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29-7-2015

 

Intervento: Nella Struttura originaria Severino parla del significato e del semantema infinito che dovrebbe contenere tutti i significati, intanto cosa dobbiamo intendere con “semantema”?

Il semantema è la minima unità di significazione, generalmente si intende così. Severino sa ovviamente che “significato” è un qualche cosa difficile da stabilire e potrebbe, una teoria del significato condotta in un certo modo, porre delle obiezioni alla sua posizione teorica, e quindi qual è la sua operazione? Inserisce il significato all’interno del Tutto. Se si intende bene qual è la posizione di Severino c’è la possibilità di ricondurre tutte le sue posizioni alla posizione centrale: il Tutto. Il Tutto astratto è quello che si manifesterà solo all’infinito. Un significato rinvia sempre a un altro significato ovviamente, questo lo sa perfettamente, ma rinviando sempre a un altro significato instaura un procedimento infinito e allora il significato trova la sua ultima collocazione, cioè un punto in cui non rinvia più ad altri significati all’infinito, questo “infinito” non è una figura di rinvio infinito ma è l’infinito in quanto Tutto. Il Tutto è una sorta di, parafrasando Galilei, di “infinito attuale”, mentre “l’infinito potenziale” è la sequenza per esempio di numeri naturali, è un infinito potenziale perché l’uno non contiene già tutti gli altri, occorre che ci siano il due, il tre, il quattro eccetera, questo è l’infinito potenziale cioè è in potenza non è in atto. Ma l’intervallo tra uno e due, è delimitato da questi due numeri, ma all’interno fra uno e due quanti punti è possibile inserire? Infiniti, quindi in questo spazio fra uno e due c’è l’infinito “attuale”, è qui e adesso, non è in potenza perché è lì già, compreso tra uno e due. Il Tutto di cui parla Severino è un infinito attuale, non è in potenza, non è da venire ma è già qui. Si potrebbe muovere un obiezione a Severino: quando dice che tutto ciò che è concreto sarà, apparirà tutto quanto simultaneamente, ma questo apparirà solo all’infinito, attende di essere di essere il Tutto astratto che collima con il Tutto concreto, coincide a questo punto e non c’è più la contraddizione C.

Intervento: una cosa che non riesco ad intendere è quando dice di questo semantema che il significato rinvia a tutti i significati se no non è un significato …

Heidegger direbbe che “storicizza” il significato, storicizza il significato significa che questo significato non è isolato dal contesto in cui è inserito ma vive, per così dire, di tutti gli altri elementi di cui è fatto, è la stessa questione che poneva già a suo tempo De Saussure, e cioè il significato è tale per una differenza da tutti gli altri significati, ma perché sia differente da tutti gli altri significati occorre che ci siano tutti gli altri significati. Severino riprende in effetti la questione semiotica della significazione in questo modo, cioè sa molto bene che un significato da solo, isolato dal resto del mondo è niente, e quindi non può che essere in relazione con tutti gli altri significati, il problema per lui a questo punto è inserire questa cosa problematica all’interno del tutto, perché finché si è nel linguaggio è molto difficile riuscire a fermare qualche cosa perché le parole si susseguono l’una l’altra ininterrottamente, e quindi riuscire a stabilire un qualche cosa che sia quello che è, è assolutamente arduo. Per questo è stato costretto, come abbiamo visto in quell’altro testo che abbiamo letto Oltre il linguaggio, per trovare un qualche cosa che vada oltre il linguaggio, è stato costretto a stabilire che c’è una sorta di identità a sé di qualche cosa, che è quella che consente al linguaggio di esistere, il problema è che questo qualche cosa non è al di là del linguaggio, semplicemente è una delle procedure, delle regole che fanno funzionare il linguaggio, certo, senza di quella il linguaggio non funziona, ma questo non significa che sia fuori del linguaggio o al di là del linguaggio, o oltre il linguaggio, è nel linguaggio. Ciò che lui pensa sia oltre il linguaggio è linguaggio, però doveva salvare la sua posizione dell’“incontrovertibile”, che è una questione complicata perché abbiamo visto che già è possibile muovere qualche obiezione, poi comunque immaginare che un qualche cosa governi il linguaggio da fuori il linguaggio è difficile, perché questa cosa che lui pone oltre il linguaggio, cioè l’“incontrovertibile”, è incontrovertibile in seguito a una considerazione, non è che sia incontrovertibile per volontà divina, ma diventa incontrovertibile in seguito a un’argomentazione e questa argomentazione occorre che sia fatta di linguaggio. Quindi ci troveremmo in questa situazione davvero singolare: per stabilire che qualche cosa è oltre il linguaggio necessitiamo del linguaggio, senza il linguaggio non potremo mai dire che c’è qualcosa oltre il linguaggio e anche per mantenerla oltre il linguaggio, cioè per poterla confermare come tale, siamo sempre costretti a utilizzare il linguaggio e quindi come possiamo dire che qualcosa è oltre il linguaggio se in nessun modo potremmo affermarlo, neanche pensarlo se non ci fosse il linguaggio? È un problema, ma per quanto sia vero che occorre che qualche cosa sia stabilito e cioè che qualche cosa sia quello che è per poterlo utilizzare, porlo oltre il linguaggio, come dicevo prima, costituisce un grosso problema, mentre posto come una delle regole che fanno funzionare il linguaggio, cioè un aspetto del linguaggio, risolve immediatamente il problema. Ma a questo punto tutta la costruzione intorno al Tutto astratto o concreto che sia crolla, cioè non ha più nessuna ragione di esistere. Il ragionamento di Severino è semplice e anche molto efficace di fronte agli obiettori, qualunque cosa si obietti, comunque quella obiezione è quella che è, non è un’altra cosa e qualunque parola, qualunque significato si utilizzi in quel momento è quello che è, non è un altro, anche se questo significato è debitore, per essere quello che è, di tutti gli altri significati, ma nel momento in cui lo uso è quello che è, e quindi riconduce ogni obiezione a questo “incontrovertibile”. Ma o diciamo che è quello che è per volontà divina, o se no, in effetti come fa a sapere che è quello che è? Non lo può dimostrare ovviamente, infatti lui non lo dimostra lo pone semplicemente come quell’elemento a base di qualunque dimostrazione e su questo non ha torto, però posto così come quell’elemento che è a base di ogni dimostrazione lo pone inesorabilmente come un elemento del linguaggio, di cui è fatto il linguaggio, perché se fosse fuori, come lui tenta di fare, appunto ponendolo oltre il linguaggio, ci troveremmo di fronte a questo irresolubile che a questo punto non è affatto incontrovertibile, cioè che per stabilire che qualcosa è fuori dal linguaggio sono costretto a usare il linguaggio, e se fosse davvero oltre il linguaggio, cioè fuori del linguaggio, sarebbe totalmente inaccessibile, perché essendo fuori dal linguaggio (anche se non dice “fuori dal linguaggio”, ma “oltre il linguaggio” per cui c’è già il linguaggio ma questa cosa va oltre. Chiaramente non è così ingenuo dal porlo fuori dal linguaggio, fuori dal linguaggio sarebbe non connesso con nessun elemento linguistico quindi sarebbe niente, non sarebbe né significante né significato, sarebbe nulla. Ma anche ponendola “oltre il linguaggio” dovunque si voglia andare oltre il linguaggio, cioè si spinga il linguaggio in avanti sarà sempre linguaggio e non c’è via di uscita, questo è effettivamente l’incontrovertibile non quello che dice lui …

Intervento: è la premessa di un discorso, quello di Severino che sarebbe “oltre il linguaggio” come sostiene lui, è ciò che fa partire quel discorso, sarebbe una premessa …

Più che premessa è una condizione, una premessa non è necessariamente una condizione perché uno può porre come una premessa una certa cosa ma non è la condizione per parlare, perché può cambiare la premessa come gli pare mentre la condizione no, la condizione significa che senza quell’elemento che segue non può darsi. Quindi Severino è straordinariamente interessante, infatti stavo pensando di riprendere il Destino della necessità, ci sono molti elementi che riguardano proprio il linguaggio, perché come dicevo l’altra volta, se lui avesse posto l’incontrovertibile non come ciò che è oltre il linguaggio ma come una procedura che fa funzionare il linguaggio, una cosa che appartiene al linguaggio, sarebbe stato assolutamente coerente …

Intervento: ma avrebbe dovuto accogliere la questione del linguaggio …

Esattamente, però a questo punto ciò che ha costruito intorno all’incontrovertibile quindi al Tutto astratto o concreto che sia e quindi la verità dell’Essere non sarebbe più sostenibile, o sarebbe stato sì magari in parte sostenibile ma non più necessario. Mi ha fatto molto piacere sentire da parte vostra che avete apprezzato queste letture che ho proposte in questo ultimo anno che sono state interessanti devo dire, ci hanno condotti a riflettere di nuovo su delle questioni approcciandole in modi differenti e produttivi. Vedete, porre la teoria del linguaggio, così come abbiamo fatto, è qualche cosa che consente di reperire con relativa facilità i punti deboli di qualunque argomentazione, comprese quelle più articolate, elaborate, sofisticate tipo Heidegger, Severino o altri, lo stesso Sini, perché ciascuna di queste argomentazioni muove da qualche cosa che è necessariamente posto come ipostasi e cioè come qualche cosa che è dato ma non appartiene al linguaggio. Ora porre invece qualunque cosa come qualcosa che appartiene al linguaggio, da una parte rende le cose molto più semplici come abbiamo appena visto, perché non costringe ad arrampicarsi sugli specchi, come si suole dire, per sostenere qualcosa che per altro non è sostenibile, ma che non sia sostenibile questo ci consente di affermarlo proprio la teoria del linguaggio, e quindi, dicevo, questa facilità che la teoria del linguaggio offre nella lettura di qualunque teoria, di qualunque posizione teorica di cogliere il punto debole non è tanto una esibizione di maggiore capacità intellettuale, ma una volta in più dice che qualunque problema, essendo stato costruito dal linguaggio, può essere risolto dallo stesso linguaggio e quindi non c’è problema che non sia risolvibile, non è risolvibile solo se pongo qualche cosa fuori dal linguaggio, allora sì, allora mi condanno a una serie di aporie irresolubili e paradossi devastanti, infiniti e devastanti, perché da fuori del linguaggio qualche cosa deve dimostrare di sé di essere quello che è, cosa che può farsi solo all’interno di una struttura argomentativa, se no come argomento, come dimostro qualche cosa? Anche se voglio argomentare sono preso nel linguaggio. L’aspetto complicato è che, ponendo, avevo messo come soggetto la frase nominale “qualunque cosa appartiene al linguaggio” e allora questo ha degli effetti collaterali e cioè qualunque costruzione che muova da questa posizione che afferma che “qualunque cosa appartiene al linguaggio” ovviamente non può esimersi dall’applicare questa conclusione all’affermazione stessa, è questo che rende complicate le cose perché a questo punto che valore ha questa affermazione? È dimostrabile? No, in effetti noi giungemmo ad affermare che l’affermazione “qualunque cosa se è qualcosa è perché appartiene al linguaggio” non è dimostrabile ma è una costrizione logica, e in effetti anche Severino, anche se non pone la questione in questi termini, pone il suo “incontrovertibile” non come qualche cosa di dimostrabile, perché sa che non può esserlo, ma come qualche cosa che è la condizione di qualunque dimostrazione e cioè quindi come una necessità logica. Però ecco, dicevo, questa affermazione rende qualunque argomentazione, qualunque teorizzazione quella che è, e cioè un gioco linguistico e niente più di questo. Vi rendete conto che a questo punto l’incontrovertibile può essere sì posto, certo, se io affermo che “qualunque cosa se è qualcosa è perché appartiene al linguaggio” questa affermazione potrebbe apparire incontrovertibile ma anche questa affermazione è un gioco linguistico, voglio dire che è incontrovertibile a condizione che io ponga delle regole tali per cui questa affermazione è incontrovertibile, ma sto dicendo che l’incontrovertibile è costruito, non è mai qualcosa che si dà in natura, è una costruzione, una costruzione linguistica ovviamente, è questo il punto di scollamento tra la posizione di Severino e la nostra, e cioè che affermare l’incontrovertibile è “incontrovertibile” in base a delle regole che si sono poste, non è incontrovertibile di per sé. E quindi è incontrovertibile se è un gioco linguistico, ma se è un gioco linguistico allora è fatto da certe regole che sono arbitrarie e non possono essere necessarie, qualunque regola posta come necessaria occorrerebbe che dimostrasse di essere tale, però se qualunque dimostrazione che dimostri che una certa regola è necessaria è una dimostrazione, essendo una dimostrazione è fatta di elementi linguistici, questi elementi linguistici sono fatti di significati, come sappiamo bene, questi significati sono fatti da altri significati: è possibile stabilire una significato una volta per tutte, cioè porlo fuori da una struttura linguistica, perché solo a questa condizione manterrebbe il suo significato? Ovviamente no, perché se lo poniamo fuori dal sistema linguistico non è più un significato. La questione è complicata però, come dicevo prima, qualunque problema che si incontri in ambito teorico, teoretico, come sta accadendo adesso, sono problemi teoretici, più che teorici cioè riguardano i fondamenti, le condizioni di qualunque teoria, il problema teorico è per esempio il porre la “teoria delle pulsioni” come fondamento di tutto, quello è un problema teorico perché non è sostenibile, diventa un problema teoretico se ci si interroga sulla affermabilità di una cosa del genere. Dicevo che qualunque problema teoretico si incontri è comunque risolvibile se si tiene conto della struttura del linguaggio, risolvibile nel senso che non ha soluzione oppure ha tutte le soluzioni che si vuole, non ha soluzione perché non c’è l’ultimo significato, ma perché dovrebbe avere l’ultimo significato? Qui torniamo a quello che ci diceva la volta scorsa Gentile, il quale insisteva a lungo sul fatto che quando ciascuno pensa qualche cosa lo pensa vero, cioè ha una fede assoluta in quello che sta pensando, qualunque cosa sia, anche la peggiore idiozia, comunque ha una fede assoluta nella veridicità di ciò che sta pensando perché se no non lo penserebbe. Dire “ma quando uno mente …” è una cretinata, se mente, lo diceva lui stesso, è perché “sa” che un’altra cosa è vera, direi che è auto evidente, però questo avere fede assoluta in ciò che si sta pensando, questa è una questione importante, infatti volevo riprenderla per accennare ancora qualche cosa perché ha a che fare con ciò di cui ci stiamo occupando, ci occuperemo, nel Nietzsche di Heidegger, e cioè con la volontà di potenza, Gentile non la pone in questi termini però Heidegger sì, perché se ho una fede incrollabile in ciò che penso allora è come se esprimessi pensando la massima potenza, la massima potenza possibile, pensabile, una potenza che non ha pari e infatti non avevamo torto a porre la questione della volontà di potenza, della quale nessuno sa da dove arrivi, nella struttura stessa del linguaggio. Gentile ci fornisce un elemento in più che riguarda ancora in buona parte l’aspetto fantasmatico più che l’aspetto strutturale, però questa fede assoluta in ciò che dico viene dal fatto che se penso qualche cosa, cioè ho concluso qualche cosa, lo penso vero. Il pensiero è tale quando conclude un qualche cosa se no, sì, è pensiero certo, ma non è ancora stabilito, non è ancora fermato su qualche cosa, non ha appunto “af-fermato” qualche cosa, nel momento in cui afferma qualche cosa questo pensiero pensante esprime, dicevo, il massimo della volontà di potenza in quanto è come se reperisse ogni volta lo stato di fatto delle cose, cioè la realtà. La realtà che è sicuramente la più affascinante delle illusioni, perché è quella che conferma che quello che sto pensando è vero, ma lo conferma in un modo singolare perché anche là dove la verità si pone come adeguamento, cioè come correttezza del pensiero rispetto alla cosa, compie questa operazione: primo, stabilendo che la realtà è una certa cosa, dopo di che fa coincidere quello che dice con questa cosa che lui stesso ha posto, quindi la realtà è vero che conferma quello che si dice, ma lo conferma in seconda battuta …

Intervento: è quello che dice Gentile…

Infatti sto riprendendo alcune cose che diceva Gentile, per questo ve lo avevo letto, sapevo che vi sarebbe piaciuto, Gentile che ha avuto una vicenda simile a quella di Heidegger per quanto riguarda la sua vicenda politica. Spesso questi pensatori peccano di grande ingenuità politica e sociale, e cioè immaginano che possa darsi l’eventualità che chi va al potere si occupi effettivamente del bene comune, è una follia, una contraddizione in termini se è pensata bene, eppure ci sono cascati sia Heidegger sia Gentile. La grande illusione ha trovato qualcuno, Hitler, che avrebbe rilanciato la tradizione germanica, pura e scevra da tutte le contaminazioni tecnicistiche dell’Occidente, dell’America e della Russia. Heidegger poi si è accorto che invece la tecnica veniva sviluppata fortissimamente in Germania, soprattutto per la costruzioni di armi, e allora ha incominciato a scricchiolare qualcosa, ma soprattutto si è accorto che Hitler non aveva affatto in animo di mantenere le promesse, come fanno i politici.

Intervento: sarebbe curioso intendere questa idea di “bene” del prossimo da dove viene fuori, vista la demagogia …

Per Heidegger era abbastanza semplice, era abbastanza chiaro il motivo della sua adesione al partito nazista, immaginava che il nazismo e in parte era quello che prometteva il nazismo, potesse ricondurre la Germania alla tradizione, una tradizione di pensiero, una tradizione che lui faceva risalire a Hegel, a Kant ma soprattutto alla Grecia antica, e a Hölderlin perché Hölderlin con le sue poesie aveva rilanciato o quanto meno posto una sorta di accostamento fra l’ideologia tedesca e il pensiero greco antico più autentico, infatti in Heidegger l’“autentico” è il pensiero presocratico, cioè quello che non è stato viziato dalla metafisica platonica, quindi Anassimandro, Anassagora, ma soprattutto Parmenide ed Eraclito. Però al di là di questo, tutto ciò che abbiamo considerato in questo ultimo anno ci ha condotti a pensare meglio; non è che abbiamo dette cose nuove, però considerare meglio, più attentamente, forse in modo più articolato e attento, quanto la teoria del linguaggio sia imprescindibile per intendere qualunque cosa, anche questioni che appaiono molto complesse, possono essere ricondotte a questioni molto semplici e cioè trovare un qualche cosa che non sia, come il linguaggio, assolutamente ingestibile, che è esattamente invece quello che ha reperito Freud e della quale cosa ha fatto la sua forza: l’ingestibilità della parola, quindi della fantasia, quindi di tutto ciò che viene costruito mentre si parla, questo per qualunque ontologia è una maledizione. Era questo il problema gravissimo, che oggi non è più gravissimo perché è stato risolto e cioè che per parlare occorre che qualche cosa sia quello che è, eppure non può essere quello che è, di questo già Heidegger se ne era accorto, e Severino in modo più esplicito, più attento forse e ognuno ha cercato di trovare una sua soluzione, e sappiamo qual è quella di Severino per esempio, l’elemento oltre il linguaggio, l’ incontrovertibile che è la condizione perché il linguaggio possa essere quello che è, come dire che perché qualcosa sia quello che è occorre che ci sia l’incontrovertibile, solo che questo “incontrovertibile” se non è nel linguaggio non è neanche incontrovertibile, non è niente. Quindi mentre si parla occorre che qualche cosa sia quella che è per poterla usare, ma siamo sicuri che sia proprio così? Poniamoci bene la questione, noi affermiamo che un’affermazione, una parola, una qualunque cosa per poterla usare occorre che sia quella che è, come facciamo a essere certi che sia quella che è? Possiamo dimostrarlo? No, e in effetti non è stata posta come una dimostrazione ma come una necessità logica, ma questa necessità logica fa sempre parte del linguaggio, quindi è una necessità vincolata al linguaggio, perché non è fuori dal linguaggio, non c’è nessuna necessità fuori dal linguaggio, qualcosa può essere posto come necessario all’interno del linguaggio dal suo funzionamento e per il suo funzionamento, ma fuori dal linguaggio non c’è nessuna necessità. Quindi, se la necessità stessa è all’interno del linguaggio anche questa “necessità” appare quindi non necessaria, se non all’interno di un gioco che può essere il linguaggio per esempio, quindi una certa cosa non è né quella che è, né è quella che non è, semplicemente viene utilizzata in un certo modo. Pensate al modo in cui una macchina utilizza un’informazione, un input, per la macchina è quello che è? O non è quello che è? Non è né l’una cosa né l’altra, la utilizza in un certo modo, la utilizza in base a delle istruzioni, quindi dire che per potere utilizzare qualche cosa quella cosa deve essere quella che è è falso, perché c’è almeno un caso in cui non è vero, perché per potere dire che è “quella che è” devo anche poterlo argomentare, poterlo affermare, poterlo dimostrare, anche per dire che non è quella che è. E qui torniamo al punto di prima, questo comporrebbe una infinitizzazione del problema, cosa che farebbe rabbrividire Severino e infatti per evitare questa infinitizzazione, che è prerogativa proprio del funzionamento del linguaggio, si è inventato il “Tutto”, il Tutto attuale cioè l’infinito attuale, dove tutto è presente, ma è una costruzione perché lo costringe lui a essere così, ma è una costruzione, un’argomentazione che può farsi, lui l’ha fatta ma può provare che sia così? No, può soltanto, per esclusione, dedurre che dovrebbe essere così, però è un po’ come stabilire che una cosa è quella che è, non lo posso fare se non all’infinito ecco il “semantema” all’infinito, ecco che all’infinito trova la sua collocazione …

Intervento: la responsabilità a questo punto è mia, se una cosa è quello che è …

È la responsabilità del linguaggio, come è responsabile una macchina dell’utilizzo di un input in un certo modo, è responsabile? Sì, nel senso che è lei che fa quella cosa, ma è il linguaggio che è responsabile, comunque quando dico che “io sono responsabile” intendo il linguaggio, certo. Intervento: Severino pone il principio di non contraddizione ponendo sì che è una cosa alternativa ma dice anche che qualunque obiezione al principio di non contraddizione è comunque un autonegazione, nel senso che qualunque affermazione che nega il principio di non contraddizione nega se stessa, è un autonegazione. Perché lui afferma che comunque il principio di non contraddizione è un primo principio, ha bisogno di dire che una cosa è quella che è e non è altro da sé, ma ha bisogno anche del fatto che comunque qualunque negazione di questa cosa è un auto negazione, deve comunque fondarsi comunque sul principio di non contraddizione. Intendo dire che quando lei parlava della cosa che è quella che è, è possibile che sia altro da sé a questo punto perché se è altro da sé comunque a questo punto si auto nega non è più quella cosa, non è niente.

Sì, e infatti anche una macchina per potere utilizzare un’informazione deve utilizzarla in un certo modo, ed è quello che è. Sto dicendo che utilizzare un elemento per quello che è, è una struttura del funzionamento del linguaggio che prevede che un elemento venga utilizzato in un certo modo per potere agganciare altre cose, ora per il funzionamento del linguaggio così come per una macchina non si pone il problema che quell’elemento sia identico a sé oppure che la sua negazione sia un auto negazione, è superfluo, è superfluo perché non ne ha bisogno, semplicemente lo usa in una certa accezione, in un certo modo e poi va avanti e non si cura di sapere se è identico a sé; non potrà mai dimostrare né di essere identico a sé, né di essere differente da sé, se proprio dobbiamo dirla tutta perché è un principio circolare quello di cui fa uso Severino, e lui se ne era anche accorto a un certo punto, cioè tutto quello che dice è vero se lui accoglie il fatto che il principio di non contraddizione sia esattamente quella cosa lì, cioè sia esattamente quello che è, ma per potere sapere che è quello che è, occorre il principio di non contraddizione che lui impone per potere affermare il principio di non contraddizione. Sono questioni che fuori dalla struttura del linguaggio non hanno soluzione, perché si può anche infinitizzare il discorso che fa Severino e questo è uno dei modi, se lui dice che qualunque cosa che neghi il principio di non contraddizione è una autonegazione, accoglie o, usiamo le parole di Gentile, ha fede che il principio di non contraddizione sia quella cosa lì, sia esattamente quello che pensa che sia, quindi lo costruisce e lo utilizza in quel modo, dopo di che, avendo fede che sia esattamente quello allora, applicato a queste cose, ha quel risultato, ma se non avesse fede che è così? Potrei anche dire che una cosa che nega se stessa semplicemente cancella se stessa e impone un’altra cosa, e che è questo il motivo per cui si continua a parlare, proprio perché ciascun elemento è differente da sé, perché se fosse identico a sé si arresterebbe, essendo differente da sé è costretto a chiamare un altro elemento dalla struttura linguistica e quindi a proseguire. Severino continuerebbe a dire che ciascuno di questi elementi che io ho utilizzato per dire queste cose è quello che è, però a questo punto diventa un po’ più complicato per lui costruire una contro argomentazione, perché io posso continuare a costruire la mia contro argomentazione e continuare a dirgli che è proprio perché ciascun elemento non può essere quello che è che posso continuare a dire: proprio perché non è quello che è, costringe il linguaggio a cercare un altro significante, ed è proprio per questo che il linguaggio prosegue. Ovviamente non posso dimostrarlo, sono solo costruzioni, sono solo giochi linguistici, un omaggio al divenire se volete, va bene, però anche questa posizione è sostenibile ed è stata anche sostenuta, non proprio così però è possibile sostenerla e sostenere invece il fatto che se fosse identico a sé, contrariamente a quello che dice lui non ci sarebbe la possibilità di aggancio di un altro significante. Oltre a tutte le altre disquisizioni che possono farsi come so che è identico a sé? Perché c’è il principio di non contraddizione? Come so che c’è il principio di non contraddizione? Perché c’è il principio di contraddizione. Entro in un loop senza uscita, come dire che il principio di non contraddizione si sostiene da sé, queste è una delle critiche che tra le altre faceva Łukasiewicz, però in modo un po’ squinternato, in effetti questa obiezione è più robusta. Tutti questi giochi linguistici che qualcuno potrebbe anche dire che lasciano il tempo che trovano, sono però un esercizio notevole, un esercizio che poi vi ritrovate nel momento in cui c’è qualche questione che vi assilla, non che questo risolva le questioni che vi assillano ovviamente, ma dando al vostro pensiero una maggiore rapidità ed efficacia lo mette nelle condizioni di trovare una soluzione a ciò che in quel momento vi assilla, o almeno si spera, poi non c’è nessuna garanzia, ma è una possibilità, diciamo che se il pensiero si fissa, si ferma su qualche cosa, che trovi una via di sbocco è fortemente improbabile, e questo l’ho sempre detto: meglio si pensa e più velocemente e più tutte le cose che si incontrano si articolano immediatamente, si dissolvono addirittura più che risolversi …

Intervento: proprio riguardo alla questione della psicanalisi, non si ascolta mai che ciò con cui si ha a che fare sono solamente argomentazioni, in una seduta la persona parla e si lamenta, si arrovella, rimugina eccetera sta argomentando né più né meno … questa è la questione che in teoria dovrebbe essere la più semplice …

Sa perché non è così semplice? Lo potrebbe, ma interviene la volontà di potenza che è irrinunciabile, è irrinunciabile perché è il linguaggio che è fatto a quella maniera, e se non ci si accorge di questo non c’è niente da fare, si continua a essere travolti dalla volontà di potenza inesorabilmente, per questo dobbiamo saperne di più, anche in termini retorici. Non c’è volontà che non sia volontà di potenza, questa la lezione per così dire di Nietzsche. La teoria del linguaggio, come l’ho costruita, cancella la volontà di potenza perché non ha più nulla su cui fare presa, e questo è catastrofico per gli umani, perché vivono solo di quello.