presente qualcosa, presentifica le cose sempre a partire dalla comprensione, quindi dalla situazione emotiva e dalla deiezione. Non c’è un discorso puro, che sia non toccato dalla situazione emotiva, dalla deiezione; come abbiamo visto prima, la deiezione è sempre presente e comunque, non possiamo toglierla in nessun modo. I tempi e gli altri fenomeni temporali del linguaggio, gli “aspetti temporali” e i “gradi del tempo”, non traggono origine dal fatto che il discorso si esprime “anche” su eventi “temporali”, cioè aventi luogo “nel tempo”. Sta dicendo che questo non ha nulla a che fare con i tempi verbali. Essi non hanno il loro fondamento neppure in un presunto “tempo psichico” del discorso. Un tempo psichico che sarebbe presente aprioristicamente in ciascuno, un po' alla Kant in un certo modo; il tempo e lo spazio come quei concetti a priori a partire dai quali ciascuno organizza il mondo, al quale non ha accesso se non attraverso questi schemi concettuali. È stata questa la rivoluzione di Kant: non possiamo avere accesso alle cose ma soltanto ai concetti che ci consentono di parlare di queste cose, cioè, delle cose che incontriamo, ma della cosa in sé non sappiamo nulla. Gli aspetti temporali sono radicati nella temporalità originaria del prendersi cura, sia che questo si riferisca a enti intratemporali o no. Gli aspetti temporali sono radicati nella temporalità originaria. La temporalità originaria è data dal presente, passato e futuro ma intesi in questo modo: il futuro, come la gettatezza del significante verso un altro significante; il passato, per il significante è già sempre stato quello che è, cioè, un altro significante; il presente, cioè, il significante con cui mi trovo ad avere a che fare. Questi sono gli aspetti temporali radicati nella temporalità originaria. Senza questa temporalità originaria, cioè, senza questa gettatezza, per esempio, non ci sarebbe futuro. E se non fosse quello che è, costantemente quello che è, e cioè gettatezza, non ci sarebbe neanche il passato. Ecco perché lui parla di temporalità originaria, perché al di sopra di questo, secondo Heidegger, non c’è più niente. Sarebbero le idee primitive, non proprio esattamente, però diciamo che è ciò oltre il quale non è possibile andare. Il fatto che il futuro proceda dalla gettatezza è un qualche cosa oltre il quale non possiamo andare perché oltre la gettatezza, oltre l’Esserci, non c’è un’altra cosa. Se dicessimo questo, che c’è un’altra cosa, sarebbe sempre l’Esserci a dire che c’è un’altra cosa, ma l’Esserci non può uscire da se stesso né può trovare fondamento di sé, perché se avesse un fondamento allora, partendo da questo fondamento, potrebbe fondare una metafisica, ma non lo può fare perché l’Esserci non ha nessun fondamento. Dice che gli aspetti temporali sono, sì, radicati in questa temporalità originaria, però, dice Con l’ausilio del concetto di tempo comune e tradizionale, cui la linguistica è costretta a ricorrere, il problema della struttura temporale esistenziale dell’aspetto temporale non neppure essere posto. Questo problema non può essere posto con i termini comuni di tempo. Ma qui dice una cosa divertente, dice Con l’ausilio del concetto di tempo comune e tradizionale, cui la linguistica è costretta a ricorrere, per cui sta dicendo che con questi concetti del Si non si va da nessuna parte, non possiamo pensare il tempo in questi termini, ma se non ci fossero questi, cioè il tempo come è inteso nel senso comune, non potremmo neanche proporci di pensare il tempo in un altro modo. Se non ci fosse il tempo del Si non ci sarebbe neanche il tempo del Ci.