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29 Luglio 1999

 

 

Dobbiamo verificare se, come andiamo dicendo, tutto ciò che avviene sul pianeta avvenga con il solo scopo di raccontare qualcosa.

Dicevo l'altra volta tutto ciò che ciascuno fa, pensa, immagina, sogna spera e dispera non abbia nessun altro obbiettivo se non quello di proseguire il suo racconto.

La questione è interessante, pone in effetti in prima istanza un elemento che può essere di notevole dirompenza perché elimina qualunque obbiettivo, dalla felicità altrui alla propria, tutto questo cessa di avere un valore. Come se diventasse nulla, cioè diventasse quello che probabilmente è e cioè una figura retorica all'interno di un racconto. Dunque raccontare, dicevamo, è esporre, esporre che cosa? Dei fatti? Forse più propriamente esporre delle fantasie cioè delle altre costruzioni, o più propriamente ancora esporre delle fantasie. Le fantasie non sono altro che una serie di proposizioni che vengono costruite dal discorso, ma in ogni caso potremmo dire ancora più semplicemente che raccontare è dire, dire qualunque cosa.

Nel racconto, come sappiamo l'abbiamo visto la volta scorsa, c'è un elemento da cui si parte per giungere ad una conclusione. La conclusione è importante nel racconto, quando qualcuno chiede ma dove vuoi andare a parare con tutte queste storie vuole la conclusione a tutti gli effetti, la conclusione allude all'utilizzo del racconto. Un racconto ha sempre una conclusione, cioè ha un utilizzo per un altro racconto. Prendete ad esempio, faccio un esempio molto banale, la morale nelle fiabe ha un utilizzo per un altro racconto, serve perché se io so che i cattivi saranno puniti e i buoni saranno premiati allora il racconto che seguirà terrà conto di questo aspetto, e quindi il racconto successivo sarà costruito a partire da questa morale, i cattivi saranno puniti con l'inferno ed i buoni andranno in paradiso.

Dunque, il fatto che un racconto abbia una conclusione qualunque essa sia e perché occorre che essa sia utilizzabile per altri racconti, esattamente come ciascuna proposizione occorre che sia utilizzabile da altre proposizioni, se non è utilizzabile è un problema, non serve a niente e non entra a far parte di nessun gioco.

Intervento: però potrebbe essere il racconto religioso.

Io sto usando termini molto generali in cui rientra anche il racconto religioso, anche lui ha una sua morale ed è utilizzabile perché se io so che c'è l'inferno e il paradiso allora i racconti che io farò terranno conto di questo aspetto.

Tenuto conto del fatto che qualunque racconto ha una conclusione, questa conclusione non è altro che la possibilità di essere utilizzata da altri racconti, possiamo valutare che anche il gioco ha una conclusione che ha questo obbiettivo: il poter essere utilizzata per altri giochi. Provate a riflettere ad un qualunque gioco, qualunque gioco ha una conclusione, la fine di una partita. Questo fine della partita, questa conclusione, proviamo a considerare se ha un valore unicamente perché utilizzabile in altri giochi o in altre partite. Un gioco che è concluso che cosa lascia dietro di sé? Una serie di mosse, di operazioni, queste operazioni possono aver condotto alla vittoria o alla sconfitta, al piacere o al dispiacere, a seconda dei casi, ma ciascuna volta le operazioni che si sono compiute saranno tenute in conto nella partita successiva. Per essere ripetute, se si è vinto, per essere modificate se si è perso.

Pensate ad un gioco che può essere giocato una volta sola e mai più. Potrebbe essere interessante? In effetti una delle prerogative del gioco è la sua ripetitività. Perché deve essere ripetibile? Perché ciascuna partita, o meglio, la conclusione di ciascuna partita va a segnare, dunque a costruire la partita successiva.

Qualcuno terrà conto, che so , che ha fatto degli errori giocando a poker e quindi cerca di non commetterli più, per esempio. Un gioco che può essere giocato una volta sola e mai più non può essere giocato, in effetti non ha nessun interesse, perché non si può acquisire nulla, non può essere ripetuto. Lo stesso motivo per cui non interessano i giochi di puro azzardo, che ne so, vince chi tira su la carta più alta, questo generalmente è l'inizio di un gioco per stabilire chi può cominciare ma il gioco fine a se stesso è una stupidaggine. Perché non lascia nulla al giocatore e infatti non viene giocato, non ha nessun interesse.

Come dire che un aspetto importante del gioco così come del racconto è la sua ripetitibilità, è il fatto che ciascuna partita, come ciascun racconto, apre ad un'altra partita o ad un altro racconto.

Viene da domandarsi se si racconta, per esempio un racconto, perché ci sia un altro racconto. Potrebbe essere. Potrebbe darsi un racconto perché non ci sia più nessun altro racconto? Difficile. Quale è il bello di un racconto, Cesare?

Intervento: Il bello di un racconto sta nei rinvii, le connessioni che sono costruite.

Quando si legge un romanzo, per esempio, mentre lo si legge si costruisce una specie di scena, se lei e io leggiamo lo stesso romanzo non è detto che costruiamo la stessa scena , che ci immaginiamo un paesaggio o una stanza che è descritta allo stesso modo, come dire che leggendo il romanzo se ne costruisce letteralmente un altro da ciò che si legge, quindi il racconto nel momento stesso in cui si racconta è un altro racconto, costruisce più propriamente un altro racconto. Come se ogni volta che si racconta si costruisce un altro racconto. A partire da questo testo che ciascuno legge, ascolta come gli pare, ci sono dei personaggi, ad uno un personaggio è simpaticissimo ad un altro è inviso. Vuol dire che si sono costruiti due racconti diversi.

Se l'obbiettivo del racconto è quello di fare provare emozioni, fare rivivere le stesse cose che vivono i protagonisti del racconto, allora effettivamente il racconto ha la funzione di costruire un altro racconto che è quello che ciascuno gli costruisce sopra. Perché uno scrive un racconto? Perché si diverte facendolo, in genere avviene così.

Intervento: oppure è l'obbiettivo a cui vuole arrivare.

Sì, ma che sia quello l'obbiettivo è indifferente. Scrivere un racconto è qualcosa che piace perché diverte mentre lo si fa. Cioè mentre io narro la storia dei vari protagonisti eccetera, io mi vivo queste cose, oppure immagino le emozioni che possono dare ad altri, cioè costruisco un altro racconto, come se scrivendo un racconto man mano che lo scrivo a fianco c'è sempre un altro racconto che si costruisce. Come dire che scrivo questo racconto per costruirne un altro che può essere le scene che io immagino oppure ciò che io immagino che altri possano provare leggendo le cose che vado scrivendo, c'è sempre, comunque, un altro racconto, quindi scrivo questo racconto perché possa darsi quest'altro racconto.

Ma è sempre così? Cioè si racconta per poter far esistere un altro racconto? Ci sono situazioni in cui non è così. A chi viene in mente una situazione in cui non è così?

Vediamo un po', un racconto che non rinvia a nessun altro racconto.

Intervento:…

È un racconto che non innesca nulla, come se non rinviasse a niente. Questo altro racconto che si scrive mentre si racconta, che si scrive nel senso che si produce nel momento in cui si racconta il racconto in effetti è il rinvio, così come quando uno dice una qualunque cosa questo qualcosa rinvia ad altre proposizioni, necessariamente. Quindi un racconto che non produce un altro racconto, non rinvia ad un altro racconto è una contraddizione in termini perché vuol dire che non produce nulla, come fa a non produrre nulla? Necessariamente produce qualcosa e, quindi, qualunque racconto produce un altro racconto. Esattamente così come dicevamo che qualunque parola produce un alta parola. Però ciò che a noi sta interessando non è soltanto stabilire che ciascun racconto produce un altro racconto, ciò che a noi interessa è potere affermare in modo categorico che un qualunque racconto non solo produce un altro racconto ma non ha nessun altro obbiettivo all'infuori di questo. Questo è il passo che dobbiamo compiere. Potremmo prendere la cosa più semplicemente affermando che qualunque altro racconto si produca a partire dal primo è inevitabile è che qualunque cosa un racconto produca, qualunque sia il motivo per cui si racconta questo è comunque un altro racconto. Io scrivo perché la casa editrice mi ha commissionato una novella di trenta cartelle e mi dà due milioni ogni volta che ne faccio una, quindi della novella che scrivo non me ne importa nulla, m'interessa l'assegno circolare, ma anche in questo caso la scrittura del racconto al di là del fatto che comunque non è casuale è inserita all'interno di un altro racconto che è quello dove c'è lui che deve guadagnare due milioni e che con quei soldi se ne va due settimane da qualche parte, mentre scrive questa novella pensa già che incasserà quei soldi ecc. Non c'è attività umana che non sia un racconto che produce un altro racconto, se esistesse sarebbe una contraddizione di termini e sarebbe fuori dal linguaggio. Pare una prerogativa del linguaggio quella di costruire proposizioni, una certa configurazione che è quella del racconto per produrre altri racconti, come dire che un racconto produce un altro racconto e questo è il suo obbiettivo, e così via all’infinito. Ma non c'è nessun altro obbiettivo, cioè il fatto di andarmene due settimane da qualche parte con i due milioni incassati dalla casa editrice non è un obbiettivo? Certo, ma di che cosa è fatto? Di pensieri, di immagini, una serie di costruzioni, di pensieri, di proposizioni più o meno credute.

Intervento: C'è anche l'ostacolo. Perché se io scrivo un racconto che non piace non prendo i due milioni e non vado da nessuna parte.

Chiaro, c'è sempre l'ostacolo. Sì, potremmo dire che non c'è attività umana che non sia un racconto, bisogna ancora precisare che non c'è attività umana che sia altro da un racconto. Per intendere bene questo possiamo considerare qualunque finalità, qualunque obbiettivo anche il più nobile e tra i più bassi che gli umani si pongono e considerare se questi sono un racconto oppure no.

Allora, una meta un obbiettivo che non sia un racconto, provate a trovarne uno. Per esempio la prosecuzione della specie, è un obbiettivo. Il fatto che la specie umana prosegua anziché arrestarsi. Taluni lo considerano un obbiettivo nobile, la procreazione, mediamente è considerata un nobile obbiettivo per cui tutto ciò che attiene a questo ha un che di sacro, di degno. Provate a riflettere bene, perché una persona deve giungere a una conclusione del genere, tale per cui la specie deve proseguire? Potremmo così, sfacciatamente porci la questione che cosa gliene cale?

Intervento: Però la questione dell'azione nobile è un po' arbitraria.

Sì, certo mi attenevo al luogo comune, generalmente si pensa così. Perché, dunque, la vita della specie umana deve proseguire? Perché tutto si fa perché possa proseguire. Chi ha stabilito questo? Provate a riflettere bene. Se ci riflettete cominciate a trovare una serie sterminata di fantasie, come definirebbe ad esempio, Elisabetta, una fantasia, se non come un racconto? Dunque questa cosa è sostenuta da dei racconti i quali sono sostenuti da altri racconti e alla fine che c'è se non un altro racconto? Qualunque obbiettivo gli umani si pongano è inesorabilmente un racconto sostenuto da altri racconti.

Qualunque obbiettivo, dunque anche il più nobile, è sostenuto da un racconto. Possono essere più o meno articolati, più o meno interessanti ma sono racconti e cioè una sequenza di proposizioni coerenti tra loro e connesse tra loro, così abbiamo definito la cosa. Sostenere che il proseguimento della specie umana è un obbiettivo più nobile di un qualunque altro è sostenibile da altri racconti, i quali racconti sono sostenuti da altri racconti e alla fine di tutto c'è un altro racconto. Quindi è una decisione, io decido che è così. Perché? Per niente. Questa è la questione. Perché ho deciso così? Per niente, assolutamente niente. Questa è la solitudine in cui si trova l'analista della parola, qualunque sua decisione è per niente. Non ha nessun obbiettivo ha solo un racconto il quale è per niente o, più propriamente, per se stesso.

Perché se ciascun racconto rinvia necessariamente ad un altro e così all'infinito allora non ci resta che ciascun racconto non ha nessun altro obbiettivo se non un altro racconto. Esattamente ciò che volevamo stabilire, nessun altro obbiettivo. Tutti i nobili intenti, i nobili propositi hanno come obbiettivo semplicemente la costruzione di un altro racconto. Perché? Per un altro racconto e avanti all'infinito. Questo dà un ulteriore colpo a tutto il discorso occidentale e rende il discorso che stiamo facendo ancora più arduo e più devastante.

Tuttavia è difficile giungere a conclusioni differenti, si prosegue in termini rigorosi. In effetti poi, se considerate attentamente, ciò che cambia non è la vostra condotta, le cose che fate, continuate a fare le stesse cose, però con una particolarità, l'avevamo già acquisita e cioè che qualunque cosa si faccia è assolutamente fine a se stessa. Fine a se stessa in quanto qualunque obbiettivo si ponga è fine a se stesso, ciascun elemento è fine a se stesso come ciascun racconto, non posso costruire nulla che sia realizzabile a qualcosa che è fuori dalla parola. Questo comporta sì, certo, una libertà notevole, ma una sempre maggiore solitudine, possiamo chiamarla così, solitudine che consiste nello stare da soli, ovviamente. Ma la distanza immensa da tutto ciò che è creduto dai più, che è seguito e perseguito, questa distanza immensa è irreversibile. E quindi allora qualcuno potrebbe chiedersi ma allora che si vive a fare? La questione può essere presa in vari modi, il modo più appropriato sarebbe quello di porre un'altra questione fondamentale e cioè perché ci si pone questa domanda? Che è più interessante. Perché la risposta a questa domanda comporta il fatto che vivere debba avere necessariamente uno scopo e, quindi, parte da un pregiudizio, che qualunque cosa debba avere uno scopo. Naturalmente è possibile credere una cosa del genere se e soltanto se non ci si è mai posti domande intorno a che cosa sia un obbiettivo o un fine, cosa lo sostenga.

Dirsi, la mia vita non ha nessuno scopo non ha nessun senso. O, come accade spesso, siccome non sono utile a nessuno allora...

E come se io leggessi una fiaba e prendessi ciò che viene raccontato in questa fiaba come ciò a cui io dovessi attenermi scrupolosamente, per cui non vado nel bosco perché c'è il lupo cattivo e poi incontro l'orco e quindi non vado in giro per il mondo, è esattamente la stessa struttura, cioè io credo un racconto che si è prodotto a partire da vari elementi e mi attengo a questo racconto, perché il fine di questo racconto non è produrre un altro racconto ma stabilire una morale e definire qualcosa che è fuori dal linguaggio.

Se il Papa affermasse che, dopo aver affermato che l'inferno c’è ma non si vede, che ciò che ha detto è soltanto perché così, perché questo è consentito di pensare, chiaramente non sarebbe più credibile. E qui torniamo a ciò che dicevamo due settimane fa intorno al fatto della descrittività, la possibilità di descrivere qualcosa; generalmente il racconto è immaginato descrivere delle cose e il suo fine è appunto la descrizione di queste cose, stabilire, per esempio, come stanno le cose e non la costruzione di un altro racconto il quale ha come fine la descrizione di un altro racconto che, altrimenti, questa descrizione non ha nessuna portata. E qui sta la distanza tra il discorso che stiamo facendo e il discorso occidentale, il quale racconta per descrivere, cioè per stabilire come stanno le cose. Il modo in cui lo stiamo ponendo il racconto non ha nessun altro fine che se stesso e se descrive le cose non descrive uno stato di fatto, semplicemente costruisce proposizioni sapendo di volta in volta qual'è il gioco che sta giocando. Se Beatrice mi chiede se dentro questa sigaretta c'è tabacco oppure nitroglicerina che al contatto con la fiamma esplode rispondo che c'è tabacco, all'interno del gioco che stiamo facendo questa è la risposta che attiene, che funziona in questo gioco.

Due cose, quindi: sapere quali sono le regole del gioco che si sta facendo e sapere che il gioco è fine a se stesso, questo è quanto abbiamo costruito in questi anni, che pare, all'interno del discorso occidentale, assolutamente devastante. Così come il discorso scientifico, l'abbiamo detto varie volte, il discorso filosofico, muove da assiomi, da principi che non può provare, a partire da quelli costruisce tutta una serie di cose che non significano niente. La filosofia non può descrivere uno stato di fatto delle cose, non può descrivere che cos'è l'essere, che cos'è l'esistenza, cosa è e cosa non è, non lo può fare perché questo è un gioco qualunque e fuori da queste regole del gioco quello che sto dicendo non significa assolutamente niente.

Il gioco del discorso occidentale, dovere credere necessariamente per non piombare in ciò che è avvertito come il nulla, lo dicevamo qualche tempo fa, di come e perché sorge il discorso religioso, il quale garantisce che il discorso prosegua come se di fronte al paradosso, all'antinomia del linguaggio fosse l'unica salvezza perché altrimenti qualunque cosa va bene quindi nulla ha più senso. Questa è una questione che dobbiamo riprendere, perché è molto importante. Perché il discorso religioso? Ce lo siamo chiesti per anni, come mai gli umani credono una cosa del genere. È la paura della morte, è la stessa cosa, è la paura del discorso che si arresta. Ma perché non possono pensare che il discorso prosegue lo stesso? E qui abbiamo introdotto un elemento che riguarda la struttura del discorso. In ogni caso dicevamo che per intendere ciò che andiamo dicendo occorre illustrare il funzionamento del linguaggio. Ora i casi sono due: o nessuno ci è mai arrivato o è stato costruito questo discorso occidentale perché è l'unico modo in cui è possibile tenere il controllo sul prossimo. Oppure entrambe le cose, di fatto la struttura del linguaggio così come lo abbiamo elaborato in questi ultimi anni non si trova da nessuna parte illustrato in questo modo.

C'è l'eventualità che nessuno ci sia arrivato.

Intervento:…

Sì, però la domanda che mi ponevo si volgeva a qualcosa di più antico, come è avvenuto che sia sorto il discorso religioso? Perché si è pensato che senza una direzione precisa il discorso potesse arrestarsi e, in effetti, se non si giunge attraverso una riflessione intorno al linguaggio che non giunga al punto in cui siamo giunti noi, probabilmente è inevitabile pensare questo. Che se non c'è una direzione, così come può avvenire nel caso dei paradossi, allora il discorso si arresta.

Intervento:…

Se io dicessi così, con un hápax legómenon, hápax legómenon è un elemento che interviene una volta sola, che la sensazione è l'ultima mossa di un gioco qualunque esso sia. Dicendo che è l'ultima mossa di un gioco ovviamente non mi riferisco ad un gioco con le carte o con gli scacchi, anche ma non soltanto. Anche all'interno di un gioco come il poker possono inserirsi altri giochi. Ciascuna volta l'ultima mossa di quel gioco è la sensazione, adesso lo dico così poi lo preciseremo in seguito. Vedremo se è proprio esattamente così o no.

Il problema del discorso occidentale è il fatto che i rinvii sono infiniti, infatti una buona parte anche dei teologi, Tommaso in prima fila, era terrorizzato da questa eventualità, se c’è il rinvio all'infinito non è possibile stabilire nulla, non è possibile credere a nulla, quindi non è possibile costruire nessuna religione. E questa è stata la spada di Damocle del discorso occidentale. Del discorso occidentale così come è costruito, esige che una cosa, per poter essere affermata in modo assoluto sia necessaria, che sia necessario che sia, uno può sempre chiedere perché? E lì, diventa dura.

Intervento: Così come non si può rispondere ad un bambino che chiede perché, ad un certo punto infastidisce. Si può andare avanti tutta la vita, non c'è la risposta.

La questione è che ciascun gioco ha una risposta ovviamente che è fornita dalle regole per cui esiste, il problema del discorso occidentale è che questi giochi non sono considerati tali, le regole del gioco sono considerate, in molti casi, delle regole naturali, da qui sorgono problemi di proporzioni bibliche. Che se fosse così allora la risposta alla domanda perché dovrebbe essere una risposta definitiva e invece no. È la maledizione del discorso occidentale, non avendo inteso la struttura del linguaggio e condannato a correre dietro alla sua struttura, come il gatto che corre dietro la sua coda, non va da nessuna parte e continua a girare in tondo.

Intervento: Pensavo alla sensazione, cercavo di definirla.

Ciascuna volta in cui qualcuno ha una buona idea prova una sensazione piacevole. Però c'è l'eventualità che sia connessa con il chiudersi di un gioco, però dobbiamo pensarci bene.

Intervento:…

La sensazione, generalmente, è definita come uno stato d'animo che varia, una variazione avvertita di stato d'animo, una percezione. Una percezione di freddo è ascritta alla percettività fisica. In linea di massima è accorgersi di una variazione di uno stato percettivo.

Intervento: Sì, però io lo chiamo freddo, sento qualcosa che posso chiamare freddo. Predico di questo qualcosa che sta avvenendo: freddo.

Intervento: Nel discorso che stiamo facendo dovrebbe essere abolita la sensazione. In un certo qual modo, sapendo che è parola, non si dovrebbe neanche arrivare alla sensazione, ad uno stato d'animo diverso.

Quando io trovo un pensiero o risolvo un quesito che mi sono posto provo una sensazione piacevole che è fatta appunto di questa conclusione di un gioco che è in atto. So bene che si tratta di un atto linguistico, un atto linguistico può essere piacevole. In effetti anche il luogo comune definisce la sensazione in modo simile cioè questo cambiamento vuol dire che non è più quello di prima cioè qualcosa si è concluso, ne comincia un altro. Sì, così va meglio, forse è questa la direzione.

Ci vediamo giovedì prossimo.