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29 agosto 2018

 

La struttura originaria di E. Severino

 

Incominciamo a leggere La struttura originaria di Emanuele Severino. È un testo complesso, non semplice; però, è divertente seguire le argomentazioni di Severino. In effetti, abbiamo fatto bene a leggere prima il testo di Heidegger su Kant perché fa da collegamento, ciò che elabora qui Severino risponde, almeno in parte, a quell’esigenza che Heidegger avvertiva rispetto a Kant di una sorta di fondamento del fondamento, di metafisica della metafisica: non avendo la metafisica un fondamento bisogna trovare un’altra metafisica che la fondi. La struttura originaria, di cui parla Severino, sembra almeno in parte rispondere a questa esigenza: che cosa c’è oltre il quale non è più possibile andare? Non è più possibile perché, andando oltre, ci si autocontraddice. Intanto, subito una questione. Per Severino la struttura originaria è la Necessità. Cosa intende con Necessità? Intende il fatto che qualche cosa che è non può non essere. Questo è Parmenide. Quindi, è questa la struttura originaria, quella che sta a fondamento di ogni cosa: il fatto che qualunque cosa se è, è. A pag. 16. La struttura originaria della Necessità è innanzitutto l’apertura di senso, concretamente determinata… Qui troverete molte eco di Heidegger. Severino è un grande conoscitore di Heidegger, anche se poi ha preso un po’ le distanze; però, Heidegger salta un fuori un po’ dappertutto. …che non può essere negata da uomini o da dei, in alcun tempo, in alcuna circostanza, in alcun universo; e non può essere negata nel senso che la negazione di tale apertura (ossia del senso che in essa si apre) è un togliersi da sé, ossia è un mettere dinanzi a sé alla propria forza negativa facendosi quindi travolgere da essa. La struttura originaria è assolutamente libera dalla propria negazione – perché è essenzialmente legata all’autonegazione della propria negazione. La Necessità è tale perché la negazione della Necessità è di necessità autonegazione. Sta dicendo in realtà una cosa moto semplice, e cioè la Necessità toglie la propria negazione. Per esempio, invece, il nichilismo la mantiene, nel senso che una cosa è se stessa ma anche il suo contrario o altro da sé. Se io mantengo la negazione, per cui qualcosa è ma anche non è, mi trovo di fronte a una contraddizione. Quindi, la Necessità è ciò che toglie la negazione di sé. Adesso, vedremo come. Appunto in quanto struttura, la Necessità non è punto semantico, ma relazione di ambiti semantici. Questi ambiti sono chiamati, ne La struttura originaria, “immediatezza logica” (“L-immediatezza”) e “immediatezza fenomenologica” (“F-immediatezza”). L’“immediato” non ha nulla a che vedere con la “coscienza comune” o con il presentarsi “naturale” delle cose al di fuori o indipendentemente da ogni comprensione teorica o interpretazione del “dato”. Sarebbe quella che Heidegger chiamava “semplice presenza”. L’“immediato” è ciò che non mediante altro, ma per sé e in sé appare come Necessità. Questo è fondamentale. L’“originarietà” della struttura originaria è appunto l’“immediatezza” di questa struttura. Qui vediamo che c’è tutta la questione centrale del libro, e cioè che ciò che è immediato vuol dire che appare necessariamente da sé per sé, cioè, non è mediato da altro; non ha quindi qualcosa come causa, non ha un qualche cosa che lo fondi, non ha un qualche cosa che lo giustifichi, ma appare per sé immediatamente, appunto in modo non mediato. Ne La struttura originaria l’immediatezza del nesso tra i significati (= cose significanti = significare delle cose = enti) è posta come immediatezza “logica” (la logicità, il logo, essendo appunto il nesso tra i significati) e l’immediatezza della logicità viene chiamata “principio di non contraddizione”. La logicità si manifesta come un qualche cosa che è per sé, è da sé, nel senso che non è giustificato, non è motivato, non è sostenuto e sorretto da nient’altro che da se stesso. L’immediatezza della notizia, ossia dell’apparire delle varie forme di essi che uniscono i significati… Questa immediatezza della notizia, cioè del farsi noti o, come si diceva una volta dell’avere scienza, cioè del sapere, questa immediatezza della notizia, cioè il sapere di un qualche cosa, questi nessi tra i significati che riguarda l’immediatezza della notizia, lui la chiama “immediatezza fenomenologica”, l’immediatezza di ciò che appare. C’è un’immediatezza logica, che è il principio di non contraddizione, cioè, una cosa appare ed è quella che è e non un’altra cosa: io vedo questo aggeggio, vedo questo e non un’altra cosa, non è altro da sé, cioè, non è altro da ciò che mi appare. L’immediatezza fenomenologica è data dal fatto che tutti questi significati che intervengono – il significare delle cose – quindi, ciò che mi significa, il modo in cui mi appare, è il fenomeno. Questo lo diceva anche Husserl. Quindi, da una parte l’immediatezza logica, il fatto che una cosa è quella che è e che non è altro da sé; dall’altra, l’immediatezza fenomenologica, il fatto che ciò che mi significa rappresenta il modo in cui mi appare, che è dato da una serie di significati - il posacenere so che sta sul tavolo, che mi è stato regalato, ecc. - tutte queste cose sono il fenomeno che mi appare in quanto nesso di significati. Ma ciò che in questo libro viene chiamato “principio di non contraddizione” e “fenomenologia” è qualcosa di essenzialmente diverso dal principio di non contraddizione e dalla fenomenologia in quanto tratti fondamentali del nichilismo, cioè dell’alienazione dell’Occidente. Per Severino “alienazione dell’Occidente” vuol dire il fatto che l’Occidente si fonda sull’idea del divenire, e cioè che le cose vengono dal nulla, quindi, appaiono e poi scompaiono, ritornano nel nulla. Questa per Severino è la follia, è la contraddizione per antonomasia, perché vuol dire che questa è ma anche non è, quindi, non è eterna ma c’è e non c’è. E questa per Severino è appunto la follia dell’Occidente: il credere nel divenire delle cose, che le cose vengano dal nulla e tornino nel nulla.

Intervento: In questo discorso c’entra qualcosa la morte…?

Nel discorso occidentale, sì, certo. Anche la morte è un modo di tornare nel nulla: prima che nascesse era nel nulla, a un certo punto compare e poi torna nel nulla. In questo senso, sì. Non c’è, però, tutta l’articolazione che fa Heidegger intorno alla morte, in Severino non si pone, non in quei termini. Il principio di non contraddizione pensa l’ente come ciò che sì è ente, e non non-ente, sin tanto che esso è (ossia è ente) ma che per altro può non essere, l’ente viene pensato come ciò che, in quanto ente, è niente. Perché se qualche cosa viene dal nulla e torna nel nulla è niente. Il principio di non contraddizione viene preso nel discorso occidentale, anche quello filosofico, come un che di inevitabile, nel senso che viene preso come se appartenesse alla cosa: se una cosa è ma può anche non essere, allora questa cosa è niente. Solo che il discorso occidentale non se ne accorge, è questo che sta dicendo, semplicemente vive, diciamo così, in questo stordimento. E la fenomenologia, da un lato è il riconoscimento della possibilità che l’ente, uscendo dall’apparire o non essendovi ancora entrato, divenga o sia ancora un niente, dall’altro è la convinzione di “vedere” il divenire dell’ente, cioè il suo uscire e ritornare nel niente – quel divenire che implica di necessità la nientità dell’ente come tale, ma che non è visto in questa sua implicazione dalla fenomenologia, la quale, come tratto fondamentale del pensiero dell’Occidente, nasconde nel proprio inconscio, come accade nel principio di non contraddizione, la convinzione che l’ente sia niente e la lascia entrare nel linguaggio nella forma mascherata della convinzione che il divenire dell’ente (il suo uscire e ritornare nel niente) appare (= è un contenuto fenomenologico), o della convinzione che al di fuori dell’apparire l’ente può essere un niente. Questo, secondo Severino, è il modo in cui l’Occidente pensa tutta la fenomenologia, compreso anche Heidegger, e cioè che l’apparire di qualche cosa non sia niente altro che l’apparire di un qualcosa, nel momento in cui non è più niente e non è ancora niente. In questo momento, in questo attimo, ecco che appare… e questa è l’idea della fenomenologia, del discorso occidentale. Ne La struttura originaria si dice invece: “Anche quando si avverte che il principio di non contraddizione non è soltanto una regola del pensare... Così come è inteso generalmente: è meglio che quando uno parla eviti di contraddirsi continuamente. È questa l’idea che si ha del principio di non contraddizione. …ma investe l’essere (= l’ente), ma poi si intende l’essere (l’incontraddittorio… Per Severino l’essere è incontraddittorio. …come di per sé indifferente a che sia o non sia – sì che con il principio di non contraddizione non si viene a dire altro che, quando l’essere è, è, e quando non è, non è… Questo dice il discorso occidentale mentre per Severino non è che l’essere è e poi non è, l’essere è. È questa a differenza che c’è tra il discorso occidentale e Severino. … – si intende sempre formalisticamente l’incontraddittorietà, e proprio per questo la si nega: appunto perché si lascia valere la supposizione di un momento in cui l’essere non sia. C’è questa idea che l’essere possa non essere. Su questo, secondo Severino, è fondato tutto il pensiero occidentale, sull’idea che l’essere possa non essere, e questa lui la chiama follia. Risiede nel significato stesso dell’essere, che l’essere abbia a essere, sì che il principio di non contraddizione non esprime semplicemente l’identità dell’essenza con sé medesima, ma l’identità dell’essenza con l’esistenza (o alterità dell’essenza dall’inesistenza. Quindi, l’identità dell’essenza con l’esistenza. Avrete senz’altro presente come invece pone Heidegger, come tutto l’esistenzialismo, la questione dell’esistenza: l’esistenza è prioritaria rispetto all’esistenza, cioè, l’esistenza è la condizione dell’essenza. Io esisto, così come sono, nel modo in cui sono, bene o male che sia, e in base a come sono traggo la mia essenza, e pertanto è mutevole, ovviamente. Se invece muovo dall’essenza, l’essenza è quello che è, sempre e necessariamente. L’essenza è quella cosa ferma, immobile, l’essenza del cavallo è la cavallinità, che sta nell’iperuranio, immobile, e quindi le cose esistono ma dipendono dall’essenza, dall’immobilità della loro essenza… poi, possono sì variare ma la loro essenza è quella. Ma la concezione “formalistica” dell’incontraddittorietà dell’ente… cioè, quella comune, che non è bene contraddirsi, che l’essere è oppure non è. Questo è il pensiero occidentale, l’essere è oppure non è, e su questo non transige, ma ammette che l’essere possa non essere, cosa che a Severino non va giù. …che è in verità negazione dell’incontraddittorietà dell’ente… Perché ammette che l‘essere possa non essere. …domina l’intera esistenza storica del principio di non contraddizione; sì che in questo libro si continua a chiamare “principio di non contraddizione” ciò che si mantiene a di fuori non solo del significato storico, ma dell’essenza stessa di tale principio. Lui qui non intende il principio di non contraddizione come una concezione formalistica, per l’essere è oppure non è. No, il principio di non contraddizione è ciò che impedisce, per Severino, di pensare che l’essere non sia. E questo è dovuto al fatto che nel libro si dà risalto all’intenzione esplicita di tale principio – cioè alla sua volontà che l’ente sia incontraddittorio – rispetto alla sua intenzione implicita, inconscia, cioè alla volontà che l’ente sia niente. Abbiamo, quindi, queste due posizioni: l’ente è incontraddittorio, quindi anche l’essere, ovviamente. Per Severino l’ente è incontraddittorio, se è, è, non c’è la possibilità che non sia. Per il discorso occidentale o è e non è, oggi c’è, domani non c’è. O, anche, si preferisce dare risalto al linguaggio all’astratto elemento apparentemente comune alla verità dell’essere e all’alienazione della verità dell’essere: l’incontraddittorietà dell’essere. Ci sarà il principio dell’incontraddittorietà dell’ente, poi, di fatto, si tratta dell’incontraddittorietà dell’essere, perché è l’essere che dà all’ente la sua enticità, e pertanto se è incontraddittorio l’essere anche l’ente è incontraddittorio. Ma questo elemento astratto è apparentemente comune, perché non è un universale che si individui diversamente (nella verità e nell’alienazione della verità), permanendo tuttavia come tale in entrambe le sue individuazioni, bensì è un “universale” che, individuandosi nell’alienazione della verità, insieme si nega (cioè si costituisce come volontà inconscia che l’ente sia niente); sì che solo separando astrattamente il suo individuarsi dal sua negarsi nella stessa individuazione, esso può venire inteso come un elemento comune alla verità e alla alienazione della verità dell’essere. Soltanto se non tolgo la negazione che il discorso comune pensa dell’essere, o attribuisce all’essere, ci troviamo allora nell’alienazione della verità, perché le cose possono essere, non essere o qualunque cosa. Ma ne La struttura originaria la testimonianza dell’impossibilità che l’ente non sia spinge verso la verità dell’essere anche il senso della “fenomenologia”, ossia del concetto dell’apparire dell’ente. La fenomenologia è questo, è l’apparire dell’ente. La verità dell’essere, come Necessità del legame che unisce ogni ente al suo essere (cioè al suo non essere un niente) è insieme verità dell’apparire dell’essere, cioè Necessità che il divenire dell’ente appaia non come un uscire e un ritornare nel niente, ma come apparire e scomparire di ciò che, in quanto ente, è necessariamente legato al suo essere e, così, è eterno. Ma è appunto nel modo in cui stabilisce il senso della “fenomenologia” che questo libro, incominciando a parlare la lingua della testimonianza della Necessità, rimane sotto la soggezione della lingua che testimonia l’isolamento della terra dalla Necessità. In realtà sta dicendo una cosa molto semplice, e cioè che la verità dell’essere deve essere isolata dalla sua negazione. Quando lui parla dell’isolamento della terra – la terra è la totalità degli eventi per Severino, non molto lontano dal “mondo” di Heidegger – parla di questo isolamento della totalità degli enti dalla possibilità della loro negazione. Appunto per questo si è detto che ne La struttura originaria la testimonianza dell’impossibilità che l’ente non sia spinge il senso della “fenomenologia” verso la verità dell’essere; e cioè un tratto della verità dell’essere (la L-immediatezza) spinge l’altro tratto (la F-immediatezza, la fenomenologia) verso il senso che gli conviene nell’unità concreta dei due tratti, e che ancora non raggiunge perché ancora è soltanto spinto verso tale unità, anche se nell’estrema vicinanza di essa. Il punto è questo. Il “punto di vista che se ne sta alla semplice considerazione della totalità dell’essere F-immediato” è il punto di vista che separa astrattamente l’apparire dell’ente dall’impossibilità che l’ente non sia… Cioè, separa astrattamente la F-immediatezza dal senso autentico concreto della L-immediatezza. Quindi, se l’apparire dell’ente viene astrattamente separato dall’impossibilità che l’ente non sia, allora il divenire dell’ente si manifesta come suo uscire e ritornare nel niente. Qui si tratta, nel discorso occidentale, della separazione dell’ente dall’impossibilità che l’ente non sia. C’è l’ente e l’impossibilità che l‘ente non sia, il discorso occidentale li separa e, quindi, rende possibile che l’ente non sia. Questa era la cosa più importante da intendere, e cioè, ripeto, il discorso occidentale non separa l’ente dall’impossibilità di non essere e, quindi, è possibile per il discorso occidentale che l’ente non sia. Per Severino questa separazione è invece impossibile; per lui l’ente non può, in nessun modo, non essere, quindi, deve togliere l’impossibilità di non essere, deve assolutamente eliminarla. Come la elimina? Tenete conto che tutto questo ha a che fare con la struttura originaria, cioè con il fondamento della metafisica. Cosa c’è a fondamento della metafisica? L’avevamo visto con Kant, letto da Heidegger, questo fondamento verteva sull’intuizione pura, però aveva a che fare, come rilevava Heidegger, con l’uomo, con l’esserci, quindi un fondamento che è difficile da porre proprio come un fondamento; invece Severino dice che a fondamento c’è l’essere, essere che è e non può non essere. Chiaramente, dovremo veder perché. A pag. 22. Tuttavia, se “metafisica” è il linguaggio che esprime il rapporto degli enti con la totalità dell’ente e il senso fondamentale di questo rapporto allora questo libro è “metafisica” (unitamente a tutti gli altri miei scritti). Cioè la metafisica può configurarsi sia come nichilismo (questa è la configurazione storica della metafisica), sia come negazione del nichilismo. È un po’ quello che dicevamo tempo fa quando parlavamo di una metafisica dogmatica e di una metafisica strutturale, non è molto diverso. A pag. 24. Il dire è l’apparire delle relazioni tra le cose, e quindi anche della relazione tra le cose e quelle certe cose che sono i segni delle cose e delle loro relazioni. Il dire come un apparire delle relazioni tra le cose. Tra le cose, quindi, tra i segni delle cose, tra altre parole. Quindi, secondo Severino, il dire non è altro che l’apparire delle relazioni tra parole. Ma il dire, in quanto struttura originaria… È interessante questo: il dire come struttura originaria. …Ma il dire, in quanto struttura originaria, è l’identità tra il qualcosa detto e il qualcosa di cui esso è detto, ossia è l’apparire dell’identità delle cose che sono in relazione:… L’identità tra il mio dire e questo posacenere è l’essere questo un posacenere. …la relazione è identità. Infatti, come si scrive la relazione più semplice, dalla quale tutte le altre derivano? A è b. Se di qualcosa si dice altro da ciò che esso è, il dire dice che qualcosa è altro da sé, cioè il dire è un contraddirsi. Se dico che questo posacenere non è un posacenere è una contraddizione o una figura retorica, che ovviamente si basa sulla contraddizione. Ma il contraddirsi non è ciò la cui negazione è autonegazione; anzi, è il contraddirsi (il dire che si nega) a costituirsi come siffatta negazione. Che il dire, in quanto struttura originaria, sia l’apparire dell’identità, significa che solo in quanto identità che appare il dire è ciò la cui negazione è autonegazione. Il dire non è tanto il dire che questa cosa non è questa cosa - anche, certo, ma non è solo questo – ma è il fatto che qui c’è un’identità, cioè, ciò che mi appare è un’identità, ciò che mi appare è ciò che mi appare e non può essere altro da ciò che mi appare. Quindi, non è tanto il modo in cui si formula ma il fatto che ciò che mi appare non può essere altro da ciò che mi appare. Questa è la sua identità, è questo il dire la cui negazione è autonegazione: il fatto che questa cosa sia questa cosa, indipendentemente da che cosa è, se io aggiungo che è un posacenere aggiungo una determinazione ma la cosa fondamentale è come se dicessi “questo è qualcosa ma non è qualcosa”, è questa l’autonegazione. Una proposizione, di qualsiasi tipo essa sia (“analitica”, “sintetica a priori”), può essere un dire della struttura originaria della Necessità solo in quanto essa è, innanzitutto, questa identità. Possiamo dire l’identità così: A è A. La distinzione tra i vari tipi di proposizioni è interna all’unico senso che la proposizione, in quanto predicazione, può assumere in quanto essa si costituisce come la stessa struttura originaria o come elemento di tale struttura. Anche una “proposizione sintetica” come “questa lampada è accesa”, se appartiene alla struttura originaria (se cioè è una delle predicazioni che si strutturano come struttura originaria), è necessario che si costituisca come un’identità, come un dire che non dice che qualcosa è altro da sé, non lo identifica al suo altro, ma lo dice identico a sé. Questa è un’altra questione importante. Questa proposizione “la lampada è accesa” Severino la considera non come un insieme di elementi ma come un tutto. È questo tutto che non è negabile. “La lampada è accesa”: in questo momento la lampada è accesa. Il dire “la lampada è accesa” è qualcosa di più della lampada e dell’essere accesa, è una situazione di questo momento. Vedete che qui ritorna qualche cosa di Heidegger, cioè il fatto che un elemento non è mai preso per sé ma è preso storicamente: la lampada è quello che è in questo momento e in questo momento per me la lampada è accesa, è questo che è la lampada. …se è vero che la loro teoria della falsità di ogni proposizione non tautologica è una proposizione non tautologica, è anche vero che ogni proposizione non tautologica è identificazione dei non identici, ossia è affermazione che qualcosa è ciò che non è tale qualcosa (è affermazione che A è non-A), e quindi è contraddizione. E se Platone abbandona il problema senza risolverlo, è invece proprio sul fondamento della logica di quella prima ipotesi che per Hegel ogni proposizione (e per Hegel la “proposizione” è espressione del finito) è contraddizione – e non soltanto le proposizioni sintetiche, ma anche le stesse tautologie, perché se in “A = A” (“A è A”)l’altro da A “si affaccia soltanto come parvenza, come immediato dileguarsi, e “il movimento” che va oltre A “rientra in se stesso”, cioè ricade su A (logica, II, sez. I, cap. II, “L’identità”, Nota 2°), d’altra parte l’affacciarsi dell’altro non è così nullo da non provocare una contraddizione tra il fatto che “l’identità (A = A) non dice nulla”, non arriva a nulla nel suo muoversi oltre A, e il fatto che, peraltro, questo movimento, per poter “rientrare in se stesso” deve essersi portato A all’identificazione con il diverso da A (sia pure un diverso che dilegua non appena è toccato da A). Qui fa un’obiezione a Hegel, che cercava di recuperare la negazione pensando a un’Aufhebung, a un superamento di un qualche cosa; però, dice Severino, questo non toglie la contraddizione. Senonché, ne La struttura originaria (cap. III, parr. 10-14; cap. VI, parr. 9-18), si mostra che in una proposizione del tipo A = A la contraddizione non si costituisce semplicemente tra la “nullità” e la “parvenza” dell’altro da A, come ritiene Hegel, ma tra la nullità e l’esistenza dell’altro da A; perché A che compare come predicato è necessariamente altro da A che compare come soggetto, altrimenti l’identità tra A e A non riuscirebbe ad aprirsi, cioè non si avrebbe a che fare con A = A, ma semplicemente con A. in questo modo, essendo contraddizione non solo le proposizioni “sintetiche” (A = B), ma anche le proposizioni “tautologiche” (A = A), nessuna proposizione può appartenere, in quanto contraddizione, alla struttura originaria della Necessità. Ora, invece, lui ci mostra come questo per lui è possibile, come sia cioè possibile risolvere questo problema. L’isolamento della terra dalla Necessità è il fondamento dell’accadimento del nichilismo, e il nichilismo è la forma di isolamento che domina la storia dell’Occidente – l’isolamento degli enti dal loro essere… Se io accolgo la possibilità che l’essere non sia, isolo l’ente dal suo essere, e che cosa succede se isolo l’ente dal suo essere? Che non c’è più l’essere e, quindi, l’essere non è: questo è il nichilismo. A pag. 28. Ma l’autentico dire – il dire della struttura originaria della Necessità – non è una contraddizione attestata dall’”esperienza”. Se dico “A è A”, uno è soggetto e l’altro è predicato. La contradizione del dire non appartiene all’essenza del dire – e quindi non è nemmeno un contenuto che appare -, ma è il risultato della separazione, ossia dell’isolamento reciproco in cui vengono a rinchiudersi i tratti del dire. Cioè, isolo la A e la B e, isolandoli, che cosa succede? La proposizione dice “A è B”, io li isolo, tolgo la B, quindi, tolgo ciò che A è, e quindi A non è più, cessa di essere, cioè, isolo l’ente dal suo essere. “A è B”, la B è l’essere di A, se io tolgo la B tolgo l’essere all’ente e l’ente è niente. Questa lampada è accesa. (A è B; A = B). Ma questa lampada, cui conviene l’essere accesa, non è una lampada cui non convenga l’essere accesa, cioè non è un esser lampada che sia separato dal suo essere acceso e il cui significare sia significante separatamente dal significare in cui consiste l’essere acceso. Ci sta dicendo che questa proposizione “la lampada è accesa” è una proposizione che dice di sé che la lampada è accesa, che la lampada è questo: è accesa. La lampada è che cosa? È accesa. Quindi, è questo la lampada, è l’essere accesa.

Intervento: È lo stesso discorso che faceva Heidegger rispetto alla lavagna posizionata male.

Esatto. Dicevo prima che troverete continue evocazioni di Heidegger. Se il significare di questa lampada è significante separatamente dal significare dell’esser accesa, allora questa lampada, in quanto così separatamente significante, è un non essere accesa… Perché se io la isolo dal suo essere accesa rimane la lampada. Se questa lampada, cui conviene l’essere accesa, è significante semplicemente come l’esser questa lampada, se cioè non è significante, insieme, come ciò cui conviene l’essere accesa – se è significante nel suo essere semplicemente chiusa nel proprio significato e on nel suo essere aperta al predicato -, allora il predicato vien fatto convenire a ciò cui tale predicato non conviene… Se io isolo questa lampada dall’essere accesa, e l’essere accesa è ciò che predico della lampada, allora questo predicato viene fatto convenire a ciò cui tale predicato non conviene perché l’ho separata e, quindi, non conviene più. In questa convenienza il soggetto è simpliciter ciò che non è, cioè, il predicato. Se io considero un soggetto, la lampada, e il che è accesa un predicato, è chiaro che tengo ferme queste due cose e le tengo assieme, mi trovo allora di fronte a una contraddizione perché una cosa è ciò che non è, perché la lampada non è essere accesa e l’essere accesa non è la lampada. Più avanti scrive e riprende la sua equazione A è B o A = B, che sarebbe una contraddizione, perché A non è B, oppure A non è A, in quanto uno è soggetto e l’altro è il predicato, ma lui scrive: (A = B) = (B = A). Prende insieme i due termini, non li scompone, e pone un’equivalenza fra questi due termini e la loro inversa, come dire che sono la stessa cosa: dire che la lampada è accesa è come dire che la lampada è accesa. Ma questa proposizione va presa per quello che è, non separata nei vari elementi. Se si separano gli elementi, ecco che si isola la terra dall’impossibilità che l’ente non sia, e quindi si dà all’ente la possibilità di non essere. Si è allora nella follia, nella contraddizione. A pag. 30. Ciò che dunque nel linguaggio filosofico tradizionale viene chiamato “proposizione sintetica” (A = B) è una forma dell’alienazione della verità. Quando infatti nella lingua dell’Occidente… La lingua dell’Occidente è la lingua filosofica, la lingua della metafisica, la lingua della contraddizione, della follia. Quando infatti nella lingua dell’Occidente si dice semplicemente che questa lampada è accesa, non si ha a che fare con una semplificazione linguistica che riduce l’equazione all’indispensabile; si ha a che fare con l’isolamento di A = B dall’identità originaria (A = B) = (B = A), e in questo isolamento A = B diventa un atomo semantico indipendente che finisce con l’apparire, anche all’interno dell’alienazione della verità, come una contraddizione. Ma se lui lo scrive nel modo in cui lo scrive, (A = B) = (B = A), non c’è più nessuna contraddizione. Anche dicendo che questa lampada è questa lampada (A = A), si pone una diversità ineliminabile tra il soggetto e il predicato… Rimaniamo sempre lì. Quindi, come occorrerebbe scriverla questa identità analitica? Esattamente come quella di prima: (A = A) = (A = A). questa è la formula incontraddittoria per Severino, perché se separiamo questa proposizione che dice che A è A, che non è fatta di due A ma è una proposizione, è un asserto, un asserto che non può essere scomposto nei suoi elementi, perché se lo scompongo non ho più quella proposizione. Se dico che la lampada è accesa, questa proposizione è quello che è, è una proposizione, ma se dico solo la lampada non è più una proposizione, è un termine; e così l’essere accesa oppure no. Devo considerare la cosa esattamente come richiamava prima Sandro rispetto alla lavagna di Heidegger. Questa lavagna che è mal posizionata è una lavagna in quanto mal posizionata. Se io distinguo, la lavagna non mi dice più nulla. Per me il fatto è che sia la lavagna mal posizionata, non posso separare questi elementi. Poi vedremo esattamente perché non posso separarli. A pag. 31 precisa perché l’identità di A = B e di B = A non ha nulla a che vedere con una sorta di rovesciamento della teoria tradizionale della conversione. Nella struttura originaria, dire, ad esempio, che tutte le stelle sono luminose non è dire che tutti i luminosi (tutte le cose luminose) sono stelle, ma che il luminoso è tutte le stelle. Il luminoso (l’esser luminoso, la luminosità) è l’essenza di tutte le cose luminose in quanto cose luminose. Dire che quella lampada è accesa è l’essenza di quella lampada in quanto quella lampada è accesa. È questo il concetto che occorre avere ben chiaro per seguire il discorso che fa Severino. Ed è questa l’identità di cui parlava, identità che toglie la sua contraddizione. Se dico che la lampada è accesa, cioè dico che A è B, devo dire anche che questa eguaglianza è uguale a B = A, e cioè che la lampada è accesa è un’identità che non ammette la sua negazione, cioè non ammette altro se non se stessa, non ammette nient’altro che la propria identità. E l’identità è data da A = B e B = A, questa è l’identità perfetta che esclude la contraddittorietà. È come se non avesse più spazio la contraddittorietà per inserirsi in questa proposizione. L’isolamento del soggetto dal predicato del dire è fondato, come ogni altro isolamento, sull’isolamento della terra dalla Necessità. La Necessità è sempre la necessità del principio di non contraddizione, la necessità che una cosa sia quella che è e non essere altro. L’isolamento originario della terra fonda ogni altro isolamento all’interno della terra isolata. L’isolamento che costituisce il dire dell’Occidente trova così nel proprio fondamento l’isolamento che costituisce il nichilismo dell’Occidente. È chiaro che se in una proposizione io tolgo al soggetto il suo predicato, nel senso che tolgo alla A il suo essere B, perché li isolo, tolgo al significante il suo significato, tolgo alla A ciò che la A è, ed è B. Il senso dell’isolamento è questo: isolare l’ente dall’essere. Se io isolo i due termini, io isolo la A dall’essere B, e quindi non è più né B né altro perché non è, semplicemente. Se si toglie l’essere all’ente, l’ente non è.