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29 settembre 2021

 

Metafisica Aristotele

 

Siamo al Libro I, 1052a, 35 dove si interroga sull’uno. L’uno ha dunque tutti questi significati: il continuo naturale, l’intero, l’individuo e l’universale; il continuo e l’intero sono uno perché il loro movimento è indivisibile, invece l’individuo e l’universale sono uno perché sono indivisibili la loro intellezione e la loro nozione. Qui Aristotele incomincia a dire delle cose in contrasto soprattutto con i parmenidei, che l’uno non è solo uno ma anche molti. 1052b, 20. Misura, poi… L’uno è anche misura, naturalmente …è ciò mediante cui si conosce la quantità. E la quantità in quanto quantità si conosce o mediante l’uno o mediante il numero; ma ogni numero si conosce mediante l’uno, e pertanto ogni quantità in quanto quantità si conosce mediante l’uno, e il termine primo mediante cui le quantità si conoscono è dunque l’uno. Perciò l’uno è principio del numero in quanto numero. 1053a, 20. Così, dunque, l’uno è misura di tutte le cose, perché conosciamo i costitutivi di una cosa quando la dividiamo o secondo la quantità o secondo la forma. E l’uno è indivisibile per questa ragione: perché in ogni genere di cose ciò che è primo è indivisibile. Ma non tutto ciò che è uno è indivisibile nello stesso modo, come ad esempio il piede e l’unità: questa è indivisibile i tutti i sensi, quello va invece posto fra le cose che sono indivisibili, come si è già detto, solo rispetto alla percezione sensibile: infatti, tutto ciò che è continuo è certamente divisibile. Ora, Aristotele affronta la questione della contrarietà. 1055a, 5. Poiché le cose che differiscono fra loro possono differire in grado maggiore o minore, ci deve essere anche una differenza massima e questa io chiamo contrarietà. E che a contrarietà sia la differenza massima risulta evidente per induzione. Infatti le cose che sono diverse per genere non ammettono fra loro alcun passaggio, ma sono fra loro distantissime e incomparabili. Invece le cose che differiscono per specie si generano dai contrari, presi come estremi. Ora la distanza fra gli estremi, e quindi fra i contrari, è massima. Ma ciò che in ciascun genere è massimo è perfetto: massimo, infatti, è ciò che non si può sorpassare, e perfetto è ciò al di la del quale non si può trovare altro. E la differenza perfetta è quella che ha raggiunto il fine, così come perfette, in generale, sono le cose in quanto hanno raggiunto il loro fine. E al di là del fine non c’è nulla, perché, in ogni cosa, il fine è il termine estremo che abbraccia tutto: perciò non c’è nulla fuori del fine e ciò che è perfetto non ha bisogno di nulla. Sta parlando della differenza, certo, però sta anche alludendo al bene, a ciò che è perfetto e che, quindi, non ha bisogno di nient’altro, è ciò che è compiuto. In effetti, la parola greca τέλος, il fine, è anche usata per indicare la perfezione: ciò che raggiunge il suo fine è la perfezione, è perfetto, perché oltre non si può andare. Ci si potrebbe chiedere: perché? Perché è così, perché se ha raggiunto il suo fine, il suo fine naturale, diciamola così, si è compiuto, cioè, ciò che era in potenza è diventato atto. Adesso siamo all’opposizione dell’uno e dei molti, che è sempre la questione di Parmenide. 1056b, 5. Lo stesso problema si può porre anche per l’opposizione dell’uno e dei molti. Infatti, se i molti si oppongono all’uno in senso assoluto, ne derivano alcune conseguenze assurde. Infatti l’uno dovrà essere poco o pochi, perché i molti si oppongono anche ai pochi. Inoltre, il due sarà molti, dal momento che il doppio è un multiplo e che il doppio si dice in base al due. Per conseguenza l’uno sarà poco: infatti, rispetto a che cosa il due è molti, se non rispetto all’uno e al poco? Infatti, non c’è nulla che sia poco ancor più di questo. Inoltre, se nella molteplicità c’è il molto e il poco così come nella lunghezza c’è il lungo e il corto, e se ciò che è molto è anche molti, e, viceversa, ciò che è molti è molto … allora il poco dovrà essere un molteplice. Pertanto, l’uno dovrà essere un molteplice, dal momento che è anche poco, e questo è necessario, se il due è molti. Ma, certamente, i molti da un lato, si dicono anche molto, però hanno una differenza di significato: per esempio l’acqua si dice molta, ma non molti. Notate il modo in cui procede: è una continua analogia, un continuo esempio, è un continuo utilizzare i luoghi comuni. Tutta la Metafisica è sorretta da luoghi comuni e lo vediamo bene da queste annotazioni che fa Reale. La prima proposizione dell’ontologia aristotelica – intendiamo dire la prima proposizione che è logicamente prima, non quella che prima si incontra negli scritti aristotelici o quella che prima fu messa a tema dallo Stagirita – può essere così formulata: nulla si sottrae alla predicazione dell’essere. Proposizione che equivale a quest’altra: tutto ciò che è, è essere. /…/ Il primo principio dell’ontologia aristotelica può dunque così formularsi: l’essere implica originariamente una molteplicità o, anche, l’essere è una originaria molteplicità. Di questo principio, che costituisce la base dell’ontologia e, in generale, di tutta la speculazione aristotelica, non si trova alcuna deduzione né alcuna dimostrazione sistematica. Evidentemente, la cosa non è senza una precisa ragione; sarebbe ben strano, infatti, che mancasse di una adeguata dimostrazione proprio il principio sul quale poggia la costruzione di tutto l’edificio speculativo del filosofo. In effetti, l’affermazione dell’originaria molteplicità dei significati dell’essere ridà una di quelle verità di cui è impossibile strutturalmente il darsi di una dimostrazione vera e propria. Essa risulta vera di verità immediata e trae la garanzia della propria validità non da altro che dalla semplice evidenza constatativa, ossia da un vedere che le cose stanno così e non in modo differente. È ciò che leggevamo la volta scorsa: c’è un punto oltre il quale non ci si deve più interrogare. Se qualcuno si interroga oltre questo limite, Aristotele, non dico che lo insulta ma lo dileggia, perché dice Aristotele: “Cercare di dimostrare l’esistenza della natura è cosa ridicola. È evidente infatti che gli enti naturali sono molteplici; il cercare di dimostrare cose manifeste è proprio di colui che non è in grado di giudicare ciò che per sé è conoscibile e ciò che non lo è”. Dunque, movimento e molteplicità degli esseri sono dati originari e sono evidenti e conoscibili di per sé in quanto tali. Tali essendo, contro chi li revoca in dubbio, non resta che l’arma dell’elenco (confutazione). Nella confutazione degli eleati Aristotele alterna gli argomenti in difesa della molteplicità dei significati dell’essere e quello in difesa del movimento. Abbiamo avuto modo qui di vedere, anche tenendo conto di queste annotazioni di Reale, di qual è la questione in gioco per Aristotele. In fondo, ciò che cerchiamo di cogliere nella Metafisica è quale ne sia la causa finale, cioè, che cosa davvero vuole fare Aristotele con la Metafisica. Diventa sempre più chiaro che ciò che vuole fare è stabilire che il senso comune è la premessa necessaria. Quando dice che non ci si deve interrogare oltre, sta dicendo che l’opinione comune è sufficiente e se è sufficiente è vera, viene data come vera. Questo ha anche un altro vantaggio, e cioè che porre l’opinione comune, la doxa, la chiacchiera, direbbe Heidegger, come premessa maggiore dell’induzione – lui parla sempre di induzione, di παγογή, che non è altro che l’analogia, come sappiamo – rende anche conto della facilità con cui è possibile persuadere le persone. Questo perché si pone un limite alla conoscenza: non devi andare oltre quel limite, se vai oltre quel limite dici delle assurdità, come dire che si pensa così, va bene così. Naturalmente, chi andava oltre quel limite, o cercava di farlo, erano i presocratici, erano loro che non volevano cessare di interrogare, che non erano appagati dal luogo comune. Gli eleati, i sofisti, Democrito, continuavano a interrogare, che è proprio ciò che Aristotele vieta di fare. Da qui anche, e c’è buon motivo di pensarlo, l’enorme successo di Aristotele, perché offre ai suoi lettori, attraverso il luogo comune, una verità limitata, una verità fruibile. Mettiamola così: è fruibile in quanto, essendo limitata, non va oltre, cioè, cessa di interrogarsi. È in questo senso che è limitata: devi fermarti lì, non devi chiedere il perché. Perché c’è la natura? Questa è una domanda che Aristotele ha vietato, che è la domanda che in fondo si facevano i naturalisti presocratici: perché la natura, cosa ci rappresenta, cosa significa? C’è la natura? Ecco, queste sono domande da non porsi. Questa cosa muove dal luogo comune, rimane nel luogo comune e sancisce il luogo comune come il corretto modo di pensare: i più pensano così, quindi, è giusto così, e non c’è bisogno di interrogarsi oltre. Ecco perché questo livore, che anche molti commentatori e traduttori hanno rilevato, nei confronti dei presocratici nelle sue pseudo-confutazioni. Dico pseudo perché di fatto non confuta proprio niente, lo vedremo anche fra poco. Il crimine dei presocratici fu questo: non vollero fermarsi ma continuarono a interrogare. Continuando a interrogare succedono quelle cose dalle quali Aristotele cerca di proteggere il suo discorso, i suoi lettori, tutti quanti, cioè, succede che il bene, che è la causa finale, quella cosa a cui tutti devono tendere naturalmente, non può in nessun modo stabilirsi: ecco, succede questo. E questa è una cosa che Aristotele non può in nessun modo tollerare. Perché devi smettere di domandare? Perché se continui a domandare, allora mi domandi anche del bene e io non so più risponderti, non so più cosa fare: questo bene come lo determino?

Intervento: Con Aristotele si afferma una sorta di realismo…

Sì, lui introduce a forza la materia, la materia come ποκείμενον, come la base di tutto. Incappando in problemi naturalmente, perché mettere a fondamento di tutto la materia, qualche cosa che non è determinabile, comporta qualche problema: non possiamo determinarla ma c’è. Perché c’è? Questa è già una domanda che non va bene, che è meglio non farsi. Questo perché se si continua a domandare allora succede quello che è successo con gli eleati, cioè si constata che quella cosa che si chiama realtà è una follia, non c’è nulla che la possa determinare, delimitare e soprattutto non c’è modo di conoscerla. Passiamo al Libro K 1061b, 15. Poiché anche il matematico si serve degli assiomi comuni, ma in una maniera particolare, sarà compito della filosofia prima studiare anche questi principi di cui fa uso il matematico. Infatti, l’assioma “se si sottraggono quantità uguali da quantità uguali, i resti sono uguali” è comune a tutte le quantità, ma la matematica prende l’assioma e lo applica ad una parte dell’oggetto di indagine che le è propria: ad esempio, alle linee, agli angoli, ai numeri o a qualche altro determinato tipo di quantità, considerando questi non in quanto esseri ma in quanto continuo a una, o a due, o a tre dimensioni; invece, la filosofia non svolge la sua indagine intorno a oggetti particolari e in quanto dotati di caratteristiche particolari, ma svolge la sua indagine sull’essere e su ciascuna cosa in quanto è essere. 1061b, 35. Esiste negli esseri un principio rispetto al quale non è possibile che ci si inganni… È il principio di non contraddizione. …ma rispetto al quale, al contrario, è necessario che si sia sempre nel vero: è questo il principio che afferma che non è possibile che la medesima cosa in un unico e medesimo tempo sia e non sia, e che lo stesso vale anche per gli altri attributi che sono fra loro opposti in questo modo. Dei principi di questo tipo non c’è una dimostrazione vera e propria, ma c’è solamente una dimostrazione ad hominem. Infatti, non è possibile dedurre questo principio da un ulteriore principio più certo; questo sarebbe necessario, se ci fosse dimostrazione vera e propria. Ora, contro chi afferma proposizioni contraddittorie, colui che intende mostrare che ciò è falso, deve assumere come punto di partenza una affermazione che sia identica al principio per cui non è possibile che la medesima cosa sia e non sia in un solo e medesimo tempo, ma che però non sembri essere identica. Infatti, è questa l’unica dimostrazione che si può addurre contro chi afferma la possibilità che siano vere affermazioni contraddittorie riferite al medesimo soggetto. Cioè: gli si dice che se nega il principio di non contraddizione allora non può negare il principio di non contraddizione. Orbene, coloro che intendono discutere insieme devono pure intendersi su qualche punto; infatti, se ciò non avvenisse, come potrebbe esserci fra loro un discorso comune? Dunque, bisogna che ciascuno dei termini che essi usano sia loro comprensibile e bisogna che significhi qualcosa e non molte cose ma una sola cosa; e se il termine significa molte cose, bisogna chiarire bene a quali di queste cose ci si riferisca. Ora, chi dice: “questo è e non è”, nega esattamente ciò che afferma, e di conseguenza nega che la parola significhi ciò che significa. Ma questo è impossibile. Sicché se l’espressione: “questa data cosa è” significa qualcosa, è impossibile che sia vera l’affermazione contraddittoria. Qui coglie la questione del linguaggio ma non riesce ad intenderla per la fretta di affermare che c’è comunque qualcosa di certo, di sicuro, di fermo. Inoltre, se una parola significa qualcosa e se ciò che significa è vero, ciò deve essere di necessità; ma ciò che è di necessità non è possibile che talora non sia. Dunque, non è possibile che le asserzioni contraddittorie, cioè le affermazioni e le negazioni, possano essere vere, insieme, di un medesimo soggetto. 1061b, 30. Dunque, di questi principi non c’è alcuna dimostrazione vera e propria; c’è, invece, una dimostrazione che confuta colui che sostiene queste teorie. Ed è probabile che, se si fosse interrogato in questo modo lo stesso Eraclito, egli sarebbe stato costretto ad ammettere che non è mai possibile che le proposizioni contraddittorie siano vere insieme, rispetto alle medesime cose. Egli abbracciò questa dottrina senza darsi ragione di ciò che diceva. Né Parmenide né Protagora e neanche Eraclito hanno mai negato il principio di non contraddizione. Aristotele attribuisce a questi la negazione del principio di non contraddizione al solo scopo di annullare il loro pensiero. Sono tutte argomentazioni ad hominem, non ad hoc, cioè, non colpiscono il discorso di Eraclito. Eraclito, non solo non ha mai negato il principio di non contraddizione, anzi, lo ha utilizzato e anche meglio di Aristotele. Infatti, Eraclito si è accorto che i due momenti della contraddizione sono due momenti dello stesso, che sono, sì, distinti ma ci sono entrambi. Quando dice “Tutto è uno, uno è tutto”, sta dicendo che perché ci sia il tutto occorre che ci sia l’uno, perché il tutto concettualmente è uno; infatti, si usa l’articolo determinativo “il” tutto. Lo stesso vale per l’uno: l’uno è tutto. Eraclito ha inteso che un elemento è quello che è per via del fatto che coesiste, potremmo dire così, con il suo opponente. Tant’è che Hegel scriverà molto tempo dopo che è pronto a sottoscrivere tutto ciò che ha detto Eraclito. Quindi, Eraclito, non solo non nega il principio di non contraddizione ma lo pone per ciò che davvero è. Il principio di non contraddizione mostra un elemento e ciò che gli si oppone, ma in modo tale per cui se dico che A è non (non-A), perché questa A sia, occorre che ci sia il non-A, perché sennò A non è niente. E questo Aristotele ce l’aveva sotto gli occhi ma non l’ha visto; ce l’aveva sotto gli occhi perché sapeva dell’essere e del non-essere, ma il non-essere è necessario all’essere perché l’essere sia, perché l’essere è tutto ciò che non è non-essere, sennò che cos’è? Per poterlo definire è necessario ciò che gli si oppone, cioè, ciò che l’essere non è, allora so che cos’è l’essere, sennò rimane qualcosa di indeterminato, di indefinito, un πείρων. Aristotele, quindi, fa qui un gioco che non è bello, attribuisce ad Eraclito, e poi anche ad altri, cose che costoro non hanno mai detto, che, anzi, utilizzavano il principio di non contraddizione anche meglio di lui. 1062b. infatti, così come l’affermazione e la negazione, se sono separate fra loro, non sono una più vera dell’altra, lo stesso vale anche se esse sono prese insieme e se sono considerate come costituenti una affermazione unica: questo insieme preso come affermazione non sarà per nulla più vero che la negazione dello stesso insieme. Infine, se non è possibile affermare nulla di vero, allora sarà falsa anche questa affermazione… Aristotele qui insiste dicendo una cosa che non c’entra nulla con il principio di non contraddizione. Dice, infatti, così come l’affermazione e la negazione, se sono separate fra loro, non sono una più vera dell’altra, lo stesso vale anche se esse sono prese insieme e se sono considerate come costituenti una affermazione unica: questo insieme preso come affermazione non sarà per nulla più vero che la negazione dello stesso insieme… cioè, sta ribadendo il principio di non contraddizione: l’essere oppure il non essere, non c’è una terza possibilità. Nessuno lo mette in dubbio. Il fatto è che, perché l’essere sia, è necessario che ci sia la sua negazione: è questo che dice il principio di non contraddizione, posto come principio primo, per usare i suoi termini. Vale a dire, se dico, dico necessariamente qualcosa: il mio dire ha bisogno del qualcosa che dico per essere il mio dire, cioè, ha bisogno di qualcosa che gli si oppone, di qualcosa che è altro, che nega il mio dire, e lo nega in quanto non è il mio dire, perché è il qualcosa che il mio dire dice. Se non ci fosse questo, il suo opponente, non ci sarebbe neppure il mio dire, così come se non ci fosse il non-A non ci sarebbe neppure la A, perché la A è tutto ciò che non è non-A. Severino lo aveva inteso, solo che lui manteneva separate le due cose, mentre Hegel, più saggio, compie quell’operazione di Aufhebung per cui il non-essere torna sull’essere e fa diventare l’essere quello che è, perché sennò rimane indeterminato, rimane nulla. 1063b, 5. Per quanto concerne coloro che sollevano le difficoltà di cui stiamo discutendo sulla base del puro ragionamento, non è facile fornire una soluzione, dal momento che essi non ammettono qualcosa di cui non si debba poi più chiedere ulteriormente ragione. Cioè: non si accontentano della spiegazione che fornisce lui. È questo il crimine, è questo che non sopporta: se dico che è così, è così. Qui lo dice in modo esplicito, cioè, costoro non smettono di domandare. 1063b, 10. Infatti, solo in questo modo sono possibili tutti i ragionamenti e tutte le dimostrazioni: non ammettendo nulla di cosiffatto, essi distruggono ogni possibilità di ragionamento e ogni possibilità di dimostrazione. Verissimo. Ma questo non significa che non dimostrino più, che non ragionino più, significa soltanto che si sono accorti di che cos’è davvero una dimostrazione e che cos’è davvero un ragionamento, sanno quello che stanno facendo. Zenone vede che sorpassa la tartaruga, non soltanto Achille ma lui stesso – se si mette a camminare sorpassa la tartaruga – lo vede benissimo, ma vede anche altre cose che altri non vedevano: sta qui la differenza. Pertanto, nei confronti di questi pensatori, non è possibile un ragionamento, mentre nei confronti di coloro che sollevano dubbi derivanti da difficoltà tradizionale… Quelli che si accontentano di qualche cosa e non continuano a domandare, non continuano a pensare …è facile rispondere e risolvere ciò che fa sorgere in essi il dubbio, come risulta chiaro dagli argomenti sopra addotti. 1063b, 25. Dunque, non possono essere nel vero né coloro che condividono l’opinione di Eraclito, né coloro che condividono l’opinione di Anassagora, altrimenti si verrebbero ad affermare i contrari del medesimo soggetto. Infatti, quando Anassagora dice che tutto è in tutto, dice che nulla è dolce più che non amaro,… Ma Anassagora non stava dicendo questo, non ce l’aveva con il dolce, con la cioccolata calda, ecc., ma stava parlando di concetti. Vedete come Aristotele scivola sempre verso l’esempio, verso l’παγογή, l’induzione, l’analogia. L’esempio è facile da capire per tutti, è facile da recepire, quindi, è condivisibile. Quello che Aristotele sta cercando è la condivisibilità delle sue tesi. Questa è la causa finale: una verità condivisibile. La verità dei presocratici non era affatto condivisibile, andava contro l’intuizione, andava contro “natura”. Usiamo le virgolette perché quando Eraclito diceva che la natura ama nascondersi, diceva qualche cosa che andava contro l’intuizione, contro la natura, nel senso che la natura, sì, la vedo, ma si nasconde mentre la vedo, non so più che cosa vedo, cosa sto guardando, come diceva il sofista. 1064b, 30. Perciò Platone non ebbe torto nell’affermare che il Sofista si occupa del non-essere. Cioè: del contingente, di ciò che può accadere. Il sofista fa bene: occupandosi del non-essere, si occupa esattamente di ciò che fa sì che l’essere sia l’essere. È come se stesse dicendo che non si occupa del significante ma del significato, che è ciò che fa esistere il significante, fa esistere quello che dico. Quindi, è vero, non aveva torto Platone, solo che l’accezione è differente, qui è intesa in modo dispregiativo. Tuttavia, è vero, i sofisti si occupavano del non-essere, cioè, della condizione perché qualcosa sia, e la condizione perché qualcosa sia è, come ha detto Hegel secoli dopo, che sia negativo, e cioè che neghi ciò che gli si oppone e che, quindi, sia di fatto una negazione: il positivo è negativo, ciò che si pone si pone in quanto nega. 1066b, 10. E che l’infinito non possa esistere in atto, è evidente, perché (se esistesse in atto), qualsiasi parte di esso dovrebbe essere ugualmente infinita. (infatti, l’infinito e l’essenza dell’infinito sarebbero la stessa cosa, nell’ipotesi che esso fosse sostanza e non accidente). A lui interessa che l’infinito sia un accidente. È un accidente per lui, perché non riesce a definirlo, a delimitarlo. Buona parte del lavoro che avevano svolto i presocratici, gli eleati, i sofisti, Democrito, teneva conto dell’infinito, dell’infinito come condizione del finito e viceversa. Pertanto, l’infinito o dovrebbe essere indivisibile, oppure, se divisibile, dovrebbe essere divisibile in parti, esse stesse infinite. Ma è impossibile che una medesima cosa sia molti infiniti; eppure, come una parte dell’aria è aria, così anche una parte dell’infinito dovrebbe essere infinito, se l’infinito fosse sostanza e principio. Allora l’infinito sarà senza parti e indivisibile. Ma è impossibile che tale sia l’infinito in atto, perché esso deve essere necessariamente una quantità. Dunque, l’infinito esiste come accidente. Tutto questo a lui serve per dire che dell’infinito non ci si deve occupare; l’infinito è un accidente che capita ma che non ha nulla a che fare con l’infinito in quanto sostanza. Certo, l’infinito come sostanza non è sostenibile, ma non è sostenibile nell’accezione che dà lui di sostanza, e cioè di sinolo, di materia e atto. Il fatto che non sia sostanza, nell’accezione che intende lui, non significa comunque che l’infinito non ci sia se non per accidente, cioè, come una cosa che capita, e non sia un principio, non abbia una sua sostanza. Quindi, non avendo una sostanza, è qualche cosa di cui è inutile occuparsi, ciò di cui dobbiamo occuparci è il finito, ciò che è composto di materia e forma, potenza e atto, ma finito. Aristotele in molte circostanze, anche nella Fisica, ha come una sorta di avversione per l’infinito, avversione che poi si è mantenuta nei matematici, che si ritrovano questa cosa e non sanno che cosa farsene, un’avversione che poi lo spinge ad andare contro i presocratici, che invece si erano accorti di questa cosa, che l’infinito c’è, perché se c’è il finito c’è anche l’infinito e non posso toglierlo. Che poi sia o no sostanza questo è un problema di Aristotele, perché è lui che si inventa la nozione di sostanza; non è che l’infinito, se non è sostanza, non esiste come principio ma solo come accidente. Porlo come accidente e non come principio significa nient’altro che questo: non ci si deve occupare dell’infinito. Perché? Questo lo aveva già detto nei libri precedenti: ciò che è accidentale non può essere oggetto di scienza, perché ora c’è e ora non c’è, quindi, è e non è simultaneamente e, pertanto, non è possibile misurarlo, dominarlo. L’infinito non si può misurare, quindi, non lo si può dominare, non lo si può domare, e allora ce ne sbarazziamo. E lui se ne sbarazza dicendo che è accidentale e se è un accidente non c’è scienza, conoscenza dell’infinito. Non c’è un sapere dell’infinito e non è possibile un sapere dell’infinito. Il che è curioso perché nelle pagine precedenti aveva detto che anche ciò che non è, è qualche cosa: anche ciò che non è, tuttavia, se ne parliamo è qualche cosa, ma l’infinito no, perché quello lo si può controllare ma l’infinito no. Se pongo l’infinito come un principio, come una sostanza, per dirla con i suoi termini, allora diventa qualche cosa con cui devo confrontarmi, qualche cosa di cui devo tenere conto perché c’è; se, invece, è un accidente, no, perché comunque non c’è scienza, non c’è un sapere dell’infinito, e quindi lo togliamo di mezzo. Togliendo di mezzo l’infinito toglie di mezzo buona parte del pensiero dei presocratici. 1067a, 15. Infatti, se il tutto è infinito, alcune parti di esso dovranno essere infinite, mentre altre no: dovrà essere infinito, poniamo, il fuoco oppure l’acqua… Ora, vi chiederete giustamente cosa c’entrano il fuoco e l’acqua. Stiamo parlando dell’infinito, di un concetto astratto, di un concetto che sorge dal pensiero. È il pensiero che fa sorgere l’infinito: quando si accorge che qualcosa è finito, lì sorge l’infinito, cioè ciò che va oltre il finito: πείρων, ciò che non ha limite. E lui tira fuori il fuoco e l’acqua. Perché? Perché ha bisogno continuamente di analogie, di esempi, per potere trarre a sé il consenso. Un consenso facile, perché parla del fuoco e dell’acqua …ma questo elemento infinito comporterebbe la distruzione degli elementi contrari. perché l’acqua e il fuoco si distruggono l’uno con l’altro. Va bene, sì, certo, ma che cosa c’entra? Stiamo parlando di un’altra cosa. Aristotele fa questo continuamente. Tutta la Metafisica, il pilastro su cui si regge tutto il pensiero occidentale, oramai potremmo dire il pensiero planetario, è costruita così. È per questo che è importante per noi tenere sempre conto di qual è, per usare i suoi termini, la causa finale della Metafisica, che cosa vuole fare con la Metafisica: vuole ottenere il consenso. Per ottenere il consenso, e questo lo descrive bene tra l’altro anche nei Topici, occorre utilizzare i luoghi comuni, perché sono le cose a cui credono i più, per cui se già le credono è facile ottenere il loro consenso. Se, invece, tutte le parti sono infinite e semplici, infiniti saranno anche i loro luoghi e infinito sarà il numero degli elementi. Ma se ciò è impossibile e se il numero dei luoghi è finito, anche il tutto necessariamente è finito. Questa è la sua argomentazione: se tutte le parti sono infinite e semplici, allora infiniti saranno anche i loro luoghi – ogni parte ha un luogo – e quindi sarà infinito il numero degli elementi. Ma questo è impossibile perché il numero dei luoghi è finito, e allora anche il tutto necessariamente è finito. Questa argomentazione è contro Eraclito: uno è tutto, tutto è uno. Il tutto è infinito per Eraclito, l’uno no, l’uno è uno. Ma qui, in questo modo che ha Aristotele di procedere, si gioca tutto quanto. Vediamolo bene. Dice tutte le parti sono infinite e semplici, infiniti saranno anche i loro luoghi. Intanto, chi gli ha detto che questo infinito è composto di parti e che, tra l’altro, queste parti abbiano un luogo. Per cui se ogni parte ha il suo posto ben preciso, siccome i luoghi non sono infiniti… E perché non sono infiniti? Ogni risposta che dà apre a tante domande, domande che però non bisogna porsi. Ora, tutto che cosa ci mostra? Che tutta questa enorme costruzione di Aristotele ha questo obiettivo: creare il consenso, creare un consenso intorno a luoghi comuni. Il fondamento della Metafisica è il luogo comune, lo dice lui stesso senza problemi: l’analogia, ciò che pare ai più, quello dobbiamo prendere, perché lui dice che dobbiamo partire pure da qualche cosa. È vero, nessuno glielo nega, ma il passo successivo, cioè, prendere questa cosa che è pensata dai più come premessa maggiore per costruire tutti i sillogismi, questa è un’altra storia. Certo, non posso non partire che dalla chiacchiera – questo è stato detto molto bene da Heidegger, da Husserl e da molti che hanno colto questo aspetto ma partire dalla chiacchiera, dal luogo comune, comporta anche il tenere conto che queste affermazioni sono costruite sui luoghi comuni, su arbitrarietà, mentre per Aristotele il luogo comune è la verità: vox populi, vox dei, se tutti pensano così allora è così. Per induzione. Se tutti pensano in un certo modo, tutti quanti avranno le loro ragioni; se hanno le loro ragioni, allora vuol dire che è così, che è vero. Quindi, a chi si rivolge Aristotele? Si rivolge ai più e cerca di carpire il loro consenso, utilizzando ciò stesso che utilizzano i più, cioè, i luoghi comuni. Questo è importante perché costituisce, in effetti, il punto di svolta del pensiero occidentale, avviato in buona parte da Platone, come abbiamo già detto varie volte, ma con Aristotele si compie questo passo, che è quello che sancisce il luogo comune come verità; non solo, ma sancisce anche che non bisogna domandarsi oltre. Questo è quello che pensano i più, questa è la verità, e letteralmente non si deve interrogare oltre. Questo è il messaggio di Aristotele, il messaggio su cui poi si è impiantato tutto il discorso occidentale. Aristotele il consenso lo ha ottenuto, ancora oggi si pensa aristotelicamente, ancora oggi si crede, si pensa che la logica conduca alla verità e, quindi, all’essenza delle cose. Il che è una stupidaggine colossale. La logica affonda le sue radici, come sappiamo bene, nella retorica. La dimostrazione, l’idea che la dimostrazione possa dire come stanno le cose: se dimostro che è così allora è così. Ma possiamo rifarci anche a Wittgenstein: chi ci dimostra la dimostrazione? E qui interviene Aristotele: non devi farti questa domanda, perché non ha dimostrazione, è così e bell’e fatto. Pensate alla fortuna di Karl Popper. Popper dice che ciascun asserto, ciascuna affermazione, ciascuna teoria, per essere scientifica deve essere confutabile. Ora, il principio di non contraddizione è una teoria, è un asserto; Aristotele dice che non è confutabile, e, in effetti, posto come principio primo e non come principio morale, non lo è – non posso negare che dicendo dico qualcosa. Quindi, se alla base di qualunque formulazione teorica c’è qualche cosa che ne è la condizione e che non è in nessun modo falsificabile, allora diventa un problema affermare che una teoria è scientifica se è falsificabile, perché questa teoria comunque è sorretta da qualcosa che non può essere falsificato e, pertanto, non è una teoria scientifica, escludendo la possibilità di procedere in quella direzione. Tutte le teorie scientifiche dovrebbero essere abbattute, una dopo l’altra. Aristotele ha inteso questo, ha inteso che non c’è possibilità di uscire dal principio di non contraddizione, solo che lo ha posto come un principio morale: non devi! Invece, è un “non puoi!” perché non puoi uscire dal linguaggio; quindi, se parli sei costretto, dicendo, a dire qualcosa, che è altro dal tuo dire. Ma questo non lo ha fatto e non l’ha fatto perché questo non avrebbe ottenuto il consenso di nessuno, così come non l’ottennero i presocratici.