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29 ottobre 2025

 

Gregorio di Nissa Teologia Trinitaria

 

La teologia trinitaria ci sta interessando sempre di più, perché sempre di più ci stiamo accorgendo che la teologia trinitaria è una teoria del linguaggio, certo, come dice anche Reale, ma soprattutto è una teoria del segno, una semiotica. La teoria del segno, che poi non è altro che una teoria del significato, è quella cosa che dice come si costruisce un significato. Come si costruisce un significato? Può sembrare facile l’operazione, però richiede alcuni passaggi. Una teoria del significato è una teoria che, intanto, presuppone che esista un significato, dopodiché immagina che questo significato debba esserci necessariamente e che questo significato proceda da qualche cosa. Questa idea, che è tipicamente neoplatonica, non era presente, per esempio, in Democrito, non era presente in Anassimandro, per il quale tutte le cose procedono dall’πείρων; non c’era in Eraclito: ogni cosa sorgendo dilegua; non in Zenone: vedo che una cosa che si muove, certo, ma non saprò mai come si muove. Quindi, l’idea è che da una cosa sia possibile passare a un’altra: questa è la teoria del segno. Perché, se dovesse accadere che da una cosa non si passa necessariamente a un’altra, la teoria del segno crolla. Perché, si dice comunemente, che un segno è sempre segno di qualche altra cosa. Certo, ma quale? E poi, siamo così sicuri che sia segno di un’altra cosa? Forse, ma come lo verifichiamo? Questo potrebbe essere un problema: come verifico che da una certa cosa ne segue necessariamente un’altra? Perché? Chi l’ha detto? Per Democrito non era così, neanche per Anassimandro, per Eraclito sarebbe da verificare, ma dicendo che l’uno è tutte le cose già pone qualche problema, perché, se l’uno è tutte le cose, questo uno non lo posso determinare e, se non lo determino, come so che da lì si passa da un’altra parte? Perché questo “lì” non lo determino. Per lo stesso Aristotele la sostanza non è altro che ciò che se ne dice; quindi, questa sostanza, che dovrebbe essere immobile, identica a sé, inamovibile, indistruttibile e incontrovertibile, è fatta di parole, che sono il divenire per eccellenza. O ne mettiamo una al di sopra, come fece Porfirio, una super sostanza, oppure questa sostanza non possiamo utilizzarla. Eppure noi la utilizziamo continuamente, perché parliamo ininterrottamente, come sto facendo io in questo momento. E, allora, cos’è che ci consente di parlare se non abbiamo la possibilità di potere stabilire, di fermare alcunché? Aristotele lo dice: è la δόξα. La δόξα, cioè, l’analogia: noi pensiamo soltanto per similitudine. La teologia trinitaria, essendo una teoria del segno, quindi, una teoria del significato, è quella, solo lei, che ci consente di parlare come Dio comanda, è il caso di dirlo, e cioè di sapere di che cosa stiamo parlando. Perché lo sappiamo? Perché la parola autentica è quella che viene da Dio, e la parola che viene da Dio non mente, perché Dio non mente. Dunque, noi possiamo parlare, noi oggi, occidentali del ventesimo secolo, grazie alla teologia trinitaria. Possiamo naturalmente prendere le distanze dalla teologia trinitaria. E come si prendono le distanze dalla teologia trinitaria? È semplice: interrogandola, chiedendo alla teologia trinitaria di dire perché afferma quello che afferma. E la teologia trinitaria può rispondere in un solo unico modo: perché Dio lo vuole. Come sappiamo che Dio vuole questo? Lo sappiamo dalle Scritture. E, allora, andiamo a vedere le Scritture, e cosa ci troviamo? Però, la teologia trinitaria ha anche fornito l’opportunità di inventare l’anima bella, cioè quella che pensa di parlare in nome di una verità che trascende e che ha consentito, quindi, la costruzione di tutti quei pensieri che si fondano sull’idea di una verità epistemica. Come la scienza, per esempio, come l’etica, la politica, l’arte, ecc. Una verità epistemica, cioè, esiste una verità a cui fare riferimento. Se esiste una verità alla quale fare riferimento, allora siamo salvi; il che vuol dire che ciò che diciamo è sostenuto da qualcosa di certo. Aveva ragione Platone a vietare nella sua scuola di pronunciare anche soltanto il nome di Democrito. Democrito era la fine di tutto questo. Parliamo immaginando sempre una verità epistemica. Oramai, dopo duemila anni, tutti sanno che c’è una verità epistemica e che quindi quando qualcuno parla, dicendo come stanno le cose, vuole dire che lo sa come stanno le cose, perché è possibile saperlo, ed è possibile saperlo perché c’è una verità epistemica. Tutto il lavoro fatto da Gregorio di Nissa, è volto contro Eunomio, perché Eunomio ha fatto una cosa intollerabile, e cioè ha detto che il significante, il significato e il referente sono tre ipostasi e tre sostanze. Anatema su di lui. Perché, se il significante, il significato e il referente sono tre ipostasi - l’ipostasi è ciò che letteralmente sta sotto - ma tre sostanze diverse, allora questi tre elementi non comunicano tra loro, sono cose diverse, sono separati. Ma, se sono separati, allora uno non procede dall’altro, o se procede è perché uno l’ha creato – come dice Eunomio -, ma se l’ha creato è un’altra cosa. Quindi, tra significante, significato e referente c’è, adesso lo dico con un termine, una διάθεσις, una separazione, una distanza incolmabile, che non si colma con niente. Gregorio di Nissa gli ha scagliato tutti gli anatemi che aveva sottomano, perché una cosa del genere non è ammissibile: il significante, il significato e il referente sono, sì, certo, tre ipostasi ma una sostanza; il che significa che appartengono alla stessa cosa e che uno segue necessariamente l’altro, procede dall’altro; quindi, il significante, il significato e il referente hanno una loro, potremmo dire, logica interna che li lega, che li tiene uniti. Infatti, Agostino diceva che lo Spirito Santo è la relazione, è quella cosa che li tiene insieme, perché ci vuole qualcosa che tenga insieme queste due ipostasi, Padre e Figlio, significante e significato.

Intervento: Si ricorda il sillogismo compiuto nella Scienza della logica di Hegel? Sta dicendo la stessa cosa. Aveva proprio ragione Beierwaltes.

Sì, il sillogismo compiuto è l’Uno, dove finalmente le parti si integrano, ma possono farlo perché sono una sola sostanza. Se fossero tre sostanze separate, allora no, come le metto assieme? Sì, posso farlo, ma come dice Aristotele interviene la mia decisione, è un atto di volontà, decido che è così. Va bene, ma non è così che deve essere: così io voglio che sia, non è così perché deve essere così. Come diceva Nietzsche, ciò che fu io volli che fosse.

Intervento: Se sono tre sostanze separate a questo punto non c’è più l’assoluto.

Sì, perché introduce i molti nell’uno. Se sono tre sostanze allora non c’è più l’assoluto, perché l’assoluto è uno, non tre. Sarebbe appunto come inserire i molti nell’uno: se inserisco i molti nell’uno allora siamo a Eraclito, siamo da capo e non ne veniamo fuori, perché non c’è l’uno, cioè, c’è l’uno ma in quanto è i molti. E questo non poteva essere, perché l’assoluto deve esserci, perché l’assoluto è quella cosa che ancora oggi tutti quanti invocano ogni volta che aprono bocca: è così! Perché? Perché Dio lo vuole. Questa è l’unica risposta corretta, sensata, all’affermazione “Le cose sono così”: Deus vult. Quindi, ci vuole un Dio che lo voglia. Da qui la necessità della teologia perché, se Dio non c’è è un problema. Ecco perché stiamo leggendo la teologia trinitaria, una teoria del segno. Più che teoria occorrerebbe dire qui una dottrina del segno, perché è una dottrina e non una teoria, anche se volendo una teoria in fondo si può anche ricondurre a una dottrina; non c’è cosa che volendo non si possa ricondurre a qualunque altra, basta fare un certo numero di giri. Questo assoluto, dunque, ha necessità che il segno sia composto da tre ipostasi ma da una sostanza. Solo così è possibile pensare l’assoluto, cioè, soltanto così è possibile affermare come stanno le cose; perché le cose stanno così relativamente a un assoluto, e cioè se stanno così io escludo che stiano in qualunque altro modo. Quando uno si fa un’opinione esclude tutte le altre opinioni, anche se retoricamente non lo fa perché c’è sempre la captatio benevolentiæ: si premette “questa è una mia opinione”, il che significa che è assolutamente vera, perché se la dico io non si discute. Ma questa captatio benevolentiæ viene anch’essa dal cristianesimo, perché la verità è appannaggio di Dio, io posso soltanto esporre la verità, che è di Dio. Come diceva Paolo, io sono soltanto il servo dei servi, ma se qualcuno mi contraddice… Siamo ancora all’introduzione di Reale. A pag. 49. In questo modo la nostra conoscenza di Dio raggiunge l’oggetto della sua ricerca solamente mediante tentativi, perché ciascun nome disvela un aspetto soltanto di quello che vogliamo raggiungere: ciò non avviene, invece, nella conoscenza della realtà umana, ma questo ben si comprende in relazione all’oggetto peculiare dell’indagine teologica. Ma anche nell’ambito della conoscenza umana, il livello a cui possiamo giungere è sempre quello relativo al pensiero: noi non conosciamo come una cosa effettivamente è nella sua natura, ma possiamo solamente indicarne l’esistenza o solo quello che appare a noi. Quindi, la parola non può portarci all’assoluto, in nessun modo, perché la parola è i molti; ma la parola è anche segno. Possiamo anche intendere il segno con la dialettica hegeliana, è un qualche cosa che produce un movimento di andata e di ritorno: il significante dice “albero”, che di per sé non significherebbe niente; il significato ci mostra a che cosa questo suono, questa immagine acustica, per usare le parole di de Saussure, allude: quella cosa che nasce per terra con i rami, ecc.; da ultimo, abbiamo l’albero, quello che vediamo ben piantato per terra, con tutte le sue fronde. E, allora, il significante che io ho pronunciato in questo ritorno - ecco perché ho citato la dialettica hegeliana - diventa vero, diventa quello che veramente è. Che è quello che dice Hegel dell’in sé e del per sé e, quindi, dell’Aufhebung, il ritorno sull’uno. Perché la parola è fatta così, non ci consente di dire l’assoluto, ed è per questo è stata inventata la teologia negativa: perché tutte le parole, come diceva D’Agostino, mutano continuamente, non raggiungono mai l’assoluto, ce n’è sempre un’altra che si aggiunge; ma ci vuole l’assoluto, ma perché ci sia l’assoluto è necessario che ci sia la Trinità e che la Trinità sia posta come tre ipostasi e una sola sostanza. È questo che garantisce che quando torno indietro trovo l’uno, perché sennò torno indietro e non so cosa trovo, ammesso che torni indietro, e che trovi qualcosa, cosa tutt’altro che sicura. A pag. 50. Ciò che è per sua natura infinito non può essere compreso da un pensiero composto da parole, egli osserva, riprendendo quindi la tematica della infinitezza di Dio. Essa rappresenta, dunque, la vera natura di Dio, e l’infinitezza viene intesa come qualcosa che richiede una teologia negativa: tutto quello che è infinito non può essere compreso dall’intelligenza umana, che è finita; proprio il fatto che noi non possiamo comprenderla con il nostro ragionamento ci fornisce la prova della sua grandezza. Noi non la possiamo comprendere con il nostro ragionamento, quindi deve essere grande. Qui siamo invece a Gregorio di Nissa. A pag. 8. Se la prende con un Eunomio, tutto lo scritto è contro Eunomio perché, come abbiamo visto, Eunomio ha detto che ci sono sì tre ipostasi, ma sono tre sostanze, non una; quindi, non si passa da una all’altra naturalmente, necessariamente, si passa discorsivamente. Discorsivamente vuole dire che ci sono di mezzo le parole, ma se ci sono di mezzo le parole l’assoluto ce lo possiamo scordare. In questi e analoghi argomenti io concedo di essere superiore a noi e di godere della vittoria a suo piacimento… Gregorio de Nissa aveva studiato la retorica, quindi, conosceva le figure retoriche, e allora concede di essere superiori a noi, ma è falso, naturalmente, assolutamente falso, sta mentendo. …ben volentieri non mi curerò di tutto l’impegno che ha dedicato a questi particolari, perché esso si addice solo a quelli che vadano alla gloria - ammesso che procuri gloria e perde il tempo in discorso di carpata. Perché anche il vero servo del Logos, Basilio di Cesarea, ornato solamente della verità, pensò che fosse cosa indegna formare il proprio discorso con tali lenocini e ci educò a tener conto soltanto di quella (la parola di Dio). Giusta e opportuna questa legge. Che bisogno c’è, infatti, di trascinarsi addosso le vanità del belletto e ottenere così una bellezza false e artificiosa, quando si è già belli dell’ornamento costituito dalla verità? Coloro che non posseggono la verità trovano utile, forse, adulterare la loro falsità per mezzo del piacere delle parole, impiastricciando sulla forma del proprio discorso vanità di tal genere, come se fossero un impiastro: in tal modo il loro inganno, artefatto e infiorettato da simili leziosità oratorie… Le loro, non le sue. …potrebbe riuscire convincente e gradevole agli ascoltatori; quando però si ricerca seriamente la schietta verità, senza alcun rivestimento menzognero, allora la bellezza risplende naturalmente nelle parole. Quando c’è la parola di Dio, naturalmente. E poiché ora mi accingo a dedicarmi all’esame del testo di Eunomio, mi sembra di non saper cosa fare, come un contadino in un giorno senza vento, e non so come distinguere il grano dalla paglia: le cose superflue e vane che si trovano in questo gran mucchio di discorsi sono tante che poco manca al credere che in tutto quello che Eunomio ha detto non vi sia nessuna sostanza di cose e di pensiero. In effetti, il ripercorrere passo passo tutto il suo scritto è cosa vana e faticosa per chi vi si impegna, e nemmeno è utile, io credo, al nostro scopo; né, d’altra parte, ho tanto tempo da perdere da soffermarmi a mio piacimento sulle sue sciocchezze. Anzi, io credo che il buon lavoratore non debba sprecare le proprie forze in cose inutili, ma soltanto in quelle nelle quali la fatica ottiene un frutto riconosciuto. Vi ho letto questo passo per darvi un’idea del modo in cui Gregorio di Nissa approccia il testo di Eunomio. A pag. 27. Ma anche Eunomio ha mentito, e qual è stata la sua menzogna? La violazione della verità stessa. Egli dice che colui che è sempre, un tempo non esisteva, e sostiene che il vero Figlio ha un falso nome... Perché, sì, è figlio, ma non è propriamente figlio. …stabilisce che il creatore di tutto sia lui stesso creatura e fattura, chiama “servo” colui che signoreggia sull’universo, pone sul medesimo piano della sostanza che è schiava colui che possiede per sua natura il dominio universale. Forse che passa poca differenza tra queste menzogne e la differenza è tale che uno potrebbe credere che il mentire in un modo o nell’altro non abbia nessuna importanza? Sta dicendo che il Figlio non procede dal Padre, che tra significante e significato non c’è nessuna certezza di connessione. A pag. 34. quindi 18. Tutto il discorso che riguarda le nostre dottrine si forma partendo dalla sostanza suprema e che è in senso proprio, al massimo grado; da quella che esiste a causa di essa, ma è dopo di essa e primeggia su tutte le altre; e infine dalla terza, che non è coordinata a nessuna di queste due, ma è subordinata all’una a motivo della causa e all’altra a motivo dell’operazione secondo la quale è nata. Questo è quello che sosteneva Eunomio. Evidentemente, dobbiamo prendere congiuntamente in considerazione, per completare il nostro ragionamento, anche le operazioni che conseguono alle sostanze e i nomi che per natura sono consoni ad esse. Già ci vuole l’idea che i nomi siano consoni alle cose, e questo viene da Platone, dal Cratilo. Ancora: ciascuna di queste sostanze è ed è pensata come esistente, puramente semplice sotto ogni aspetto e unica in relazione alla sua propria dignità, ma poiché le operazioni sono circoscritte insieme con le opere e le opere sono commisurate alle operazioni di coloro che le compiono, è senza dubbio assolutamente necessario che anche le operazioni che conseguono a ciascuna sostanza siano minori e maggiori… Parlare di maggiore e minore rispettivamente alla sostanza, per Gregorio di Nissa non andava assolutamente bene: la sostanza è una, non ha un maggiore o un minore, non può averlo. A pag. 35. Poiché le cose stanno così ed esse mantengono inalterata la concatenazione con il loro rapporto reciproco, senza dubbio conviene che coloro che svolgono la loro indagine secondo l’ordine connaturato alle realtà e non costringano a viva forza a sconvolgere e a confondere tutte le cose tra di loro si procurino, se viene mossa qualche contestazione relativa alle sostanze, la credibilità delle loro dimostrazioni e l’eliminazione dei dubbi muovendo dalle operazioni, che sono le prime e sono contigue alla sostanze… Le operazioni sarebbero il calcolo, l’argomentazione. …e risolvono l’ambiguità che si trova nelle operazioni muovendo dalle sostanze e considerano più consono e più utile in tutto e per tutto il discendere dalle prime sostanze alle seconde. Questo è Eunomio. Bisognerebbe quindi discutere su questo fatto, perché altrimenti si confonde tutto: se la sostanza effettivamente è una, il Padre, allora non può essere anche Figlio, perché il Figlio è qualcosa che è proceduto da un’operazione del Padre; ma se è proceduto da un’operazione del Padre vuole dire che è un’altra cosa rispetto al Padre, che non c’era quando c’era il Padre. Ecco che qui Gregorio dà fuori di matto. Questa è, dunque, la tecnica della sua bestemmia; ma il Dio vero, il Figlio del Dio vero, possa con la guida dello Spirito Santo, indirizzare alla verità il nostro ragionamento. Già qui fa appello allo Spirito Santo. Riesaminiamo di seguito le parole citate. Dice: “Il discorso che riguarda le nostre dottrine si forma partendo dalla sostanza suprema e che è, in senso proprio, al massimo grado, da quella che esiste a causa di essa, ma è dopo di essa e primeggia su tutte le altre; e infine della terza, che non è coordinata con nessuna di queste due, ma è subordinata all’una a motivo della causa, all’altra e a motivo dell’operazione. Orbene, la prima mala azione compiuta da Eunomio in queste parole consiste nel fatto che, dopo aver proclamato di volersi esporre l’insegnamento del mistero cristiano, come se volesse correggere le parole del Vangelo, non impiega quei nomi per mezzo dei quali il Signore ci affidò il mistero nella perfezione della fede, ma tace in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, e, invece del Padre, parla di una certa sostanza suprema e che è, in senso proprio, al massimo grado, invece del Figlio parla di quella che esiste a causa della prima… Se una sostanza esiste a causa di un’altra, vuole dire che ci sono due sostanze, non è una. …e invece dello Spirito Santo di quella che non è coordinata con nessuna delle due, ma è sottomessa ad entrambe. Qui sta dicendo che Eunomio non dice questi nomi, Padre, Figlio e Spirito Santo, ma dice prima causa, poi la causa prodotta, ecc. Ora, retoricamente questo ha una valenza: non usare i nomi del cristianesimo, cioè, Padre, Figlio e Spirito Santo, significa non ammettere la loro sussistenza, ma porre la loro esistenza in altro modo. L’utilizzo dei nomi, come sappiamo, ha degli effetti: se interpelli qualcuno e dici “Mario, per cortesia” oppure dici “Senti coso…”, è diverso. A pag. 36. Se si fosse dovuto dir così, non avrebbero ricordato il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, se davvero fosse stato un comportamento pio o privo di pericoli falsificare le parole della fede con il conio di siffatte novità. Altrimenti quegli altri sarebbero stati tutti degli ignoranti, profani al mistero cristiano, e non avrebbero sentito dir niente dei “nomi connaturati alle cose”, come dice Eunomio: invece essi non seppero e non vollero considerare i propri pensieri più preziosi delle parole affidateci dalla voce di Dio. Ma è chiaro a tutti, io penso, la causa di questo nuovo conio di parole, e cioè che tutti gli uomini, quando sentono pronunciare il titolo di Padre e quello di Figlio, subito riconoscono dai nomi stessi il rapporto reciproco di affinità e di natura… Parlare di Padre, Figlio e Spirito Santo è come - questo retoricamente - inserire in modo surrettizio che ci sia una relazione tra loro, una relazione di necessità, cosa che Eunomio nega. A pag. 37. Non si addice a colui che ritiene che esistano veramente nella propria ipostasi l’Unigenito e lo Spirito Santo il voler sottilizzare a proposito della confessione dei nomi con i quali egli crede si debba esaltare il Dio che è al di sopra dell’universo, ché altrimenti sarebbe segno di estrema stoltezza essere d’accordo nei fatti ma fare il pedante con le parole. Come dire che Eunomio usa le parole per opporsi alla fede cristiana, perché pone delle domande. In fondo, il suo peccato è sempre lo stesso, quello di superbia: non si piega alle parole scritturali, quelle del libro, quelle della Bibbia, quelle del Vangelo, ma vuole pensare per conto suo. A pag. 41. E ciononostante, l’insegnamento di Eunomio si oppone a quello dei Vangeli, perché non nomina il Figlio, ma “la sostanza che esiste a causa di essa, ma è dopo di essa e primeggia su tutte le cose che esistono”. È dopo. Quindi, continua a negare che sia una sostanza sola. Ma che queste parole siano dette per distruggere la pia dottrina che riguarda l’Unigenito, sarà reso ancor più chiaro dal seguito della sua argomentazione. Ma siccome sembra che quanto è stato detto abbia una certa aria di moderazione, sì che potrebbe servirsi di queste parole anche colui che non dice niente di empio a proposito di Cristo, per questo motivo anch’io adesso oltrepasserò tutto il ragionamento di Eunomio relativo al Signore, riservando a un secondo momento di contraddire le sue bestemmie più manifeste contro di lui; siccome, però, a proposito dello Spirito Santo, Eunomio impiega la bestemmia aperta e senza veli, dicendo che non è coordinato al Padre e al Figlio, ma subordinato ad entrambi, ora esaminerò il suo discorso per quanto mi sarà possibile. È subordinato. Continua a negare Eunomio, il che è una bestemmia in effetti, perché in questo modo nega la validità del segno. È una bestemmia perché in questo modo è come se dicesse: in nessun modo tu potrai dire la verità, non perché non sei abbastanza abile ma perché la verità non c’è. A pag. 42. Ma nei passi che sono chiari a tutti, nei quali il significato di “sottomissione” non presenta nessuna ambiguità, in che senso intende che la sostanza dello Spirito è sottomessa a quella del Figlio e a quella del Padre? Nel senso in cui il Figlio è sottomesso al Padre, come pensa l’Apostolo? Allora, a questo riguardo, lo Spirito è coordinato al Figlio, non è subordinato, se è vero che le due persone appartengono alla realtà subordinate. O non è così? E, allora, in quale altro senso? Nel senso in cui noi abbiamo appreso dal salmo che la natura irrazionale è sottomessa a quella razionale? Allora la sottomissione è diversa, tanto quanto quella delle bestie all’uomo. Ma forse Eunomio esclude anche questa spiegazione. Allora arriverà l’unica spiegazione che resta, e cioè che, se prima si era opposta e si era levata contro Dio, successivamente fu costretta a chinarsi, ad opera di una costrizione più violenta davanti a chi era più forte. Ecco come si riconduce l’avversario alla ragione: sono più forte io. Vi ricordate di Trasimaco? A pag. 47. Ma se ogni argomentazione e ogni dimostrazione devono essere precedute dall’accordo, ben saldo e non ambiguo, sì che ciò che si ignora viene dimostrato da ciò che precede, poiché è opportunamente inserito nelle argomentazioni intervenute, colui che presenta un problema che è ancora oggetto d’indagine, perché serva alla dimostrazione di altri problemi, dimostra soltanto ciò che ignora per mezzo di ciò che ignora e l’inganno per mezzo dell’inganno. Questo è contro la δόξα. Se uno si fonda unicamente sulla δόξα non potrà che essere ingannato, perché la δόξα non mostra la verità, la verità si trova soltanto lassù: Dio lo ha detto, io so che cosa ha detto, quindi, io so la verità, quella vera. A pag. 48. Egli dice che “ciascuna di queste sostanze è ed è pensata come esistente puramente semplice sotto ogni aspetto e unica in relazione alla propria dignità”. Ciascuno è unico, cioè, non è gli altri. Ancora una volta, qui Eunomio presenta come se fosse concesso quello che invece è contestato e crede di dire qualcosa di importante, pensando che le proprie affermazioni siano equivalenti a una dimostrazione. Egli parla di tre sostanze: questo infatti vuol dire Eunomio. quando così si esprime: “ciascuna di queste sostanze”. Ciascuna di queste sostanze, quindi le separa. Ché altrimenti non avrebbe detto così, se pensasse che ce n’è una sola. Se dunque Eunomio intende la differenza delle sostanze tra di loro, non nel senso che, apparentemente, cade nell’empietà di Sabellio, il quale adatta tre denominazioni differenti ad un unico soggetto, allora anche noi siamo d’accordo con lui, e nessuna persona pia si opporrà alla sua dottrina, se non in quanto sembrano essere errati solamente l’uso dei nomi e l’enunciazione del discorso, perché parla di “sostanze” invece di “ipostasi”. Un conto è parlare di sostanze, altro di ipostasi, perché anche Eunomio dice che sono tre ipostasi, ma tre sostanze; mentre per il cristianesimo sono, sì, tre ipostasi, ovviamente, ma una sola sostanza. Significante, significato, referente: tre ipostasi, ma una sostanza, cioè, un segno.