Dobbiamo
verificare se, come andiamo dicendo, tutto ciò che avviene sul pianeta avvenga
con il solo scopo di raccontare qualcosa.
Dicevo
l'altra volta tutto ciò che ciascuno fa, pensa, immagina, sogna spera e dispera
non abbia nessun altro obbiettivo se non quello di proseguire il suo racconto.
La
questione è interessante, pone in effetti in prima istanza un elemento che può
essere di notevole dirompenza perché elimina qualunque obbiettivo, dalla
felicità altrui alla propria, tutto questo cessa di avere un valore. Come se
diventasse nulla, cioè diventasse quello che probabilmente è e cioè una figura
retorica all'interno di un racconto. Dunque raccontare, dicevamo, è esporre,
esporre che cosa? Dei fatti? Forse più propriamente esporre delle fantasie cioè
delle altre costruzioni, o più propriamente ancora esporre delle fantasie. Le
fantasie non sono altro che una serie di proposizioni che vengono costruite dal
discorso, ma in ogni caso potremmo dire ancora più semplicemente che raccontare
è dire, dire qualunque cosa.
Nel
racconto, come sappiamo l'abbiamo visto la volta scorsa, c'è un elemento da cui
si parte per giungere ad una conclusione. La conclusione è importante nel
racconto, quando qualcuno chiede ma dove vuoi andare a parare con tutte queste
storie vuole la conclusione a tutti gli effetti, la conclusione allude
all'utilizzo del racconto. Un racconto ha sempre una conclusione, cioè ha un
utilizzo per un altro racconto. Prendete ad esempio, faccio un esempio molto
banale, la morale nelle fiabe ha un utilizzo per un altro racconto, serve
perché se io so che i cattivi saranno puniti e i buoni saranno premiati allora
il racconto che seguirà terrà conto di questo aspetto, e quindi il racconto
successivo sarà costruito a partire da questa morale, i cattivi saranno puniti
con l'inferno ed i buoni andranno in paradiso.
Dunque,
il fatto che un racconto abbia una conclusione qualunque essa sia e perché
occorre che essa sia utilizzabile per altri racconti, esattamente come ciascuna
proposizione occorre che sia utilizzabile da altre proposizioni, se non è
utilizzabile è un problema, non serve a niente e non entra a far parte di
nessun gioco.
Intervento:
però potrebbe essere il racconto religioso.
Io
sto usando termini molto generali in cui rientra anche il racconto religioso,
anche lui ha una sua morale ed è utilizzabile perché se io so che c'è l'inferno
e il paradiso allora i racconti che io farò terranno conto di questo aspetto.
Tenuto
conto del fatto che qualunque racconto ha una conclusione, questa conclusione
non è altro che la possibilità di essere utilizzata da altri racconti, possiamo
valutare che anche il gioco ha una conclusione che ha questo obbiettivo: il
poter essere utilizzata per altri giochi. Provate a riflettere ad un qualunque
gioco, qualunque gioco ha una conclusione, la fine di una partita. Questo fine
della partita, questa conclusione, proviamo a considerare se ha un valore
unicamente perché utilizzabile in altri giochi o in altre partite. Un gioco che
è concluso che cosa lascia dietro di sé? Una serie di mosse, di operazioni,
queste operazioni possono aver condotto alla vittoria o alla sconfitta, al
piacere o al dispiacere, a seconda dei casi, ma ciascuna volta le operazioni
che si sono compiute saranno tenute in conto nella partita successiva. Per
essere ripetute, se si è vinto, per essere modificate se si è perso.
Pensate
ad un gioco che può essere giocato una volta sola e mai più. Potrebbe essere
interessante? In effetti una delle prerogative del gioco è la sua ripetitività.
Perché deve essere ripetibile? Perché ciascuna partita, o meglio, la
conclusione di ciascuna partita va a segnare, dunque a costruire la partita
successiva.
Qualcuno
terrà conto, che so , che ha fatto degli errori giocando a poker e quindi cerca
di non commetterli più, per esempio. Un gioco che può essere giocato una volta
sola e mai più non può essere giocato, in effetti non ha nessun interesse,
perché non si può acquisire nulla, non può essere ripetuto. Lo stesso motivo
per cui non interessano i giochi di puro azzardo, che ne so, vince chi tira su
la carta più alta, questo generalmente è l'inizio di un gioco per stabilire chi
può cominciare ma il gioco fine a se stesso è una stupidaggine. Perché non
lascia nulla al giocatore e infatti non viene giocato, non ha nessun interesse.
Come
dire che un aspetto importante del gioco così come del racconto è la sua
ripetitibilità, è il fatto che ciascuna partita, come ciascun racconto, apre ad
un'altra partita o ad un altro racconto.
Viene
da domandarsi se si racconta, per esempio un racconto, perché ci sia un altro
racconto. Potrebbe essere. Potrebbe darsi un racconto perché non ci sia più
nessun altro racconto? Difficile. Quale è il bello di un racconto, Cesare?
Intervento:
Il bello di un racconto sta nei rinvii, le connessioni che sono costruite.
Quando
si legge un romanzo, per esempio, mentre lo si legge si costruisce una specie
di scena, se lei e io leggiamo lo stesso romanzo non è detto che costruiamo la
stessa scena , che ci immaginiamo un paesaggio o una stanza che è descritta
allo stesso modo, come dire che leggendo il romanzo se ne costruisce
letteralmente un altro da ciò che si legge, quindi il racconto nel momento
stesso in cui si racconta è un altro racconto, costruisce più propriamente un
altro racconto. Come se ogni volta che si racconta si costruisce un altro
racconto. A partire da questo testo che ciascuno legge, ascolta come gli pare,
ci sono dei personaggi, ad uno un personaggio è simpaticissimo ad un altro è
inviso. Vuol dire che si sono costruiti due racconti diversi.
Se
l'obbiettivo del racconto è quello di fare provare emozioni, fare rivivere le
stesse cose che vivono i protagonisti del racconto, allora effettivamente il
racconto ha la funzione di costruire un altro racconto che è quello che
ciascuno gli costruisce sopra. Perché uno scrive un racconto? Perché si diverte
facendolo, in genere avviene così.
Intervento:
oppure è l'obbiettivo a cui vuole arrivare.
Sì,
ma che sia quello l'obbiettivo è indifferente. Scrivere un racconto è qualcosa
che piace perché diverte mentre lo si fa. Cioè mentre io narro la storia dei
vari protagonisti eccetera, io mi vivo queste cose, oppure immagino le emozioni
che possono dare ad altri, cioè costruisco un altro racconto, come se scrivendo
un racconto man mano che lo scrivo a fianco c'è sempre un altro racconto che si
costruisce. Come dire che scrivo questo racconto per costruirne un altro che
può essere le scene che io immagino oppure ciò che io immagino che altri
possano provare leggendo le cose che vado scrivendo, c'è sempre, comunque, un
altro racconto, quindi scrivo questo racconto perché possa darsi quest'altro
racconto.
Ma
è sempre così? Cioè si racconta per poter far esistere un altro racconto? Ci
sono situazioni in cui non è così. A chi viene in mente una situazione in cui
non è così?
Vediamo
un po', un racconto che non rinvia a nessun altro racconto.
Intervento:…
È
un racconto che non innesca nulla, come se non rinviasse a niente. Questo altro
racconto che si scrive mentre si racconta, che si scrive nel senso che si
produce nel momento in cui si racconta il racconto in effetti è il rinvio, così
come quando uno dice una qualunque cosa questo qualcosa rinvia ad altre
proposizioni, necessariamente. Quindi un racconto che non produce un altro
racconto, non rinvia ad un altro racconto è una contraddizione in termini
perché vuol dire che non produce nulla, come fa a non produrre nulla?
Necessariamente produce qualcosa e, quindi, qualunque racconto produce un altro
racconto. Esattamente così come dicevamo che qualunque parola produce un alta
parola. Però ciò che a noi sta interessando non è soltanto stabilire che
ciascun racconto produce un altro racconto, ciò che a noi interessa è potere
affermare in modo categorico che un qualunque racconto non solo produce un
altro racconto ma non ha nessun altro obbiettivo all'infuori di questo. Questo
è il passo che dobbiamo compiere. Potremmo prendere la cosa più semplicemente
affermando che qualunque altro racconto si produca a partire dal primo è
inevitabile è che qualunque cosa un racconto produca, qualunque sia il motivo
per cui si racconta questo è comunque un altro racconto. Io scrivo perché la
casa editrice mi ha commissionato una novella di trenta cartelle e mi dà due
milioni ogni volta che ne faccio una, quindi della novella che scrivo non me ne
importa nulla, m'interessa l'assegno circolare, ma anche in questo caso la
scrittura del racconto al di là del fatto che comunque non è casuale è inserita
all'interno di un altro racconto che è quello dove c'è lui che deve guadagnare
due milioni e che con quei soldi se ne va due settimane da qualche parte,
mentre scrive questa novella pensa già che incasserà quei soldi ecc. Non c'è
attività umana che non sia un racconto che produce un altro racconto, se
esistesse sarebbe una contraddizione di termini e sarebbe fuori dal linguaggio.
Pare una prerogativa del linguaggio quella di costruire proposizioni, una certa
configurazione che è quella del racconto per produrre altri racconti, come dire
che un racconto produce un altro racconto e questo è il suo obbiettivo, e così
via all’infinito. Ma non c'è nessun altro obbiettivo, cioè il fatto di
andarmene due settimane da qualche parte con i due milioni incassati dalla casa
editrice non è un obbiettivo? Certo, ma di che cosa è fatto? Di pensieri, di immagini,
una serie di costruzioni, di pensieri, di proposizioni più o meno credute.
Intervento: C'è anche l'ostacolo. Perché se io scrivo un racconto che non piace non prendo i due milioni e non vado da nessuna parte.
Chiaro,
c'è sempre l'ostacolo. Sì, potremmo dire che non c'è attività umana che non sia
un racconto, bisogna ancora precisare che non c'è attività umana che sia altro
da un racconto. Per intendere bene questo possiamo considerare qualunque
finalità, qualunque obbiettivo anche il più nobile e tra i più bassi che gli
umani si pongono e considerare se questi sono un racconto oppure no.
Allora,
una meta un obbiettivo che non sia un racconto, provate a trovarne uno. Per
esempio la prosecuzione della specie, è un obbiettivo. Il fatto che la specie
umana prosegua anziché arrestarsi. Taluni lo considerano un obbiettivo nobile,
la procreazione, mediamente è considerata un nobile obbiettivo per cui tutto
ciò che attiene a questo ha un che di sacro, di degno. Provate a riflettere
bene, perché una persona deve giungere a una conclusione del genere, tale per
cui la specie deve proseguire? Potremmo così, sfacciatamente porci la questione
che cosa gliene cale?
Intervento: Però la questione dell'azione nobile è un po' arbitraria.
Sì,
certo mi attenevo al luogo comune, generalmente si pensa così. Perché, dunque,
la vita della specie umana deve proseguire? Perché tutto si fa perché possa
proseguire. Chi ha stabilito questo? Provate a riflettere bene. Se ci
riflettete cominciate a trovare una serie sterminata di fantasie, come
definirebbe ad esempio, Elisabetta, una fantasia, se non come un racconto?
Dunque questa cosa è sostenuta da dei racconti i quali sono sostenuti da altri
racconti e alla fine che c'è se non un altro racconto? Qualunque obbiettivo gli
umani si pongano è inesorabilmente un racconto sostenuto da altri racconti.
Qualunque
obbiettivo, dunque anche il più nobile, è sostenuto da un racconto. Possono
essere più o meno articolati, più o meno interessanti ma sono racconti e cioè
una sequenza di proposizioni coerenti tra loro e connesse tra loro, così
abbiamo definito la cosa. Sostenere che il proseguimento della specie umana è
un obbiettivo più nobile di un qualunque altro è sostenibile da altri racconti,
i quali racconti sono sostenuti da altri racconti e alla fine di tutto c'è un
altro racconto. Quindi è una decisione, io decido che è così. Perché? Per
niente. Questa è la questione. Perché ho deciso così? Per niente, assolutamente
niente. Questa è la solitudine in cui si trova l'analista della parola, qualunque
sua decisione è per niente. Non ha nessun obbiettivo ha solo un racconto il
quale è per niente o, più propriamente, per se stesso.
Perché
se ciascun racconto rinvia necessariamente ad un altro e così all'infinito
allora non ci resta che ciascun racconto non ha nessun altro obbiettivo se non
un altro racconto. Esattamente ciò che volevamo stabilire, nessun altro
obbiettivo. Tutti i nobili intenti, i nobili propositi hanno come obbiettivo
semplicemente la costruzione di un altro racconto. Perché? Per un altro
racconto e avanti all'infinito. Questo dà un ulteriore colpo a tutto il
discorso occidentale e rende il discorso che stiamo facendo ancora più arduo e
più devastante.
Tuttavia
è difficile giungere a conclusioni differenti, si prosegue in termini rigorosi.
In effetti poi, se considerate attentamente, ciò che cambia non è la vostra
condotta, le cose che fate, continuate a fare le stesse cose, però con una
particolarità, l'avevamo già acquisita e cioè che qualunque cosa si faccia è
assolutamente fine a se stessa. Fine a se stessa in quanto qualunque obbiettivo
si ponga è fine a se stesso, ciascun elemento è fine a se stesso come ciascun
racconto, non posso costruire nulla che sia realizzabile a qualcosa che è fuori
dalla parola. Questo comporta sì, certo, una libertà notevole, ma una sempre
maggiore solitudine, possiamo chiamarla così, solitudine che consiste nello
stare da soli, ovviamente. Ma la distanza immensa da tutto ciò che è creduto
dai più, che è seguito e perseguito, questa distanza immensa è irreversibile. E
quindi allora qualcuno potrebbe chiedersi ma allora che si vive a fare? La
questione può essere presa in vari modi, il modo più appropriato sarebbe quello
di porre un'altra questione fondamentale e cioè perché ci si pone questa
domanda? Che è più interessante. Perché la risposta a questa domanda comporta
il fatto che vivere debba avere necessariamente uno scopo e, quindi, parte da
un pregiudizio, che qualunque cosa debba avere uno scopo. Naturalmente è
possibile credere una cosa del genere se e soltanto se non ci si è mai posti
domande intorno a che cosa sia un obbiettivo o un fine, cosa lo sostenga.
Dirsi,
la mia vita non ha nessuno scopo non ha nessun senso. O, come accade spesso,
siccome non sono utile a nessuno allora...
E
come se io leggessi una fiaba e prendessi ciò che viene raccontato in questa
fiaba come ciò a cui io dovessi attenermi scrupolosamente, per cui non vado nel
bosco perché c'è il lupo cattivo e poi incontro l'orco e quindi non vado in
giro per il mondo, è esattamente la stessa struttura, cioè io credo un racconto
che si è prodotto a partire da vari elementi e mi attengo a questo racconto,
perché il fine di questo racconto non è produrre un altro racconto ma stabilire
una morale e definire qualcosa che è fuori dal linguaggio.
Se
il Papa affermasse che, dopo aver affermato che l'inferno c’è ma non si vede,
che ciò che ha detto è soltanto perché così, perché questo è consentito di
pensare, chiaramente non sarebbe più credibile. E qui torniamo a ciò che
dicevamo due settimane fa intorno al fatto della descrittività, la possibilità
di descrivere qualcosa; generalmente il racconto è immaginato descrivere delle
cose e il suo fine è appunto la descrizione di queste cose, stabilire, per
esempio, come stanno le cose e non la costruzione di un altro racconto il quale
ha come fine la descrizione di un altro racconto che, altrimenti, questa
descrizione non ha nessuna portata. E qui sta la distanza tra il discorso che
stiamo facendo e il discorso occidentale, il quale racconta per descrivere,
cioè per stabilire come stanno le cose. Il modo in cui lo stiamo ponendo il
racconto non ha nessun altro fine che se stesso e se descrive le cose non
descrive uno stato di fatto, semplicemente costruisce proposizioni sapendo di
volta in volta qual'è il gioco che sta giocando. Se Beatrice mi chiede se
dentro questa sigaretta c'è tabacco oppure nitroglicerina che al contatto con
la fiamma esplode rispondo che c'è tabacco, all'interno del gioco che stiamo
facendo questa è la risposta che attiene, che funziona in questo gioco.
Due
cose, quindi: sapere quali sono le regole del gioco che si sta facendo e sapere
che il gioco è fine a se stesso, questo è quanto abbiamo costruito in questi
anni, che pare, all'interno del discorso occidentale, assolutamente devastante.
Così come il discorso scientifico, l'abbiamo detto varie volte, il discorso
filosofico, muove da assiomi, da principi che non può provare, a partire da
quelli costruisce tutta una serie di cose che non significano niente. La
filosofia non può descrivere uno stato di fatto delle cose, non può descrivere
che cos'è l'essere, che cos'è l'esistenza, cosa è e cosa non è, non lo può fare
perché questo è un gioco qualunque e fuori da queste regole del gioco quello
che sto dicendo non significa assolutamente niente.
Il
gioco del discorso occidentale, dovere credere necessariamente per non piombare
in ciò che è avvertito come il nulla, lo dicevamo qualche tempo fa, di come e
perché sorge il discorso religioso, il quale garantisce che il discorso
prosegua come se di fronte al paradosso, all'antinomia del linguaggio fosse
l'unica salvezza perché altrimenti qualunque cosa va bene quindi nulla ha più
senso. Questa è una questione che dobbiamo riprendere, perché è molto
importante. Perché il discorso religioso? Ce lo siamo chiesti per anni, come
mai gli umani credono una cosa del genere. È la paura della morte, è la stessa
cosa, è la paura del discorso che si arresta. Ma perché non possono pensare che
il discorso prosegue lo stesso? E qui abbiamo introdotto un elemento che
riguarda la struttura del discorso. In ogni caso dicevamo che per intendere ciò
che andiamo dicendo occorre illustrare il funzionamento del linguaggio. Ora i
casi sono due: o nessuno ci è mai arrivato o è stato costruito questo discorso
occidentale perché è l'unico modo in cui è possibile tenere il controllo sul
prossimo. Oppure entrambe le cose, di fatto la struttura del linguaggio così
come lo abbiamo elaborato in questi ultimi anni non si trova da nessuna parte
illustrato in questo modo.
C'è
l'eventualità che nessuno ci sia arrivato.
Intervento:…
Sì,
però la domanda che mi ponevo si volgeva a qualcosa di più antico, come è
avvenuto che sia sorto il discorso religioso? Perché si è pensato che senza una
direzione precisa il discorso potesse arrestarsi e, in effetti, se non si
giunge attraverso una riflessione intorno al linguaggio che non giunga al punto
in cui siamo giunti noi, probabilmente è inevitabile pensare questo. Che se non
c'è una direzione, così come può avvenire nel caso dei paradossi, allora il
discorso si arresta.
Intervento:…
Se
io dicessi così, con un hápax legómenon, hápax legómenon è un elemento che
interviene una volta sola, che la sensazione è l'ultima mossa di un gioco
qualunque esso sia. Dicendo che è l'ultima mossa di un gioco ovviamente non mi
riferisco ad un gioco con le carte o con gli scacchi, anche ma non soltanto.
Anche all'interno di un gioco come il poker possono inserirsi altri giochi.
Ciascuna volta l'ultima mossa di quel gioco è la sensazione, adesso lo dico
così poi lo preciseremo in seguito. Vedremo se è proprio esattamente così o no.
Il
problema del discorso occidentale è il fatto che i rinvii sono infiniti,
infatti una buona parte anche dei teologi, Tommaso in prima fila, era
terrorizzato da questa eventualità, se c’è il rinvio all'infinito non è
possibile stabilire nulla, non è possibile credere a nulla, quindi non è
possibile costruire nessuna religione. E questa è stata la spada di Damocle del
discorso occidentale. Del discorso occidentale così come è costruito, esige che
una cosa, per poter essere affermata in modo assoluto sia necessaria, che sia
necessario che sia, uno può sempre chiedere perché? E lì, diventa dura.
Intervento: Così come non si può rispondere ad un bambino che chiede perché, ad un certo punto infastidisce. Si può andare avanti tutta la vita, non c'è la risposta.
La
questione è che ciascun gioco ha una risposta ovviamente che è fornita dalle
regole per cui esiste, il problema del discorso occidentale è che questi giochi
non sono considerati tali, le regole del gioco sono considerate, in molti casi,
delle regole naturali, da qui sorgono problemi di proporzioni bibliche. Che se
fosse così allora la risposta alla domanda perché dovrebbe essere una risposta
definitiva e invece no. È la maledizione del discorso occidentale, non avendo
inteso la struttura del linguaggio e condannato a correre dietro alla sua
struttura, come il gatto che corre dietro la sua coda, non va da nessuna parte
e continua a girare in tondo.
Intervento: Pensavo alla sensazione, cercavo di definirla.
Ciascuna
volta in cui qualcuno ha una buona idea prova una sensazione piacevole. Però
c'è l'eventualità che sia connessa con il chiudersi di un gioco, però dobbiamo
pensarci bene.
Intervento:…
La
sensazione, generalmente, è definita come uno stato d'animo che varia, una
variazione avvertita di stato d'animo, una percezione. Una percezione di freddo
è ascritta alla percettività fisica. In linea di massima è accorgersi di una
variazione di uno stato percettivo.
Intervento:
Sì, però io lo chiamo freddo, sento qualcosa che posso chiamare freddo. Predico
di questo qualcosa che sta avvenendo: freddo.
Intervento: Nel discorso che stiamo facendo dovrebbe essere abolita la sensazione. In un certo qual modo, sapendo che è parola, non si dovrebbe neanche arrivare alla sensazione, ad uno stato d'animo diverso.
Quando
io trovo un pensiero o risolvo un quesito che mi sono posto provo una
sensazione piacevole che è fatta appunto di questa conclusione di un gioco che
è in atto. So bene che si tratta di un atto linguistico, un atto linguistico
può essere piacevole. In effetti anche il luogo comune definisce la sensazione
in modo simile cioè questo cambiamento vuol dire che non è più quello di prima
cioè qualcosa si è concluso, ne comincia un altro. Sì, così va meglio, forse è
questa la direzione.
Ci
vediamo giovedì prossimo.